Ricerca

costruttoridifuturo

Builders of the future

Tag

#architettura

Droga per architetti


2

Durisch & Nolli, progetto primo classificato al concorso AIM.
Mendrisio 2015

TESTIMONIANZA – Ho lavorato, per un lungo periodo, tra il 1988 ed il 1991, per un’architetto di Milano, geniale e simpatico (che chiameremo Patsy, come il personaggio di Bonvi). Patsy, aveva 45 anni, pesava ben oltre i 100 chili, ed era alto più di centonovanta centimetri. Il suo bagaglio culturale spaziava a 360 gradi, dall’architettura alla letteratura, all’universo femminile, passando per la cucina (di cui era un raffinato interprete).

Costui, di buona (e ricca) famiglia dell’alta borghesia milanese, era stato assistente al Politecnico di un noto teorico dell’architettura, che poi sarebbe diventato Preside della Facoltà di Architettura.

La moglie (più giovane di qualche anno), di origine spagnola, lavorava con lui essendo anch’essa architetto. I due avevano una bella casa in affitto nel centro di Milano, vicino alla Chiesa di Santa Maria delle Grazie. Lo studio di Patsy (da lui stesso ristrutturato), ovviamente si trovava in zona Navigli, e vagamente assomigliava allo studio di Le Corbusier di Rue De Sevres a Parigi. La vasta biblioteca dello studio contava oltre 4.000 volumi; gli acquisti si succedevano a ritmo incessante.

Patsy aveva un unico difetto : era letteralmente “impossessato” dal morbo dei concorsi di architettura. Lui e la moglie, vivevano letteralmente per la competizione, trovando li, la sublimazione del loro rapporto. I concorsi di architettura, per loro erano come una droga, oltre che un motivo di vita.

Negli anni che ho lavorato per loro, si realizzavano tra gli 8 ed i 10 concorsi per anno. Tutta l’attività professionale, ancora incentrata sulla manualità, orbitava attorno ai concorsi di architettura, essi costituivano un momento di ricerca, ma soprattutto erano stati individuati come l’unico momento per fare veramente “L’Architettura”, quella con la “A” maiuscola. Senza compromessi, senza condizionamenti, senza clientela mafiosa (ricordo che allora Milano “era da bere”, saldamente in mano alla gerontocrazia socialista).

Tre, quattro persone, più loro due, lavoravano costantemente in studio, quasi esclusivamente a produrre gli elaborati concorsuali; a cui io mi aggregai in qualità di coordinatore. Pochissima attività professionale redditizia. Facemmo anche molti concorsi internazionali: in Giappone, in Svizzera, in Francia, ecc..

http://www.ticinonews.ch/ticino/260769/nuova-sede-delle-aim-ecco-il-progetto-vincitore

Tutti i concorsi iniziavano con un sopralluogo a cui partecipava tutto lo studio, in cui si vagava in maniera a-finalistica per l’area oggetto dell’intervento, scattando numerose fotografie. Lunghe ed interminabili riunioni (anche notturne) per decidere il progetto, la composizione delle tavole, la scelta della carta da lucido, le tecniche di coloritura degli elaborati finali. La ritualità della chiusura delle buste e dei pacchi, per l’invio degli elaborati (internet ancora non era diffusa), era quasi un “evento” sacro. La consegna talvolta, si trasformava in un finale concorsuale tragico.

Ricordo ancora chiaramente quando Patsy, con la moglie, una volta preparato il tutto, partì dopo una nottata passata a finire le tavole concorsuali, in direzione Firenze. Era inverno, e Patsy (mentre la moglie cercava di tenerlo sveglio) spesso abbassava il finestrino per esporre la testa all’aria fresca, per mantenersi vigile. Arrivato nella città toscana, con largo anticipo, decise di fermarsi appena dopo il casello, per una pennichella in auto, prima della consegna. I due dormirono ben oltre l’orario di consegna, e gli elaborati finirono inevitabilmente incorniciati, su un muro dello studio, ad imperitura memoria.

Gli insuccessi si succedevano con estrema regolarità. I pochi successi, mai compensavano i costi. Le spese della struttura lavorativa erano impressionanti. Già nel 1990,  il fornitore del gas che alimentava la caldaia dello studio, iniziò a piombare le valvole. I pagamenti dei collaboratori si fecero saltuari; il pagamento degli affitti, dei fornitori e delle rate dell’auto una remota eventualità a cui sfuggire in maniera sempre più rocambolesca. I due architetti “succhiato” tutto quello che era credibilmente ottenibile dai parenti, caddero in disgrazia. Lo studio fu chiuso definitivamente nell’estate del 1992 (quasi all’inizio di “Tangentopoli”), anche se ormai era inagibile dall’inverno precedente, senza illuminazione, riscaldamento, e presidiato dai proprietari che rivendicavano numerosi trimestri arretrati di affitto.

Ho rivisto recentemente Patsy, che è stato lasciato dalla moglie (che ha avuto poi due figlie) e si è trasferito vicino a Ravenna, dove si è rifatto una vita anche professionale (ristruttura ville storiche per una società tedesca).

Abbiamo riso assieme davanti ad una birra, ricordando quegli anni “gloriosi”. In particolare abbiamo evocato un incontro con Flora Ruchat, nella sua bellissima casa di Riva San Vitale, per organizzare un “ticket” per partecipare ad un concorso a Locarno. Davanti ad un salamino e ad un bicchiere di vino, presente anche Ivo Trumpy, mentre parlavamo dell’attività concorsuale insieme a Patsy,  essi “disegnarono” a me (giovane architetto di quasi 30 anni), ed a lui, un panorama ben chiaro del “fare concorsi di architettura” in Italia ed in Svizzera.

In Svizzera allora (ma vale anche per oggi) bisogna correre con il “cavallo giusto”. Soprattutto, sempre bisogna avere nel team concorsuale, uno svizzero che abbia una conoscenza molto alta del panorama geo – concorsual – politico, in modo che sia chiaro fin dall’inizio se sia opportuno o meno partecipare. Solo così, l’attività concorsuale può diventare anche un’occasione professionale ripagata dai premi che la giuria ha a disposizione, o dalla costruzione dell’oggetto concorsuale che non è mai un’eventualità remota.

In Italia, invece, di concorsi d’architettura, certamente non si campa, ieri come oggi. I premi sono ridicoli, i bandi sono fatti male. Quasi mai l’oggetto concorsuale viene realizzato.

Comunque sia nella Svizzera del Canton Ticino, come in Italia, sia allora come oggi, l’attività concorsuale è egemonizzata da un ristretto numero di “soggetti” che si “lottizzano” con estrema sapienza i concorsi più “ghiotti”.

Patsy oggi è completamente disintossicato, dai concorsi di architettura. Si è rifatto una vita, professionale e familiare, ha una bellissima figlia che studia enologia. Comunque per non ricaderci, come un alcolista anonimo, preferisce evitare anche solo di visionare un bando concorsuale.

http://www.varesenews.it/2015/12/piazza-repubblica-foto-vincitori-e-motivazioni/468290/

Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

Tangibile / Intangibile


WP_20151119_007

Mentre il “Gran camminatore” di Alberto Giacometti, osserva, nel suo dinamismo immobile, il lago di Lugano, dall’alto (ed all’interno) del LAC, il bel centro culturale progettato da Ivano Gianola, decine di piccoli motori elettrici, rendono tangibile il trascorrere del tempo, nella loro individuale asincronia poco architettonica. Installazione “site specific”, di una precisione geometrica rigorosissima,  realizzata dall’artista svizzero Zimoun.

Sempre all’interno del LAC, ma sottoterra, lo spazio architettonico sembra assumere una dimensione insolita ed improbabile, forme intangibili di luce (nel buio) volute da Antony Mc Call, materializzate da improbabili nebulizzazioni “impalpabili”.

Tra questi due opposti tangibili/intangibili, contenuti in una “rigorosa” architettura, una esposizione tradizionale sui riferimenti culturali dell’orizzonte artistico del Ticino (tra metà Ottocento e metà Novecento).

Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

Toyota


WP_20150430_19_23_13_ProToyota Corolla Verso “Sol” DTT 2200

Questa auto, è la mia auto da 10 anni, dal 5 maggio 2005. Con questo autoveicolo (diesel), ho percorso fino ad oggi 277.710 chilometri.

La maggior parte di essi, fatti per andare a “vedere architettura”. Con questo mezzo (a 7 posti) ho portato amici, colleghi, clienti, studenti, collaboratori, parenti, sconosciuti quasi sempre con lo scopo preciso di eseguire dei sopralluoghi di architetture e dei “paesaggi che le circondano”.

Spesso è stato proprio il viaggio (nel paesaggio) a cementare amicizie o a generare nuove relazioni. Fare architettura è soprattutto viaggiare, per analizzare edifici o paesaggi. Per “entrarci dentro”, perchè questa è l’unica vera condizione per comprendere appieno un’opera architettonica.

Architettura non è mai “lingua morta”, ma è sempre “corpo mutevole”  che necessita di continue rivisitazioni. Invecchia con noi (spesso bene, altre volte male) e ritornarci ad esercitare l’olfatto, l’udito, il tatto, oltre che ovviamente la vista, fa sempre scoprire cosa nuove.

Ci fa “mettere in connessione” con l’autore (il progettista), con le pulsioni degli uomini che l’hanno costruita, o semplicemente “voluta”, desiderata. Ogni edificio è di fatto testimonianza del transito terrestre di noi umani, che per realizzarlo, abbiamo trasformato la materia che ci è data dalla natura di questo bellissimo pianeta, per riconfigurarla in un’altra cosa, più consona alle nostre attività, alla nostra sopravvivenza .

La Storia dell’Architettura, la si impara girovagando in maniera afinalistica nel corpo degli edifici che la compongono, più che sui libri.

Fare architettura viaggiando è anche quindi un atto indispensabile di qualità. Non a caso lo ho fatto con una macchina Toyota, azienda dove vige, per la costruzione delle auto, la regola del “Kaizen”. E’ questa una parola che fu originariamente utilizzata per descrivere l’elemento chiave del sistema di produzione Toyota col significato di “fare le cose nel modo in cui andrebbero fatte”. Significa creare un’atmosfera di miglioramento continuo, cambiando il proprio punto di vista e il modo di pensare per fare qualcosa di meglio rispetto a quello che già si fa. E nell’architettura, per raggiungere queste finalità, “viaggiare” è indispensabile.

Magari con il “cavallo d’acciaio” soprastante (e non c’è mezzo migliore), fermandosi qua e là per fare una “pisciatina”, prendere un caffè (o altro), e soprattutto fare qualche considerazione su quello che ci è sfrecciato davanti agli occhi.

OLYMPUS DIGITAL CAMERABambouaserie de Prafrance, Francia

OLYMPUS DIGITAL CAMERASogn Beneteg, Grigioni, Svizzera

OLYMPUS DIGITAL CAMERAPiazza Commercio, Lisbona

OLYMPUS DIGITAL CAMERASpiaggia delle dune di Porto Pino, di Sardegna

OLYMPUS DIGITAL CAMERABiennale Arte,  Giardini, Venezia

OLYMPUS DIGITAL CAMERAGibilterra, Spagna

OLYMPUS DIGITAL CAMERAOrangerie, Villa Borghese, Roma

OLYMPUS DIGITAL CAMERAAmburgo, lago Aubenalser

Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

Sulle tracce


OLYMPUS DIGITAL CAMERA

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Essere sulle tracce di un “paesaggio” fisico, che è anche interiore, significa trovare nei luoghi una serie di appigli fisici e mentali, che siano in grado di restituirci questa dimensione paesaggistica familiare. E’ una ricerca paziente, lenta, che porta via tantissimo tempo, probabilmente tutta una vita.

Vivere da architetto, da pittore o da scultore è come vivere da infermiere, da operatore ecologico. Per la totalità degli esseri viventi, la vita è un enorme spreco di tempo. Dalla stragrande maggioranza delle proprie ore (spostarsi, pulirsi, attendere, dormire, ecc.) non si ricava assolutamente nulla. Il tempo trascorre e basta, verso la nostra ineluttabile morte, che è la norma per tutte le cose e le creature viventi contenute in questa parte di universo.

Viviamo quasi tutti in un grande agglomerato metropolitano planetario, collegato anche solo virtualmente in rete, che cambia il nome dei luoghi da noi frequentati, esclusivamente per darci la sensazione di essere identificati e localizzati. In Italia, c’è l’abitudine di spostarsi senza interruzione tra tre o quattro città, per lavorare, per risiedere, per divertirsi, per fare acquisti. Ci si muove freneticamente tra questi luoghi, come si fa tra le stanze di una casa. Velocemente ognuno di noi impara a non abitare spiritualmente in nessun luogo, per poter credere che si abita dappertutto.

In questa estate 2014, piovosa ed insolitamente fresca, trascorsa tra Lavin, Zernez e Zuoz, in Engadina, inseguendo le “tracce” dell’esistenza di Alberto Giacometti e di Giovanni Segantini, ho avuto la netta sensazione di aver trovato il mio paesaggio fisico ed interiore.

Il segreto, probabilmente la luce, la montagna, la buona architettura, l’ottimo cibo e soprattutto le persone, che hanno fatto di questa parte della valle, un luogo dove l’arte e la cultura hanno ancora un posto molto importante all’interno della società. Lo vedi trascritto nella natura saggiamente antropizzata, riverberarsi fino all’architettura, al paesaggio, ed alle cose più insignificanti prodotte dall’uomo in questi luoghi.

Quì una mappa dei luoghi

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

Conversazioni su architettura e libertà Giancarlo De Carlo – Franco Buncuga Edizioni Elèuthera.


cop.aspx

Appena ripubblicato in una nuova edizione, questo è un libro straordinario.

È il racconto di una formazione umana, culturale, politica e architettonica. La storia di una vita dove tutti questi campi si sovrappongono e intersecano grazie alla volontà programmatica di pensarli come vasi comunicanti, narrata dalla viva voce del protagonista in un lungo colloquio.

Giancarlo De Carlo ha attraversato il XX secolo da testimone e protagonista. In mezzo c’è il bambino che scopre gli odori, i suoni e i colori del nord Africa come colone italiano, il giovane arruolato in marina nella Seconda Guerra Mondiale che matura lentamente l’anti fascismo, l’intellettuale che si confronta con il pensiero anarchico, l’architetto che conosce il Movimento Moderno e partecipa in seguito alla sua crisi.

La formula del colloquio rende il racconto leggero nella narrazione senza togliere mai nulla alla gravità degli argomenti.

Ci appassioniamo nello scoprire come andarono le cose nel momento di sciogliere i CIAM, ormai obsoleti custodi di un’ortodossia moderna che GDC rifiuta in nome di un pensiero moderno che contiene in sé stesso il germe della critica e del superamento delle posizioni dogmatiche; ci divertiamo al racconto incredibile di come un giovane architetto pieno di speranze e privo o quasi di possibilità economiche riesce ad ottenere un dipinto di Léger per la sala di una nave di cui sta progettando gli interni. Viviamo con GDC la disperazione per la distruzione dell’allestimento per la Triennale, lo sconforto per i progetti che non si compiono per l’incomprensione degli interlocutori, l’entusiasmo per la didattica a Venezia IUAV o al Laboratorio ILAUD vissuta quasi come una missione, lontana dalla corsa alla carriera accademica.

Incontriamo in compagnia della voce narrante personaggi fondamentali del Novecento:  Pagano, Vittorini, Calvino, Olivetti, Samonà, Van Eyck, gli Smithson,…

Soprattutto sentiamo raccontare l’infinita ricchezza di una pratica progettuale che non si piega mai all’ovvio, al banale, che rifiuta l’idea di un’architettura intesa come esercizio formale lontano dai bisogni e dalle necessità materiali e spirituali degli uomini che la abitano.

Il racconto dei progetti di Urbino, in continuo dialogo con la città e il suo territorio, con la storia del luogo e dei suoi protagonisti, testimonia una profondità di pensiero e una rara capacità di decifrare i luoghi e che confrontata a tanta mediocre superficialità dell’architettura corrente costituisce da sola una valida ragione per leggere queste pagine.

Le architetture di De Carlo sono difficili perché complesse: sono poco fotogeniche, comprensibili soltanto quando le viviamo concretamente. E se sono poco riuscite, GDC è il primo a riconoscerlo e a cercare le ragioni degli errori per ricominciare la propria ricerca.

Una recente visita ad Urbino mi ha permesso di verificare direttamente l’infinita ricchezza dei collegi del Colle, dove ogni dettaglio è disegnato per offrire generosamente spazi di incontro, concentrazione o riposo alla popolazione di una vera cittadina universitaria. Le sedi Universitarie in città celano pudicamente dietro la discrezione di muri in mattoni quasi muti una ricchezza di spazi e un lavoro sulla luce di intensità davvero rara.

Ora che la viva voce di GDC ci ha lasciato da qualche anno, che la rivista “Spazio e Società” da lui fondata e diretta ha chiuso i battenti da tempo e che parlare di partecipazione, di progettazione per tentativi e di architettura come ricerca appassionata di spazi per migliorare la vita degli uomini sono argomenti così lontani dal dibattito “alla moda”, la lettura di questo piccolo, grande libro, può trasformarsi davvero in una esperienza fondamentale. Non soltanto per gli “addetti ai lavori”.

Luigi Trentin

 cop.aspx-2

Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

Tognella / Gardella


OLYMPUS DIGITAL CAMERA

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

 

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Ignazio Gardella, che nell’ultima parte della sua vita (novantaquatrenne) sembrava una dentiera che cammina: magro e consunto, aveva raggiunto quella “secchezza dell’anima” che solo i grandi esseri umani conquistano in senilità, come ben ci descrive James Hillmann nel suo libro “La forza del carattere”.

Gardella oggi, che si stanno completando i lavori di ristrutturazione della sua bellissima casa Tognella al Parco Sempione di Milano, probabilmente, nella sua arca funebre, si morderà in silenzio le ossa, per evitare di urlare.

La casa infatti risulta essere uno di quei restauri del moderno, molto, ma molto  discutibili, ad iniziare dal sopralzo/villula (Pastrufaziana che evoca il Gadda dela “Cognizione del dolore”), posto in copertura. Avvallato dagli enti competenti (Soprintendenza, Commissione per il Paesaggio) come una necessità impiantistico tecnologica, in realtà è una vera e propria addizione erculea architettonicamente avulsa dal progetto originario.

Fosse solo questo, ma all’occhio dell’osservatore attento le incongruenze sono parecchie: le tapparelle sono state realizzate con elementi dimensionalmente molto più grandi di quelle originali; lo stesso vale per le sezioni dei profili dei serramenti; le lattonerie  sono smaccatamente con angoli di apertura diversi; Il vetro cemento del blocco scale sembra non adeguato; le lampade dei balconi in rame avulse dall’architettura storica; le prolunghe in inox per mettere a norma i parapetti; la recinzione, un muro di nascondimento rispetto alla trasparenza voluta dal Gardella; gli intonaci rosati hanno l’effetto “nuvolato” pizzeria che non avevano nel progetto originale; ecc..

Insomma una vera e propria “porcata”, dove neanche il dibattito (sterile per capacità di incidere nella società milanese) promosso sul portale dell’Ordine degli Architetti di Milano, è servito a mitigare lo scempio. Scempio che non è solamente nell’entità volumetrico compositiva (con il sopralzo), ma soprattutto in quei “meravigliosi dettagli” minimali, dove certamente risiedeva Dio (e Mies Van der Rohe), di cui Ignazio Gardella era “Magister Artium” assoluto ed inarrivabile.

Un altro esempio di quello “Stile Milanese”, asciutto  lasciatoci dai Padri, che va alle ortiche in questi tristissimi anni bui (particolarmente bui a Milano) che conducono inevitabilmente, così facendo, ad un medioevo architettonico (senza la “M” maiuscola) milanese, prossimo venturo. Quello del dopo “fiasco” di Expo 2015.

casa_tognella3

casa_tognella4

casa_tognella1

Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

Great Lake


OLYMPUS DIGITAL CAMERAIsola dei Pescatori

OLYMPUS DIGITAL CAMERAIsole di Brissago (Svizzera)

Mio padre lavorava per una ditta svizzera che produceva (e produce) collanti industriali e pitture. Dapprima come semplice rappresentate, poi scalando lentamente la gerarchia societaria, come dirigente. I proprietari, originari di Zurigo, ma residenti inizialmente a Lugano e poi a Milano, organizzavano tutte le estati, una gita societaria in torpedone nella confederazione elvetica. Negli anni Settanta (del Novecento) erano soliti frequentare le terre di confine, tra l’Italia e la Svizzera, a ridosso dei laghi ticinesi. Soprattutto del Lago Maggiore, dove la “bellezza” era come distillata in paesaggi ameni e fatati, sosteneva uno di questi proprietari.

Ricordo chiaramente un mio compleanno, quello dei 10 anni, passato con un meltin-pot di ragazzini coetanei svizzeri ed italiani, su un’enorme terrazza di Cannobio (Lago Maggiore), con vista a lago, a giocare a pallone.

Poi da adulto, durante gli studi universitari, mi è capitato molte altre volte di frequentare soprattutto le cittadine svizzere che si affacciano sul Lago Maggiore : Brissago, Ronco, Magadino, San Nazaro, ecc., mete preferite di lunghe gite durante i fine settimana.

Dopo l’università ho fatto un master in “Architettura del Paesaggio”, con un notissimo paesaggista milanese (Franco Giorgetta), che ha avuto quale epicentro proprio le isole Borromee del Lago Maggiore.

Dal 1995 ho iniziato una lunga esperienza universitaria, alla facoltà di architettura del Politecnico di Milano, prima come assistente e poi come docente a contratto, terminata nel 2005. Il mio docente di riferimento, un signorotto di belle speranze, proveniente da una ricca famiglia varesotta poi decaduta in maniera traumatica, era solito organizzare dei “laboratori itineranti” in provincia di Varese. Ricordo molto bene un anno passato a Sesto Calende (un luogo meraviglioso) a disquisire con Marco Zanuso, Fabio Reinhart, ed altri soloni dell’architettura, di massimi sistemi architettonici tra lago, fiume e paesaggio.

Mi è capitato, sempre casualmente, come succede spesso, di trovarmi sul lago, in quella che fu la  casa di Aldo Rossi, a Ghiffa (ora in vendita per 450 mila euro), in compagnia di suoi parenti che me ne hanno raccontato i legami con il lago.

Sono stato più volte sull’Altopiano di Agra a visitare la bellissima casa progettata da Carlo Mollino, quando era in rovina e quando è stata risistemata. Come anche al Museo di Maccagno “Parisi-Valle” di Maurizio Sacripanti.

Anche la parte Svizzera del Lago Maggiore, è per me sempre stata una specie di “riserva di architettura contemporanea”, una “biblioteca architettonica a cielo aperto”, ad iniziare da Locarno. Dove più volte ho assistito a mirabili conferenze di quel “geniaccio” dell’architettura che era Livio Vacchini. Per poi passare ad Ascona ed al Monte Cardada.

Era quindi da parecchio tempo che coltivavo, l’esigenza di dare una visione organica a queste frequentazioni lacustri del Lago Maggiore. Quando un “sacranone padovano”, mentre ci trovavamo ambedue in terra svizzera,  inventandosi una serie di “balle pazzesche” (a suo esclusivo uso e consumo)  mi ha stimolato in tal senso, non me lo sono fatto ripetere due volte. In qualunque caso ci avrei guadagnato qualcosa ad ordinare i miei ricordi ed a sottoporvi questo elenco di bellissimi incontri architettonici e paesaggistici selezionati.

Cosa è la vita se non si condividono le esperienze. Ecco quindi, una mappa con individuati i luoghi “eccellenti” (secondo me), del Lago Maggiore,  a cavallo del confine italo-svizzero.

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Isola Bella

Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

Gate


OLYMPUS DIGITAL CAMERA

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Il nuovo “Gate di Expo 2015” nel centro di Milano, è in corso di realizzazione in quella che era Piazza Cairoli. Lo studio che ha vinto il concorso indetto dall’ente organizzatore, per questo importante riferimento architettonico di Expo è Scandurra Studio.

Il progetto è stato osannato dagli stessi concorrenti, tra cui spicca Cino Zucchi curatore del Padiglione Italia alla prossima Biennale architettura di Venezia), vero e proprio sostenitore dell’intervento vincitore. Altri invece, tra cui il Fai ed Italia Nostra hanno espresso seri dubbi.

Ad una visione attenta, l’opera sembra fatta per rimanere lì per sempre; infatti l’uso di materiali “pesanti” quali il ferro ed il vetro, fanno presupporre che probabilmente ci troviamo di fronte al solito “vizietto” milanese, il tentativo di rendere il provvisorio definitivo.

L’intervento per il Gate di Expo 2015 oltre a negare in maniera abbastanza ridicola e becera la visuale tra il Castello Sforzesco e Piazza Cordusio, ha un sinistro “aspetto montano”, evocando nelle forme e nei colori due cime innevate.

Ma il tema di Expo 2015 non era “Nutrire il Pianeta. Energie per la vita”? Invece la giuria che ha optato per questa soluzione progettuale, sembra abbia partecipato alla selezione per il “Gate” delle Olimpiadi invernali. Peccato che Milano, non sia nemmeno candidata per tale manifestazione per i prossimi lustri.

Possiamo quindi, tranquillamente  annoverare questo intervento, come l’ennesimo tentativo di “sviare” l’attenzione della pubblica opinione internazionale da quella grande bellezza italiana, che è il legame intimo e vincolante tra enogastronomia e paesaggio. Uno sviamento anche sinergico a dilapidare i soldi pubblici, ed alla produzione alimentare di massa, con una particolare attenzione ad incrementare il consumo di suolo. L’ennesimo tentativo di fare di Expo 2015 un “fiasco” ed un inno al cemento, come sembrano anche indicare le infelici scelte urbanistiche ed architettoniche del sito (diverse da quelle con cui si è vinta la gara del BIE), la grafica e la mascotte (assegnata alla Disney e non ad un grafico italiano).

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

Jorge


OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Il Ristorante svizzero “Vignetta”, collocato in un edificio, proprio al centro del Campus dell’Accademia di Mendrisio, costituisce, non solo dal punto di vista geografico, ma anche visivo, un riferimento per studenti e professori.

Il gestore, un signore anziano di origine portoghese (Jorge), ne ha fatto, nel bene e nel male, un luogo quasi “astratto e surreale”, un po fetido,  in cui, entrando, si viene avvolti dal profumo fetido del tempo, che ha il sapore “mischiato” del tabacco, del sudore delle persone e degli aromi della cucina, di cui i muri sono irrimediabilmente impregnati. La televisione, sempre accesa sul campionato di calcio portoghese e sullo sport, gli arredi vetusti, la bellissima pergola con bocciofila e ping-pong del giardino retrostante, completano la disamina estetica del luogo, come magicamente sospeso in un universo parallelo a-temporale.

Alla fine del mese di Marzo 2014, le porte del Vignetta si chiuderanno per sempre portando con sé i ricordi e le tante occasioni mancate. Probabilmente con un minimo di sforzo tale attività sarebbe certamente divenuta remunerativa e vantaggiosa, Di certo i muri di questa istituzione, come già detto, sono impregnati, non solo in senso metaforico, delle numerose visite, delle lunghe soste degli astanti, soprattutto studenti e docenti.

Il mito del “Ristorante Vignetta” lo si deve soprattutto al “Santone di Coira” Peter Zumthor, che era solito, quando insegnava all’Accademia, insistere in questi luoghi, per alimentarsi e discutere con i suoi assistenti e studenti. Alcune delle sue pubblicazioni inerenti l’attività didattica, terminano proprio con una foto del “Ristorante Vignetta”.

Questo luogo rappresenta, per l’Accademia di Mendrisio, un momento fatto di fantastici incontri ed attimi di gioia pervasi dall’odore “inteso” di queste murature, a volte insostenibile. Odore difficilmente rimovibile dai vestiti, e che continuerà ad aleggiare nei ricordi olfattivi di molti estimatori. La sua demolizione, sarà comunque un atto sanitario importante.

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Blog su WordPress.com.

Su ↑