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Architettura della sparizione


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Jony Ive, il celebre direttore del design di Apple ha detto: «Abbiamo combinato due elementi fondamentali della piazza italiana: l’acqua e la pietra, aggiungendo un portale di vetro che crea un’esperienza multisensoriale per i visitatori che entrano nel negozio attraverso una fontana a cascata che sembra avvolgerli».

( video dello Store Apple di Milano – https://youtu.be/y8mUUQ2A-ao )

Potrebbero essere le parole dello stesso Sir Norman Foster, il progettista dell’Apple Store di Milano, che è stato aperto il 26 luglio 2018 a Milano, che ha fatto dell’acqua, del vetro e della pietra, l’essenza stessa di questo intervento “minimale”.

La stessa Apple, forma i propri dipendenti, imponendogli un codice di comportamento rigoroso (lavorare in Apple Store – https://bit.ly/2OlkyBy ) teso ad accogliere e mettere a completo agio la clientela, affinchè sia predisposta al meglio all’acquisto. L’architettura in tal senso gioca un ruolo fondamentale : deve essere presente, accogliente, ma essenziale, valorizzando al meglio il prodotto ed il logo.

L’appeal “tecnologico” che Foster mette sempre nella propria poetica espressiva, gioca qui un ruolo fondamentale teso a creare consenso nel pubblico di massa, ma anche negli addetti ai lavori : designer, programmatori, architetti, ecc. (per altro tutti acquirenti eccellenti, da sempre, dei prodotti Apple).

il vetro è l’attore principale di una “rappresentazione urbana”, tipicamente milanese, nella quale le dimensioni tecnica ed economica (spesi soldi a go-go, “sciallando” alla grande) del costruire hanno ormai preso il sopravvento sulle implicazioni sociali e culturali dell’architettura. Infatti se ai più può sembrare uno spazio pubblico riuscito, un recupero di un vuoto urbano (che vuoto già prima non era), in realtà è il luogo del consumo più bieco, sinergico anch’esso a “persuadere” con la sua eleganza, la sua “trasparenza” (presunta ma non effettiva – https://bit.ly/2vbPL10 ) e la sua accoglienza, all’acquisto di prodotti globali che vendono un logo di alta gamma (stra-costoso), più che cercare di produrre oggetti accessibili a tutti.

Non si privilegia il vuoto e la città, si aggiunge a Milano, l’ennesimo “spazio sacrale” del commercio. Uno spazio pieno di VITREA IMMATERIALITA, ma dove ogni giorno si sacrificano al Dio Denaro, i brandelli di una società che non sa più dove sta andando. Per avere in cambio oggetti costosi e di “durata limitata programmata” (https://bit.ly/2NOfAfm )……..insomma, per essere trattati come dei “polli in batteria” da spennare.

È proprio in questi casi che si configura un duplice tradimento dell’architettura di vetro cara a Scheerbart (https://bit.ly/2K12rxd ) ed a Mies van der Rohe. Il primo tradimento è quello perpetrato dall’architettura di vetro nei confronti della città da parte di questa architettura. Nell’Apple Store Milano, è difficile riconoscere i VERI paradigmi della trasparenza, dell’onestà, del rigore, della sobrietà, dell’essenzialità, dell’apertura nei confronti del contesto socio-economico reale contemporaneo e darne un’interpretazione anche critica; che proprio dal vetro e da ciò che rappresenta attendevano una risposta.

Il secondo tradimento è quello che l’architettura di vetro ha subito da parte di una progettualità fosteriana che in questi casi sembra più tesa all’operatività che disposta a riflettere sul senso del proprio agire e del proprio essere nella società mondiale (e milanese). Una progettualità ormai lontana da quell’impegno civile che caratterizzava il pensare all’architettura dell’avanguardia del Novecento e che riconosceva nel vetro e nella sua trasparenza una grande opportunità per DISVELARE ciò che i muri di pietra e mattoni nascondevano.

Un intervento riuscito, quello dell’Apple Store di Milano, una vera e propria ARCHITETTURA  SERVA dei potentati economico/tecnologici oggi al potere. Interventi di cui Milano, capitale economica (presunta e sopravvalutata) di una nazione che sta andando a ramengo tra : xenofobi, razzisti, incapaci, quaquaraquà, ecc., si sta ormai purtroppo riempiendo (più che svuotando).

Ed intanto molti architetti hanno “occhi che non vedono”…….rispetto a quello che sta avvenendo, anche loro raggirati e persuasi da questi VUOTI……..pieni di schifezze trasparenti.

Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

Coltivatori di querce (a John Dekker experience)


F. L. Wright – Hyde Park (Chicago) – Robie House – 1910 (Sopra)

Frank Lloyd Wright – Casa e Studio ad Oak Park (Chicago) – 1909 

Frank Lloyd Wright – Museo Salomon R. Guggenheim (New York) – 1959 

Scrive il grande architetto america  Frank Lloyd Wright nell’introduzione del suo libro “La Città Vivente” (Einaudi 1966): “Quando una grande quercia sta per morire, alcune foglie di un verde giallastro appaiono sui rami piú alti. La stagione seguente la maggior parte della corona superiore dell’albero è gialla; l’anno dopo i rami in alto rimangono senza foglie. Dopo diverse stagioni successive diciamo che l’albero è secco. Ma per molti anni ancora lo scheletro dell’albero inaridito rimane eretto e segna il cielo col suo profilo scuro come se nulla fosse avvenuto. Infine, marcito alla radice, inutile, la struttura greve alla sommità, precipita. Ma anche cosí lo scheletro pesante giace a lungo spezzato sul suolo. Occorrono molti anni prima che si tramuti in humus e nasca l’erba e che forse da una o due ghiande abbiano origine altre querce. Quel che per la grande quercia furono la linfa e le foglie è per un popolo una sana estetica.”

Il grande Frank Lloyd Wright, magico artefice di quell’architettura “organica”, che è un pò un’occasione persa, “dimenticata” per tutta la disciplina, ci da in questo scritto, un’ennesima traccia da seguire affinchè si possa tornare ad un equilibrato rapporto tra uomo, costruito :  l’estetica.  La sua idea di architettura rifuta la mera ricerca estetica fine a sè stessa, o il semplice  atteggiamento progettuale superficiale, come ben si evince dalla metafora dell’albero. L’architettura dovrebbe essere indipendente da ogni imposizione esterna contrastante con la natura dell’uomo. La progettazione architettonica deve creare un’armonia tra l’uomo e la natura. Così non sarà, morto Wright, sarà infatti, proprio l’estetica (non quella organica pregna di contenuti ed in perfetto allineamento con la storia della natura dell’uomo), a caratterizzare per i decenni successivi a questo scritto, e fino ad oggi, l’architettura americana.

Cosa è quindi, allo stato attuale, l’architettura di un luogo, gli Stati Uniti, che è una nazione ed una società in continua trasformazione? L’architettura è l’anima stessa di questo paese, come lo è la natura. Qui’ si costruisce, anche per competere con la natura, che spesso è ancora molto forte e soverchiante le attività umane (ma dove non lo è con il surriscaldamento dell’atmosfera terreste). L’architettura presuppone, un’evoluzione continua e benchè talvolta si possono verificare delle rivoluzioni, la matrice estetica (che è anche quella comunicativa principale), su cui si lavora è quasi sempre la stessa, il “limite esterno”, che attua la delimitazione di uno spazio “termico” atto a garantire la sopravvivenza dell’uomo su questo pianeta, indipendentemente dai “capricci” della natura. Quello che una volta era il “luogo della composizione architettonica”, oggi è sempre più una “pelle scultorea” che funge inevitabilmente da vero e proprio “marchio d’immagine”.

Se prima l’estetica, nell’architettura americana era anche “contenuti” oggi è sempre più solamente un’immagine, destinata a un rapido invecchiamento. La tecnologia, i materiali, per definire questo limite, sono finalizzati a creare uno “stupore estetico”, che fanno parte dell’imboscata mediatica, con cui nascono e si definiscono le poetiche delle archistar. Un “bliz estetico” però destinato a durare poco, ed a rinnovarsi di continuo. Insomma l’architettura americana attuale, non è fatta per durare, ma per essere continuamente manutenuta, pulita, spazzolata, riverniciata, ecc.. Il tutto con dei costi, anche per l’ambiente, “folli”, anche quando si parla di edifici sostenibili. L’architettura americana attuale è ancora perfettamente nel solco suicida che portò alla “crisi dei subprime”, così come lo è l’economia americana. Considerazioni in parte estendibili a tutto il mondo occidentale. Non a caso, proprio nel terzo trimestre del 2012, l’economia americana ha ripreso a crescere, e trainata soprattutto dal settore edile, a consumare suolo. Presto sarà così per tutto l’Occidente, sarà l’ennesima fatua “fiammata”. Forse l’ultima.

Ecco quindi, che le parole di accettazione del secondo mandato, del Presidente Barak Obama : “Il meglio deve ancora venire”, appaiono anche profetiche per la disciplina  dell’architettura americana. Speriamo sia soprattutto un “meglio” che contempli una profonda rivisitazione dei contenuti e degli obbiettivi, magari dando un giusto peso alla parola “decrescita”, con cui prima o poi tutto il mondo occidentale, ed anche l’architettura,  dovrà confrontarsi, volente o nolente. L’architettura deve ripensare il proprio modello di sviluppo, e quindi la propria estetica,  in America, come in Italia, ed in tutto il mondo. Vanno ripensati i criteri stessi della crescita urbana fin quì utilizzati. Non si tratta di porre un limite alla crescita urbana, all’edilizia, ma di ottimizzare le strategie atte a contrastare il consumo di suolo e l’inquinamento, attuando un nuovo modello di gestione del territorio.

Forse bisogna anche ritornare a coltivare ed a piantare querce, le cui ghiande, per millenni sono state cibo per lo stomaco degli esseri umani, ed anche per la loro mente.

Sopra il filmato “5 minuti di recupero” Un’occasione per ripensare la crescita urbana

F.O. Gehry – Jay Prizker Pavillion – Millenium Park (Chicago)

Asymptote – 166, Perry Street (New York) 

Morphosis – Cooper Square, 41 (New York) 

The Crown Fontain – Jaume Plensa – Millenium Park (Chicago) 

Sanaa – Art Museum , Bovery 235 (New York)

Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

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