Nell’anno 1956 Carlo Scarpa è insignito del prestigioso premio Olivetti per l’Architettura. In quel periodo l’architetto veneziano era impegnato, oltre agli interventi a Ca’ Foscari, ad alcuni allestimenti espositivi. Carlo Scarpa aveva appena concluso la realizzazione di palazzo Abatellis a Palermo ed il padiglione del Venezuela ai Giardini della Biennale. Soprattutto era impegnato nella conclusione di quel capolavoro di luce che è la Gipsoteca canoviana a Possagno. Nel 1957 Carlo Scarpa viene incaricato, direttamente da Adriano Olivetti, della progettazione del nuovo negozio in piazza San Marco. Olivetti intende realizzare una vetrina per esibire il lavoro della impresa di famiglia in Italia.
Piccolo invaso d’acquacon scultura “Nudo al sole” di Alberto Viani
Lo spazio individuato si trova in un punto privilegiato sotto i portici delle Procuratie Vecchie all’angolo con il sotto-portego e la corte del Cavalletto, in piazza San Marco. Il nuovo ambiente di vendita viene inaugurato il 26 novembre 1958. Il negozio si presenta, come uno spazio museale, esaltato da una scelta sapiente dei materiali, completamente aperto verso l’esterno, con le quattro campate angolari, che si proiettano nella Piazza.
Al piano superiore trovano posto l’esposizione delle macchine da scrivere e di calcolo prodotte dalla Olivetti insieme ad alcuni ambienti d’ufficio, che mostrano la sapiente capacità dell’architetto veneto nell’orchestrare i volumi e gli spazi.
Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate
Sai, essere libero Costa soltanto Qualche rimpianto Sì, tutto è possibile Perfino credere Che possa esistere Un mondo migliore Un mondo migliore Un mondo migliore Un mondo migliore
(Vasco Rossi, un Mondo migliore, 2016)
Ennesima lettera, e probabilmente ultima, di dimissioni da organi comunali farlocchi, la cui terminologia nasconde in realtà la volontà opposta DISTRUGGERE IL PAESAGGIO.
Una DISTRUZIONE, che cerca la legittimazione legislativa (e politica), attraverso organi costituiti da liberi professionisti, non pagati, selezionati in base alla loro esperienza curriculare,
Quel “paesaggio lombardo” dove ogni giorno, sotto la pressione antropica di quasi undici milioni di residenti, si può assistere ormai da parecchio tempo, ad ogni nefandezza possibile. A scapito dei cittadini, presenti e futuri, puntualmente INGANNATI sulla eventuale salvaguardia paesaggistica.
Porvi argine sembra una cosa ormai IMPOSSIBILE, come credere che possa esistere UN MONDO MIGLIORE.
OLYMPUS DIGITAL CAMERA
Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate
Sono passati più di trent’anni, da quando Giorgio Grassi, il “Guru” milanese della “costruzione logica dell’architettura” (libretto del 1967, ma diventato nel tempo quasi un manuale) completava in Spagna con Manuel Portaceli la ristrutturazione/ricostruzione/consolidamento del teatro romano della cittadina di Sagunto, operazione destinata a diventare oggetto di infinite querelle e dibattiti tanto ampi da abbracciare anche la stessa definizione di restauro.
Per chi, come lo scrivente, era stato in quegli anni Ottanta del Novecento, studente del Politecnico di Milano, “Giorgino” era una specie di VATE, con un suo seguito di discepoli adoranti e fedelissimi. Una figura autorevole, severa, quanto colta, a cui tutti mendicavano una tesi o un esame di Composizione Architettonica. Con il tempo gli adepti divennero “quasi una setta”.
Tutto ciò ha fatto nascere un dibattito su cosa sia un “restauro”, anche perchè i resti del Teatro erano vincolati. Nel 1985 la rivista “Arquitectura” di Madrid pubblicava il progetto per il teatro di Sagunto, ideato dagli architetti Giorgio Grassi e Manuel Portaceli: animato da una profonda critica ai tradizionali metodi di restauro, tale progetto fu considerato di grande interesse culturale. “Attualmente il teatro di Sagunto si presenta, in larga misura, come una rovina artificiale”: con queste parole Giorgio Grassi e Manuel Portaceli commentavano lo stato in cui giaceva l’antico teatro romano di Sagunto, risalente al I secolo d.C. e avviavano il loro ragionamento sul progetto. La scomparsa quasi totale del muro del post-scaenium rompeva l’unità architettonica tipica della scatola scenica romana e provocava l’impressione di trovarsi di fronte alle rovine di un teatro alla greca, appoggiato sul pendio del monte e rivolto verso il paesaggio circostante. L’intervento di Grassi e Portaceli si poneva l’obiettivo di restituire l’unità architettonica originaria dell’edificio, che il tempo e i restauri precedenti avevano compromesso.
La base antica del Teatro, viene, nel progetto, come scrive lo stesso Giorgio Grassi su Domus n° 756 del gennaio 1994 “contemporaneamente rispettata e violata, rimettendo in servizio il teatro attraverso un suo completamento funzionale e l’assunzione della matrice razionale delle sue strutture originarie”.
Fino dal giorno in cui il cantiere fu compiuto, l’intervento sul Teatro di Sagunto non ha smesso mai di essere oggetto di polemiche e lo spettro della demolizione fu invocato più volte, benchè l’opera avesse avuto l’approvazione dalle autorità competenti. Venne impugnato ad ostaggio di una vertenza strumentale, tutta legata ad interessi di potere politico. Dopo 17 anni di contesa giudiziaria, viene fatto circolare, nel 2008 un Manifesto contro la demolizione. La Sovraintendenza di competenza fece fare degli studi sulla possibilità di ripristinare la situazione dei reperti ante intervento di Grassi/Portaceli. Studi che giunsero alla conclusione che era ormai impossibile ripristinare i luoghi ed i reperti.
Nel corso del tempo, sono tornato parecchie volte in “pellegrinaggio” al Teatro di Sagunto, quasi per penitenza, o meglio per vaccinarmi; e sempre questo metodo di restauro (se così lo si può chiamare) non mi ha mai convinto. Più che una “violenza” lo trovo un vero e proprio stupro architettonico.
Il “cassone ricostruttivo”che domina la cittadina di Sagunto (1985/1993) – Immagine tratta da Google Earth
I reperti archeologici, della cavea, celati dall’inconsueto intervento ricostruttivo di Giorgio Grassi (1985). Comprese le “oscene” poltroncine in materiale plastico, da stadio.
SOPRA –Immagine tratta da Google Earth
Il cemento armato, appoggiato sui reperti archeologici del basamento del Teatro romano, banalmente rivestito in mattonidi laterizio. Una operazione banale di nascondimentoscenografico,probabilmente concordata con i detentori del vincolo sui reperti.
La ricostruzione di Grassi/Portaceli è visibile da ogni punto della cittadina di Sagunto (da Google Earth)
La questione del restauro di un Teatro romano, è quanto mai viva oggi, che David Chipperfield si appresta a ricostruire quello di Brescia collocato nell’area archeologica di Brixia. Il progetto mira a restituire al monumento la sua natura di spazio vivo, culturale e urbano, al servizio della città.
Diversi sono i presupposti progettuali, finalizzati ad una progettazione partecipata. Il progetto sarà il frutto di un ampio lavoro preparatorio: rilievi laser scanner, studio storico, e soprattutto dialogo con istituzioni e cittadinanza. La Regione Lombardia ha sostenuto un percorso di sensibilizzazione pubblica, culminato in un ciclo di conferenze sul Teatro Romano. Importante anche la sinergia con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio che, con Fondazione e Comune, garantirà un dialogo ed un controllo costante durante le fasi di scavo e progettazione esecutiva.
I lavori si svolgeranno a cantiere aperto, permettendo al pubblico di assistere alla trasformazione del sito. Diversamente dal Teatro romano di Sagunto, non sarà ricostruita la scena del Teatro, nè si poserranno, delle sedute in materiale plastico nella cavea.
Immagine aerea tratta da Google Earth del Teatro Romano di Brescia
La chiesa venne progettata negli anni Cinquanta del Novecento a completamento del nuovo insediamento di Metanopoli (San Donato Milanese), voluto da Enrico Mattei
( https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Mattei ) per l’Headquarter dell’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI) con annesse le residenze per i dipendenti. La chiesa venne dedicata a Santa Barbara in quanto patrona delle attività minerarie e quindi anche dell’attività di ricerca e produzione idrocarburi svolta dall’ENI. Molte lapidi, nelle cappelle, ricordano i dipendenti ENI caduti sul lavoro.
La chiesa fu collocata al centro dell’insediamento, di fronte a un’ampia piazza, e venne fiancheggiata dalla casa parrocchiale, dal battistero e dal campanile.
Soffitto con pannelli di Andrea Cascella
Il progetto fu redatto, nel 1952, dall’architetto dell’ENI Mario Bacciocchi
( https://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Bacciocchi ), e la costruzione fu completata nel 1954. La chiesa fu elevata in parrocchia nel 1963, da Paolo VI, per servire le necessità spirituali di una comunità in crescita demografica costante.
La chiesa, per volontà del Bacciocchi e soprattutto di Mattei, fu arricchita da una serie di opere d’arte, dei migliori artisti degli anni Cinquanta. L’idea era di fare un’opera che rivaleggiasse con le chiese storiche italiane.
Sulla piazza, si apre un portico con dei possenti pilastri a setto, che ripara i tre portali d’ingresso, di cui quello centrale fu disegnato dai fratelli Arnaldo e Giò Pomodoro. L’interno è a navata unica, con un transetto di larghezza limitata, ed è corredato da numerose di opere d’arte, di cui le maggiori sono i pannelli che decorano il soffitto, di Andrea Cascella, la Via Crucis (scultorea a bassorilievo)di Pericle Fazzini, la pale della Madonna della Speranza di Bruno Cassinari, la cappella di Sant’Antonio di Franco Gentilini ed il maestoso mosaico absidale della Crocifissione di Fiorenzo Tomea (Zoppè di Cadore, Belluno, 1910 – Milano, 1960), il terzo per grandezza tra i mosaici a parete europei ed primo in Italia.
Se passate da San Donato Milanese, oltre agli “eleganti deliri” di Thom Mayne (Morphosis Architects) per il costosissimo VI Palazzo Uffici AGIP/SNAM (https://it.wikipedia.org/wiki/Sesto_palazzo_degli_uffici_ENI), certamente non fatevi sfuggire questa “chicca” dei favolosi Anni Cinquanta del Novecento.
Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate
SOPRA – Il porticato del Lungarno degli Archibusieri e l’inizio del Corridoio Vasariano dal primo piano della Galleria degli Uffizi
Il Corridoio Vasariano a Firenze, chiuso nel 2016 per consentire l’adeguamento alle norme di sicurezza, ed ad un consolidamento statico, è stato interamente restaurato (l’ultimo intervento risale agli anni Novanta).
Lungo circa 750 metri, fu progettato dall’architetto Giorgio Vasari nel 1565, e fu realizzato in soli nove mesi per volere dell’allora duca Cosimo I de’ Medici (Duca di Firenze dal 6 gennaio 1537 al 21 agosto 1569; Granduca di Toscana dal 21 agosto 1569 al 21 aprile 1574, anno della sua morte). I regnanti fiorentini, lo usavano per raggiungere Palazzo Vecchio dalla loro reggia di Palazzo Pitti indisturbati e senza correre rischi per la loro incolumità.
Il Corridoio appare oggi completamente spoglio dei circa 2.000 reperti artistici che prima conteneva (soprattutto ritratti e disegni). Questi sono stati distribuiti al primo piano della Galleria degli Uffizi, nella parte di sale che anticipano l’ingresso al Corridoio Vasariano.
Il Corridoio appare luminoso, minimalista; con i muri bianchi che evidenziano le apertura panoramiche delle finestre e gli “oculi” tondi; ed il pavimento rosso di cotto toscano, non fa che accentuare il ruolo “quasi di quadri” delle aperture. Questo attuale allestimento titilla gli utenti a riflettere sul paesaggio urbano, sulla città, sui rapporti di questa con l’arte.
SOPRA e SOTTO – Immagini del Corridoio Vasariano
Scevro dal coacervo di opere d’arte che c’era prima (soprattutto ritratti), ci si concentra sulle viste panoramiche di Firenze, in quella perfetta ed unica fusione tra ARCHITETTURA/URBANISTICA/PAESAGGIO/ARTE che è l’opera vasariana. Una pausa soprattutto provenendo dal bellissimo, ma stordente, “bombardamento visivo” della Galleria degli Uffizi.
Come scriveva il grande critico e Storico dell’Arte, Philippe Daverio (Mulhouse, 17 ottobre 1949 – Milano, 2 settembre 2020): “La gente di solito va nei musei e guarda quattrocento quadri in un’ora e mezza. Torna con dei piedi gonfi così e va alla ricerca di una Coca-Cola tiepida per dimenticare l’esperimento. I luoghi dove stanno i quadri si chiamano pinacoteche, come esistono i luoghi dove stanno i libri che si chiamano biblioteche. Nessuno va in biblioteca e legge tutti i libri. Uno che va in una pinacoteca, in un museo, dovrebbe andare a vedere due quadri. All’inizio, a mio parere, addirittura uno solo. Quello che l’ha fatto il quadro spesso ci ha messo anni a farlo. O anche due mesi a farlo… Cosa mi dà il diritto a me di guardarlo in venticinque secondi? Quando erano in Chiesa, la gente li vedeva da quando nasceva a quando moriva: tutta la vita. E adesso deve vederlo in un minuto mentre stai correndo al quadro prossimo”.
SOPRA – La Torre dei Mannelli
Il percorso, si dipana, in quota di uno spettacolare porticato, adiacente il Fiume Arno, e dal Lungarno degli Archibusieri; ed attraverso Ponte Vecchio (passando di fatto sopra ai tetti delle botteghe lì insediate), raggiunge la Torre dei Mannelli (Questa torre è l’unica superstite dei quattro “capi di ponte”, cioè le torri che controllavano un ponte ai quattro angoli).
Da quì, sempre in quota alta, il Corridoio Vasariano, si dipana per passare in adiacenza alla facciata della Parrocchia di Santa Felicita al Ponte Vecchio (da dove i regnanti fiorentini potevano, grazie ad ampie finestre assistere alle funzioni).
SOPRA – Le Finestre che consentono di osservare la navata della Chiesa di Santa Felicita
Quì sopra vista dall’interno della Chiesa di Santa Felicita al Ponte Vecchio, dove chiaramente si ravvisano le finestre per osservare il culto, con la relativa balconata.
Vista della facciata della Chiesa di Santa Felicita al Ponte Vecchio, con evidente il Corridoio Vasariano (Immagine tratta da Google Maps)
Attraverso la Sagrestia, della Chiesa di Santa Felicita, il Corridoio, percorribile solo in direzione Uffizi-Giardino di Boboli, attraverso alcuni immobili privati, si prosegue anche con ponti: si uscirà dalla porta di fianco alla Grotta Buontalenti (immagine sottostante realizzata tra il 1583 ed il 1593), progettata da Bernardo Buontalenti (1531-1608) per il Granduca Francesco I de Medici (1541-1587), per raggiungere l’uscita dal cortile di Palazzo Pitti.
SOPRA – La corte di Palazzo Pitti
SOPRA – La Fontana del Buontalenti
Nel 1938 Benito Mussolini fece realizzare delle grandi finestre che consentivano delle viste panoramiche, al centro del ponte in occasione della visita ufficiale di Adolf Hitler (che avvenne a maggio) per stringere, quello che fu definito, l’Asse fra Italia e Germania. Si dice che la vista fu molto gradita al Führer ed ai gerarchi nazisti che poterono goderne.
SOPRA –Finestre realizzate nel 1938, per volere di Mussolini, con finalità panoramiche(Riquadro Rosso)
SOPRA – La facciata Sud/Est di Ponte Vecchio, dove sui identifica chiaramente il soprastante Corridoio Vasariano
SOPRA – Vista del Corridoio Vasariano tra il Lungarno degli Archibusieri e Ponte Vecchio
SOPRA – Vista dalle finestre volute nel 1938 da Mussolini per la visita in città di Hitler
SOPRA – Vista da una delle finestre del Corridoio Vasariano, soprastante il portico del Lungarno degli Archibusieri
SOPRA – Il parapetto vitreo, di un’uscita di sicurezza. Uno dei pochi interventi visibili della ristrutturazione del Corridoio Vasariano.
SOPRA – Via De’ Guicciardini vista dal Corridoio Vasariano
SOPRA – La facciata Nord/Ovest di Ponte Vecchio, dove si identificano chiaramente, sulla destra, le finestre del Corridoio Vasariano volute da Mussolini nel 1938.
Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate
Quando prenotiamo un hotel online, guardiamo una partita di tennis in streaming o inviamo una mail, dei data center nel mondo devono consumare molta energia e acqua, per conservare ed elaborare le nostre richieste. Una certificazione lanciata in Svizzera, nel 2007, la P.U.E. (Power Usage Effectiveness = Efficacia del consumo energetico) intende identificare e ridurre l’impatto su ambiente e clima delle nostre abitudini digitali e fare della Svizzera una location ideale per data center più ecologici (https://www.swissinfo.ch/ita/crisi-climatica/un-label-svizzero-vuole-rendere-i-data-center-pi%C3%B9-verdi/81947167).
L’edificio, realizzato a Zugo, è stato oggetto del concorso di architettura a inviti bandito nel 2016, appartiene alla grande azienda multiutility regionale Wasserwerke Zug. Fuori terra ospita tre piani a uso ufficio e nei piani interrati è installato il data center di una delle più grandi aziende svizzere di comunicazione via cavo.
La localizzazione dei data center nell’Artico, in altitudine, o sott’acqua offre vantaggi significativi per ridurre l’efficienza dell’utilizzo dell’energia. Il clima naturalmente freddo del l’Artico o della montagna alta, offre un vantaggio intrinseco, consentendo un raffreddamento libero, che riduce la dipendenza dai sistemi di raffreddamento ad alta intensità energetica. Seguendo questa stessa dinamica, i data center subacquei sfruttano l’acqua circostante per dissipare il calore in modo efficiente, migliorando l’efficienza energetica e riducendo il PUE. Queste sedi innovative sfruttano il potere della natura, consentendo operazioni di data center più sostenibili ed ecologiche, ma tutto ciò contribuisce al surriscaldamento del clima terrestre.
A Milano, si tenta una strada innovativa, con la prima partnership industriale in Italia per il recupero di calore dai Data Center destinato al teleriscaldamento: grazie ad A2A, in collaborazione con DBA Group e Retelit (https://www.gruppoa2a.it/it/media/comunicati-stampa/milano-primo-progetto-italia-recupero-calore-data-center), l’energia generata da “Avalon 3”, il più recente data center iperconnesso e sostenibile della società di telecomunicazioni leader in Italia nel B2B, alimenterà la rete cittadina nel Municipio 6.
Il progetto permetterà di servire 1.250 famiglie in più all’anno, consentendo un risparmio energetico di 1.300 tonnellate equivalenti di petrolio (TEP) e di evitare l’emissione di 3.300 tonnellate di CO2 con benefici ambientali pari al contributo di 24.000 alberi.
I Data center, come tutte le infrastrutture impiantistiche, inserite in contesti urbani o paesaggisticamente rilevanti, necessitano di una configurazione architettonica che ne consenta un inserimento, che abbia una elevata attenzione qualitativa per il costruito ed il paesaggio, che sia in grado di dialogare con il contesto. Se ne è accorto perfino l’Ordine degli Architetti di Milano, che in collaborazione Città metropolitana di Milano, e la Fondazione degli Architetti PPC della provincia di Milano aprono giustamente una riflessione con un dibattito sui Data Center, tema di progetto e oggetto architettonico di crescente impatto nel territorio ( https://ordinearchitetti.mi.it/it/formazione/eventi-formativi/L-%28IN%29SOSTENIBILE-LEGGEREZZA-DEL-DATO-70f6e).
Per altro, la necessità di inserire dal punto di vista paesaggistico le infrastrutture tecniche, ha una sua coniugazione storica che ha esempi pregevoli. Come ad esempio la Centrale Elettrica di Riva del Garda progettata negli anni Venti del Novecento dall’ Architetto Giancarlo Maroni , che appare, dal punto di vista architettonico come un frammento urbano in continuità con il centro storico della cittadina gardesana (https://it.wikipedia.org/wiki/Centrale_idroelettrica_del_Ponale)
SOPRA –Immagine della centrale di Riva tratta da Google Earth
Rinasce quindi, la necessità di ritornare a ragionare dal punto di vista disciplinare, su come coniugare “impianti”, loro architettura, e paesaggio. Ciò riguarda non solo i data center, ma anche i grandi impianti elettrici, i terminal portuali, le centrali di trasformazione, i grandi complessi ferroviari, ecc..
Un esempio interessante è la nuova sottostazione APG di Nauders (Tirolo), collocata ad un’altitudine: 1.400 m s.l.m..
Nauders è la prima località su territorio austriaco dopo aver attraversato Passo Resia. Si trova su un altipiano soleggiato tra il Passo di Finstermünz e Passo Resia, e vanta una storia lunga e movimentata: già all’età del Bronzo, il passo venne attraversato e al seguito eretto l’insediamento di Nauders. La sua posizione stupenda fa pensare inevitabilmente a maestose vette e passi alpini.
E’ per questo che la progettazione di questo impianto, trasnazionale (Austria/Italia), per migliorare la potenza elettrica insediata nord/sud, ha subito una progettazione paesaggistica particolarmente attenta, sia nella dislocazione dei necessari edifici, e degli impianti, che nella scelta dei materiali di finitura.(https://www.apg.at/en/projects/nauders-substation/#c7574).
La stessa scelta di realizzare molti cavidotti completamente interrati, ben testimonia dell’attenzione per i luoghi dimostrata dai gestori energetici (APG e Terna).
Un altro esempio emblematico di inserimento nel paesaggistico per quanto riguarda le infrastrutture tecniche, è il termovalorizzatore “Amager Bakke” di Copenhagen in Danimarca, progettato da B.I.G. (Bjarke Ingels Group – https://big.dk/), e funzionante dal 2017.
Il “macchinario”, esistente ed in disuso, è stato riconvertito dallo studio della Archistar danese, ed ha una “pelle” ed una composizione architettonica, finalizzate a renderlo parte integrante del paesaggio urbano della capitale danese. Il tetto: un giardino verde inclinato, in estate ed inverno, diventa pista per lo sci (https://www.pantografomagazine.com/copenhill-inceneritore-green-copenaghen/)
Bisogna che gli enti preposti alla realizzazione di questi “impianti”, soprattutto in Italia, dove non c’è una cultura in tal senso, dimostrino in merito una particolare sensibilità, che non può solamente riguardare gli aspetti economici ed impiantistici, o tecnici, bisogna con urgenza occuparsi soprattutto di paesaggio. Lo stesso devono fare le società d’ingegneria a cui di solito è demandata la progettazione esecutiva, magari sviluppando internamente dipartimenti “di qualità” dedicati alla progettazione paesaggistica di queste infrastrutture da proporre nelle loro offerte tecniche, ai committenti.
Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate
UNA LIMPIDA SERATA di inizio autunno (27 settembre 2024, ore 19,00). Una collina con sopra un’ architettura epica. Un filosofo in grande forma (che discetta sulla trattatistica rinascimentale, ed il particolare sul De re aedificatoria di Leon Battista Alberti). Un cielo, al tramonto, dove gli astri fanno a gara per farsi notare……UNA FORTE SENSAZIONE, PER TUTTI, DI BELLEZZA ED INFINITO.
Il fine dell’architettura, come è nella villa del Palladio, è edificare, noi mortali, opere immortali. La villa Rotonda è come un tempio immortale, non per gli Dei, ma dove vive un uomo che considera gli Dei. Dietro la collina su cui insiste la villa Capra, c’è l’INFINITO….. è un TEMPIO ABITATO.
COMMODULATIO – L’architettura va concepita e dimensionata con i numeri “essendo scientia”, commodulando parti diverse, e riferita al corpo umano. Il canone (la canna), il “metro” deve essere chiaramente leggibile e trasmissibile. Nessun canone fisso, nulla va ripetuto, MA SUPERATO. L’architettura si dà, si offre, con un’ armonia, come una musica.
“Architecti est scientia”, quindi matematicamente trasmissibile. L’architetto deve essere un filologo, che conosce perfettamente il greco ed il latino, che ha una consuetudine con il passato della storia dell’ architettura. Che la studia quotidianamente.
L’idea matura nel tempo, non bisogna essere impazienti, per realizzare un progetto CI VUOLE TEMPO DI DECANTAZIONE.
ADDENDUM
A posteriori, appare strano che, un filosofo colto e raffinato nel suo pensiero, analizzando la trattatistica legata all’architettura, non si ponga il problema della continuità della”visione classica”, cancerogena ed umano-centrica, di una società, quella occidentale, che si è “mangiata” (codificando e legittimando) l’ecosistema planetario.
Proprio lui, il filosofo, che dovrebbe evidenziare questa contraddizione, attraverso cui rendendo tutto, ad una dimensione “matematicamente e geometricamente” trasmissibile (scientia), invece di proporre ipotesi e soluzioni alternative, in grado di restituire uno spiraglio di luce sul futuro dell’ agire umano, cerca di dare continuità a questa MACELLERIA PLANETARIA.
In tal senso, ottima la scelta dell’ora del tramonto, in grado di restituire ai convenuti, il senso di un pensiero occidentale morente, lanciato probabilmente in maniera inevitabile, verso la fine.
Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate
Antonio dalle Nogare, con una famiglia di costruttori altoatesini alle spalle, ha con caparbietà voluto, nel corso del tempo, questa Fondazione, per metà casa privata e per metà museo, dove collocare la propria collezione d’arte – https://fondazioneantoniodallenogare.com/ . L’edificio, scavato nella roccia, nel porfido, è stato progettato in modo sostenibile da Walter Angonese ed Andrea Marastoni, e completato nel 2017. È, la Fondazione, nell’ idea di chi l’ha voluta, un luogo d’incontro internazionale, di lavoro e d’ispirazione per l’attività creativa.
Lo scavo nel terreno, ha permesso di reperire parecchia roccia, che, opportunamente lavorata, è stata fatta diventare parte dell’ edificio stesso, soprattutto per i rivestimenti esterni. La struttura si dipana su cinque livelli, con degli interni caldi ed accoglienti, pavimentati in legno lasciato al naturale. Sapienti finestre e lucernari, consentono un’ illuminazione particolarmente adatta all’arte contemporanea, ed implementano la natura ed il paesaggio circostante.
Un luogo d’incontro tra Arte, Architettura e Paesaggio.
Ingresso gratuito, ampio materiale documentale a disposizione, compresa una biblioteca consultabile di oltre 1300 volumi dedicati all’ arte contemporanea. Visite guidate gratuite, il sabato mattina alle ore 11,00.
All’ ingresso esterno, della Fondazione, vi accoglie una pregevole installazione sonora
Modello realizzato dallo Studio Angonese dell’edificio della FondazioneAntonio Dalle Nogare
Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate
Raccontare una valle, la Valvestino (Brescia), una realtà montana, difficile, è in fondo risalire agli atti che hanno consentito di costituire qui un nucleo umano ancestrale “resistente”, e di fatto rappresenta il destino primigenio di ogni essere umano su questo Pianeta.
L’atteggiamento deve essere un po quello dell’archeologo, che ricerca nei vari strati della realtà, per individuare anche i segni più nascosti: e qui i Valvestino sono passati i Goti, i Longobardi, i Romani, lasciando evidenti reperti del loro passaggio.
I fienili di Cima Rest, in Valvestino, sono dei fabbricati rurali situati ad una altitudine di 1.257 metri sul livello del mare, in un altopiano verdeggiante del comune di Magasa.
Sono strutturati in planimetria, in modo da contenere in un solo edificio le funzioni fondamentali per la vita tipica delle malghe: al piano inferiore la stalla per il bestiame, l’abitazione per il contadino, a quello superiore (con accesso autonomo dall’esterno) il deposito per il foraggio, e all’esterno la legnaia.
Il fienile a pianta rettangolare, spesso è parzialmente incassato nel pendio della montagna, e si sviluppa su due piani: in quello inferiore, racchiuso tra mura di pietra, c’è la stanza principale con il camino, una seconda stanza collegata alla precedente per l’attività casearia e deposito provvisorio del formaggio e la stalla per il ricovero del bestiame bovino; tutto il pavimento è in selciato.
In seguito a ricerche storiche, iniziate nel secondo dopoguerra, si è riusciti a datare questa tipologia di costruzione al VII secolo, attribuendola alle tradizioni dei Goti (probabilmente di origine svedese) o dei Longobardi (probabilmente di origine germanica).
La base della costruzione è formata da una possente muratura in pietra locale calcarea, sulla quale poggia il tetto dalle due falde fortemente inclinate (55 gradi circa). L’intelaiatura del tetto è costituita da una serie di travi portanti, solitamente di abete, ma anche faggio, sulle quali sono inchiodate delle travi secondarie di minor dimensioni che servono per sostenere il manto di leggero copertura.
La tecnica di copertura si basava sull’allineamento e sovrapposizione di centinaia di fasci sottili di steli mietuti (mannelli di paglia ottenuti da un grano il cui nome scientifico è il Triticum Aestivum, varietà antica di grano, con spiga alta di un colore tendente al rossiccio durante la maturazione), legati con steli di lantana. Il risultato finale era un manto compatto e perfettamente funzionale: difatti la paglia oltre che essere un ottimo idrorepellente è pure un ottimo isolante termico che permette una perfetta conservazione del foraggio.
Oggi per riparare e ricostruire i tetti dei fienili si utilizza un Team Danese, che ha l’abilità tecnica (comune agli edifici storici danesi) per realizzare l’opera con perizia e velocità, mentre la paglia adatta è stata fatta giungere a Magasa dalla Romania. (https://www.gardapost.it/2014/06/26/larte-rifare-i-tetti-in-paglia-dei-fienili-rest/)
E’ interessante notare la permanenza di queste forme essenziali e funzionali, e delle relative tecnologie costruttive; permanenza che ha consentito di fare giungere fino a noi tali opere dell’ingegno umano.
Una architettura, in fondo, è sempre un “ponte di collegamento”, che consente ad un edificio di avere una bellezza formale contemporanea, e di andare oltre rispetto al proprio passato e al proprio futuro.
Questi fienili, con le loro forme e la loro tecnologia “naturale”, ancora oggi ci affascinano, perché conservano la libertà dei movimenti delle persone che la hanno volute ed abitate, facendoci chiaramente percepire l’essenza di cui la vita è fatta. Forme primigenie, ancestrali, in perfetta mimesi con la natura ed paesaggio circostanti, che suscitano bellezza, e forse proprio per questo portate avanti per così tanto tempo.
Come scrivono Alessandro Michele ed Emanuele Coccia, nel bel libro: “La vita delle forme, filosofia del reincanto” (Harper Collins, 2024) – ….osservare un qualsiasi oggetto equivale a entrare in una biblioteca dove le cose bisbigliano, mormorano, cantano, la loro voce è come il deposito di tutte le vite che hanno attraversato: in esse parlano in ventriloquo chi le ha fabbricate, chi le ha amate, chi le ha curate……E’ la narrazione che si deposita sulle cose….-
La permanenza soprattutto delle forme, quì a Cima Rest, è così forte, che queste sono state portate avanti per secoli, ed ancora oggi, gli edifici di nuova costruzione “imitano” con nuove tecnologie, le forme degli edifici storici esistenti.
Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate