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Prima e dopo (on typology)


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Quì sopra alcune immagini della Casa dei Sindacati Fascisti e dell’Industria, ora Camera del Lavoro di Milano – architetti : Angelo Bordoni, Luigi Maria Caneva, Antonio Carminati (1930-32) – Corso di Porta Vittoria 43

“La tipologia di un edificio è un’insieme di dati geometrici, tecnici e storici che stanno alla base di ogni progetto. Molte volte ho verificato questo; nel mio ultimo viaggio in Giappone mi era difficile distinguere la differenza tra alcuni edifici civili, religiosi, comunitari del passato. egualmente per alcune elaborate soluzioni contemporanee. La prima acquisizione della loro realtà è stata quella tipologica e cioè proprio il principio che univa tra loro architetture spesso molto diverse. Da questo ho potuto risalire a tradizioni, usi, ecc. che mi erano assolutamente estranei. Tutto quì, ma è molto. Nella pratica professionale, e tanto più quando i calcolatori e nuove tecniche diventeranno sempre più importanti (anche se già sono un realtà), la tipologia è un riferimento preciso. Lo sviluppo tecnico ha bisogno di chiarezza e sarebbe grave confondere la complessità e la sofisticazione degli strumenti  che possiamo o potremo usare, come una vacanza dalla ragione”.

Così dichiara Aldo Rossi in “Dieci opinioni sul tipo”, articolo di Casabella n° 509/510 del 1985, pagina 100 (numero monografico dal titolo : “I terreni della tipologia”). Un numero assolutamente da praticare per chi si occupa di progettazione. Volutamente, quindi, proprio per approfondire, con degli edifici reali, eccoci a “pescare” nell’infinita offerta architettonica, che una città come Milano, mette a disposizione. Un’offerta che è forse, troppo spesso, un pò vecchiotta e datata (come d’altronde ormai anche tutta la Casabella diretta da Vittorio Gregotti), ma offre sempre spunti interessanti e ghiotti per chi si occupa di progettazione, e si pone delle domande.

Ed in effetti, per poter approfondire la domanda, su cosa sia la tipologia, eccoci a “dimorare” presso due edifici milanesi, molto diversi, come la Camera del Lavoro (di Bordoni e soci) e la Casa Albergo (di Moretti) per caratteristiche costruttive, epoca di costruzione, materiali di finitura, destinazione funzionale, ecc., eppure contigui. Questi due edifici consentono una riflessione sulla tipologia, che non è semplicemente dare una risposta ad un quesito.

Infatti l’edificio di Bordoni, propone una tipologia ad “U” (o a “C” che dir si voglia),  aperta sulla pubblica via (a creare una piazzetta sopraelevata), abbastanza insolita per l’epoca, dove l’edificio istituzionale ad uffici, di solito si presentava con una tipologia compatta, chiusa a blocco. Lo stesso vale per l’edificio di Moretti, dove la tipologia ad “H”, si articola, a partire dagli spazi comuni del basamento (bar, soggiorno, reception, ecc.) su due edifici in linea di diverse altezze, con all’interno le camere ed i servizi,  insoliti per la modernità e la pulizia compositiva. Molto più avvicinabili all’architettura nordica per questo tipo di funzione (casa – albergo) che a quella italiana. Moretti, con questa tipologia si avvicinava così a Bottoni, Figini e Pollini, Marescotti, ecc., lasciandosi dietro quelli che poi diventeranno i “Brutalisti” : BBPR, Viganò, De Carlo, ecc..

I due edifici “dialogano con l’intorno”, ed emergono perentori, nello skyline di questa parte di città. La loro particolarità stà proprio nella diversa declinazione “anomala” di due tipologie. Ecco quindi, emergere che la tipologia è un’anomalia e non un vincolo. Ecco perchè la tipologia deve essere un riferimento preciso, come sosteneva l’Aldo Rossi, soprattutto all’inizio della progettazione, ma anche, poi, “praticarne” la trasgressione, è la norma della grande architettura.

Quì sotto alcune immagini della Casa Albergo di Luigi Moretti (1947-1950), in via Corridoni 22

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Scolpire il tempo


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Andrej Tarkovskij, nel 1986, pubblica un libro con lo stesso titolo di questo articolo “Scolpire il tempo”. In esso, il grande regista russo, fa un’analisi, limpida e spietata del trascorrere del tempo. Egli scrive, in questo libro ormai introvabile, della consistenza del tempo, della sua resilienza, insomma cerca di raccontarci e classificare  un qualcosa che a noi esseri umani (creature mortali) sfugge continuamente. Tutto il libro, secondo me un capolavoro di scrittura e di immagini fotografiche, e’ di fatto una digressione poetico-filosofica, del concetto e della “dimensione” del tempo, visto attraverso la sua attività cinematografica, e suppur, Tarkovskij pone al centro il cinema, come unica arte in grado di “incidere e fissare” il tempo, emerge anche chiaramente nel testo, che l’architettura ed il paesaggio sono di fatto anch’esse, sinergiche a questa “missione”, che tutta la specie umana sta attuando da millenni. Fissare, modellare, modificare un pianeta, con lentezza e sapienza, restituendo al passato la possibilita’ di perpetuarsi nel futuro, per “scolpire il tempo”, questa e’ la grande intuizione che ci consegna il regista russo.

Ecco, andare a Cuirone, piccola frazione nel comune di Vergiate, si ha l’immediata sensazione che qui, l’arte di “scolpire il tempo” sia stata assunta a regola. Una regola, non semplicemente “schiava” di una memoria che non c’e piu’, di un tempo e di uomini che non torneranno mai piu’, ma il tentativo di una comunità di rendere le impronte umane su questo pianeta (rilievi, coltivazioni, architetture, ecc.), parti del paesaggio, presente e futuro, come se fossero una sua ulteriore ed inscindibile componente.

Come scriveva Peter Zumthor : “La forza di un buon progetto risiede in noi stessi e nella nostra facolta’ di percepire il mondo con il sentimento e la ragione” (Pensare architettura, 1998), ecco quì a Cuirone, ed in particolare nello spirito del “baubaus” (di Giorgio e Miranda Ostini) , si ha chiara la sensazione che una strada alternativa ad un “progresso scorsoio” (come scriveva Andrea Zanzotto) fatto di emergenze climatiche, crisi ambientali e turbo capitalismo, sia possibile. Il segreto : la riscoperta di un tempo della lentezza e della decrescita consapevole, a cui tutti dovremmo immediatamente aspirare.

“Nulla esisteva soltanto come cosa a s’è stante. Ogni singola cosa trovava la sua giustificazione nel tutto e comunque soltanto attraverso questo tutto esisteva come cosa. Fra queste c’era anche la durevolezza” – Sten Nadolny – La scoperta della lentezza, 1983 –

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La Passeggiata


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“Un mattino, preso dal desiderio di fare una passeggiata, mi misi il cappello in testa, lasciai il mio scrittoio o stanza degli spiriti, e discesi in fretta le scale, diretto in strada. Sulle scale mi venne incontro una donna dall’aspetto di spagnola, di peruviana o di creola, che ostentava non so quale pallida o appassita maestà. Per quanto mi riesce di ricordare, appena fui sulla strada soleggiata mi sentii in un disposizione d’animo avventurosa e romantica, che mi rese felice. Il mondo mattutino che mi si stendeva innanzi così bello come se lo vedessi per la prima volta.” Robert Walser – La passeggiata – Adelphi 1976

Se vi capita di andare a Merano, non potete mancare l’occasione di fare un piccola passeggiata. L’ideale è di pranzare alla Birreria Forst, in via Venosta 8 a Lagundo/Foresta.

http://www.forst.it/it

Quì dopo aver assaporato la deliziosa birra prodotta in loco (Premium, Kronen, Sixtus, ecc.), magari accompagnata dal piatto del Mastro Birraio (mezzo stinco di maiale, salsicce, canederli, crauti e rafano), vi troverete nelle condizioni ideali per fare una “digressione paesaggistica”. Dal retro della Birreria, presa la Untergandlweg, sarete accompagnati tra i campi di mele, al primo incrocio prendete a destra la Pendlerweg, dove, sempre tra i meleti, potrete godere di un paesaggio maestoso, con sapienza, nel corso del tempo, antropizzato a scopi alimentari. Dopo circa 200 metri affronterete un ameno ponticello in legno (esclusivamente pedonale), che attraversa il fiume Adige. Da quì muovendo, prima per via Mercato, poi per la strada Provinciale n° 52, ed infine per via Peter Thalguter, arriverete, dopo circa un chilometro, nel centro di Lagundo, precisamente in località Riomolino, in prossimità della Chiesa Parrocchiale di Lagundo (intestata a San Giuseppe). Architettura mirabile, il cui riferimento paesaggistico è dato dall’altissimo campanile (oltre 70 metri), che si rifà alla tradizione altoatesina dei landmark di carattere religioso.

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La Chiesa Parrocchiale di Lagundo, è stata realizzata su progetto dell’architetto Willy Gutweniger e di sua moglie Lilly, negli anni tra il 1966-1971, i quali hanno proceduto, in base all’attento controllo di un’apposita commissione parrocchiale. La Chiesa che ammicca all’architettura storica delle chiese altoatesine (soprattutto negli esterni), costituisce anche uno di quei rari esempi, in cui la metafora dell’architettura organica e quella dell’architettura razionale, si fondono, in una infinità di schemi compositivi e di dettagli. Si consiglia vivamente, quindi, di prendersi tempo a sufficienza per visitare la Chiesa (soprattutto negli interni), per apprezzarne la complessità, e riuscire a carpire i segreti del linguaggio simbolico di questa costruzione religiosa, che anche si rifà alla tradizione architettonica altoatesina. Il cemento armato a vista, il metallo, si alternano, alla pietra ed all’intonaco grezzo: spesso le citazioni evidenti di Le Corbusier e Frank Lloyd Wright, sembrano fondersi in dettagli che richiamano decisamente al migliore Carlo Scarpa. L’impianto planimetrico è dichiaratamente impostato sul richiamo di forme esagonali, a navata unica, con un’acustica perfetta. Magnifico l’altissimo campanile, che indica con uno slancio moderno il cielo. Maestose le vetrate, realizzate da artisti che in molti punti hanno costruito dei veri e propri “racconti” di trasparenze colorate.

Una piccola passeggiata “enogastronomopaesaggistica”, che risulta deliziosa in qualunque stagione, ma che dà il meglio di sé durante la fioritura dei meli.

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Aarau


Se vi capita di andare a Zurigo in Svizzera, potrebbe essere una cosa buona e giusta, deviare per una località non molto distante Aarau. La cittadina (poco più di 20.000 abitanti) capitale del cantone di Argovia è molto ben collegata con le città Svizzere di Berna e di Zurigo e di fatto ne rappresenta una sorta di continuità.

Aarau, posta in una zona strategica, su una piana alluvionale sulla riva del fiume Aar (che le diede il nome), ai piedi dei monti della catena del Giura, fu in passato un’importante centro tessile, e capitale della confederazione Svizzera per cinque anni tra il 1798 ed il 1803. L’omogeneo centro storico, possiede i tipici tetti a falde dipinti  più interessanti della Svizzera.

Vi chiederete perchè venire fin quì, ma se amate il paesaggio e l’architettura, lo scoprirete facilmente. La città è deliziosa, tranquilla, con un legame intimo, con il fiume che l’attraversa e con la sua “campagna”. Tantissimo verde, e quà, e là una serie di edifici di architettura contemporanea pregevoli che “twittano” con il paesaggio ed inusuali per un così piccolo centro. Ad iniziare dalla “Aargauer Kunsthaus Extension” concepita da Herzog & De Meuron nel 2003. Un edificio sensuale, in cui il muschio che si sviluppa copioso, soprattutto in autunno ed in primavera, sui blocchi di tufo della copertura/piazza, costituisce uno dei riferimenti principali dell’architettura percettiva  e mutevole, cara ai due “geniacci” di Basilea. Bellissimi anche gli interni, con la grande scala a chiocciola, che come un “cavatappi”, sembra attraversare tutto l’edificio fino in copertura. Vetrate e parapetti “fluo” completano la fascinazione, in un’operazione di marketing turistico, che ha anche molto da insegnare alla pochezza della politica italiana in merito.

Anche l’edificio del mercato coperto, tutto in legno, collocato nel centro storico (Flösserplatz), con la sua struttura a vista e le lamelle che creano un inusuale rapporto tra interno ed esterno, rappresentano un approccio “diverso” al tema dell’architettura. L’edificio si fa apprezzare soprattutto per il dialogo che instaura con l architetture del centro storico, dialogo che è anche “materico”.  Il progetto, vincitore di numerosi premi, lo si deve allo Studio Miller & Maranta, ed è del 2002 (foto sottostante tratta dal sito myswitzerland.com).

Il parcheggio sotterraneo, vicino alla stazione ferroviaria (foto sottostante tratta dal sito myswitzerland.com), è palesato in superficie, da una costruzione “plastica”. L’edificio progettato dallo studio di architettura Schneider & Schneider di Aarau genera un luogo di attrazione, determinando degli spazi di arredo urbano e di verde, rigorosi e definiti. Restituendo una percezione molto chiara della contaminazione teutonica di questa architettura.

Poi vi sono da vedere : La Stazione Ferroviaria di Theo Hotz (in vetro), la sopraelevazione Gais dello studio Frei Architekten AG (in beton),  la Hislanden Klinik di Architektur Burkard & Meyer Architekten Baden (in metallo e vetro), ecc. Sembra proprio che quì a Aarau, l’architettura dei materiali e della loro “percezione”, abbia un vero e proprio epicentro, facendoci riflettere sulla dimensione umana, sui sensi, quali apparati a cui l’architettura (quella vera), non può assolutamente prescindere.

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Vino novello


11 novembre 2012 – Autunno, foglie gialle in “caduta libera”, tantissima pioggia, vento freddo, cielo plumbeo, voglia di un fuoco caldo, di amicizia, di paesaggio, di profumi, di “mangiarsi il paesaggio”.

Cosa c’è di meglio, in questa “condizione umana”,  di una gita fuori porta, in un luogo vicino, ameno, ricco di storia, come può esserlo solo un pezzo del territorio italiano, raggiungibile da Milano in pochi minuti, nel fine settimana, che da protocollo, consente la commercializzazione del vino novello.

Famelici di paesaggio, come possono esserlo solamente tre amici avvezzi alle “zingarate enogastronomicopaesaggistiche”, anziani ma non troppo, colti ma non troppo, capaci di guardare al futuro ma non troppo, ci siamo orientati con una vecchia Toyota Corolla, gravida di oltre 180.000 chilometri percorsi, verso San Colombano al Lambro.

La collina di San Colombano al Lambro (che è in provincia di Milano), è da sempre, da più di due millenni, una limitata zona vitivinicola che gode di condizioni pedologiche e climatiche particolari. La collina si alza dalla pianura circostante di circa 75 metri, è luogo eccelso di produzione degli unici vini d.o.c. (Denominazione di Origine Controllata), della provincia di Milano. Nelle giornate limpide, dalla collina che sovrasta il delizioso paese di San Colombano, la visuale spazia verso nord ed arriva a tutto l’arco alpino, mentre dalla parte di Miradolo Terme, verso sud, lo sguardo si apre sulla depressione naturale della valle del Po fino agli Appennini. Il paese, piccolo ed elegante, è sotto la collina, dominato dalle antiche mura del Castello dei Belgioioso, a “recinto”, numerose e significative le chiese, che videro il giovane Don Gnocchi che quì nacque, assiduo frequentatore.

Le caratteristiche del terreno, che alterna zone sabbiose a zone calcaree molto permeabili, il sottosuolo ricco di minerali, la costante esposizione (ideale) al sole, fanno della collina un ambiente ideale e naturalmente vocato per la coltivazione della vite. Quì il paesaggio è stato da secoli “addomesticato”, tanto che oggi la coltivazione della vite, rappresenta una “texture paesaggistica” sofisticata e complessa, che testimonia del sapiente connubio tra uomo e natura. Come scrive Gilles Clément nel suo bellissimo libretto “Breve storia del giardino” (Quodlibet, 2012) : ” La storia ci parla di un luogo, ma poco del tempo, del tempo che passa, della durata, del tempo che consente l’impianto al suolo (la vite impiantata nel terreno fertile diventa produttiva dopo 2/3 anni), dell’incontro fra gli esseri viventi, dell’ibridazione e la nascita dell’imprevedibile (produrre vino con costanza è il frutto dei protocolli, e vale un 30%, ma il tempo meteorologico decide il restante 70%). La storia preferisce le forme e i grandi gesti architettonici che hanno lasciato una traccia sorprendente e indiscutibile del genio umano (piuttosto che gli orti, le colture, i giardini, sempre mutevoli). Eppure è quì, nello spazio del tempo, che a mio avviso si delineano le questioni del futuro”. Produrre vino, come avviene in molte cantine di San Colombano, è un’arte, che deve fare i conti con il tempo che passa, con i ritmi della natura, con il movimento degli astri.

Risulta poi evidente annotare che quì, a San Colombano al Lambro, siamo ancora nel territorio di Milano, là dove il consumo di suolo ha raggiunto livelli che definire “folli” è poco, eppure la conquista di un punto di vista “alto”, elevato, consente di superare le regole (ed i punti di vista) della pianura, della vita piana, piatta, della concentrazione “densa” imposta dalle regole esclusivamente economiche.

Elevandoci, possiamo distaccarci, magari solo per alcuni momenti, dal nostro quotidiano, e proiettarci con la mente, ma anche attraverso lo sguardo, nello spazio libero, nel paesaggio. L’estasi della contemplazione, ci rende liberi. Possiamo così constatare che nonostante la moltitudine umana milanese, quì, non molto lontano dal”caos”, possiamo ancora apprezzare la speranza progettuale di un rapporto corretto tra uomo e natura. Ed anche di nuovo acclarare che esiste, probabilmente una possibilità di futuro, di lavoro e di crescita consapevole, per tutti, e per un Paese, l’Italia, che forse, per troppi decenni ha trascurato (e poco progettato) il connubio intimo, tra : paesaggio, cultura, turismo, enogastronomia. Appare quì, su questa collina, chiaramente tangibile la convinzione che, le politiche per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico-artistico-agricolo-ambientale e del paesaggio nel suo insieme, e le politiche di promozione delle attività di produzione (di eccellenza) enogastronomica, culturali e di spettacolo, connesse con la promozione di un turismo consapevole, sostenibile, legato alla fruizione della bellezza e della “qualità” nel suo insieme dei nostri territori, debbano essere considerate e trattate a tutti gli effetti come un asse portante per lo sviluppo presente e futuro, del nostro Paese.

Il vino, soprattutto quello novello aiuta certamente a questa “elevazione”, a prendere una giusta “distanza dal Mondo”, a conquistare, una prospettiva nuova, uno sguardo inusuale, che quì appare quanto mai tangibile .

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Lècch


La Meridiana, edificio commerciale, terziario e residenziale –  Renzo Piano (R.P.B.W.)

Edificio residenziale “La Corte” – Ettore Sottsass e Associati

Edificio residenziale “le Vele” – Marco Albini, Franca Helg, Antonio Piva

Piazza Cermenati – Progetto Marco Castelletti

Nel 1991, per alcuni anni sono andato a lavorare a Lecco, una ridente cittadina lacustre lombarda, nota per essere la città dell’incipit del romanzo del Manzoni “I promessi sposi”. Lì ho potuto (soprattutto durante le lunghissime pause tra il lavoro mattutino e quello pomeridiano) deambulare su questo piano urbano inclinato (infinito), che di fatto è dato da una sommatoria di piccoli “bellissimi” ed ancora oggi autonomi (e leggibili nel tessuto urbano), borghi rurali : Acquate, Belledo, Bonacina, Castello, Chiuso, Germanedo, Laorca, Lecco, Maggianico, ecc.. Ognuno con le proprie specificità, anche architettoniche. Le considerazioni fatte durante queste “passeggiate paesaggistiche”, assolutamente personali e particolari, le riporto quì in maniera sintetica.

Si tratta di una città con una popolazione, essenzialmente montana, “spiaggiata” accidentalmente a lago, ma che con esso, non ha un rapporto di usanze e di “feeling paesaggistico” particolare.  Lecco è una città che fino al Settecento è stata un luogo di produzione agricola, poi nell’Ottocento, ha consolidato una vocazione prettamente industriale (Acciaierie e metalmeccanica), divenendo una dei principali luoghi produttivi, nella filiera dell’acciaio, d’Italia. Nel secondo Dopoguerra, la lenta dismissione delle numerose realtà industriali, ne ha fatto un luogo essenzialmente di terziario ed in parte turistico.

L’architettura ed il paesaggio urbano, hanno seguito, fedelmente, questo “stato delle cose”. Infatti  Lecco non ha mai prodotto una scuola “lecchese” in merito, come invece è capitato a Como, a Varese, a Milano. La città, è nata, saturando, all’abbisogna, con un tessuto urbano incoerente ed abbastanza caotico, il territorio tra un antico borgo e l’altro.

L’unica stagione, che vede dei protagonisti lecchesi, è quella dei movimento Novecentista : Ennio Morlotti, Mino Fiocchi, Mario Cereghini, Orlando Sora, ecc.. Pittori, scultori, letterati, architetti, che si affermano anche a livello nazionale e tentano, senza riuscirci, di “segnare” la città, di indirizzarla.

Una delle principali attività, oltre al terziario, di Lecco, è oggi l’edilizia, quì nel corso del tempo, si sono sviluppati grandi imprese, che oggi costruiscono sia in città (nelle numerose aree dismesse), ma anche su tutto il territorio nazionale. Ciò ha consentito soprattutto negli ultimi decenni, di realizzare degli edifici, che singolarmente, rappresentano delle eccellenze, degli esempi di architettura, pur non essendo emblematici e rappresentativi dell’attività dei loro autori.

D’altronde, il paesaggio di questo ramo del Lago di Como, è così bello e mutevole, continuamente in bilico tra la mitezza lacustre e l’estrema vicinanza con le maestose montagne (Resegone, Grigne, ecc.), da poter sopportare qualunque “violenza paesaggistica”. Il dualismo : lago, montagna, genera una tensione, che rende spesso “magica”, una città per nulla bella.  La stessa meteorologia, estremamente mutevole, fà di Lecco uno dei “lavandini d’Italia” (soprattutto in estate), così come è influenzata dai due venti dominati : la Breva ed il Timavo, ma è anche fonte di una forte variazione luminosa, che garantisce una sublime espressività scenografica del cielo e delle nuvole. Cosa per nulla secondaria all’esaltazione delle forme architettoniche e paesaggistiche.

Quì sotto alcune immagini di Lecco

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Fritz Metzger



Mentre ci recavamo (io ed il mio collega di sventura, Mattia) a visionare la deludente e costosa, mostra di Gunther Von Hagens (il plastinatore) dal titolo “Body Worlds”, che si tiene alla Fabbrica del Vapore a Milano, ci siamo imbattuti, percorrendo a piedi via Rosmini (zona Paolo Sarpi) nella bella architettura moderna della Chiesa della Santissima Trinità.

Questo edificio è il frutto di una di quelle intuizioni, che aveva il “corpus” sociale, culturale, religioso di Milano fino alla fine degli anni Settanta. Il cardinale (allora) Montini, poi divenuto Papa Paolo VI, e il Prevosto Don Giuseppe Michele Sironi, dopo una visita a Zurigo e dintorni di quest’ultimo, decisero di assegnare all’architetto zurighese esperto in edifici di culto Fritz Metzger (1898-1973, allievo al Politecnico di Zurigo di Karl Moser), l’incarico di progettare l’intero complesso della chiesa  della Santissima Trinità. Bei tempi.

Le forme architettoniche richiamano il razionalismo. Il grande tetto che domina l’intero complesso, è supportato da  elementi semplici ed essenziali, infatti Metzger era uno degli inventori/sviluppatori dell’architettura in cemento armato a vista, che guardava a Le Corbusier ed all’architettura nordica. Le facciate esterne sono rivestite in marmo Bardiglio nelle tonalità del grigio. Gli interni anch’essi semplici, sono caratterizzati dalla grande croce/lucernario che squarcia il tetto e dalle vetrate colorate, hanno pavimenti in marmo striato di nero, pareti in intonaco grezzo, grandi vetrate lineari, con l’altare dominato dal marmo bianco di Carrara.

Numerose le opere d’arte che impreziosiscono l’architettura, ad iniziare dalle sculture a bassorilievo di Carlo Paganini.

L’edificio, per noi è stato come un’imboscata, una sorpresa. Ne avevo sentito parlare, ma un’altra cosa è viverlo di persona. E’ possente, soprattutto costruisce un paesaggio urbano, per nulla milanese, ma di sapore prettamente europeo. E’ una chiesa che ha la forza delle grandi architetture di cemento armato, e come molti edifici milanesi, è poco conosciuta soprattutto dai cittadini.

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Gianduiotto torinese


Camminare a piedi per Torino, in una calda giornata autunnale, in cui il tempo concede ancora temperature attorno ai 25 gradi, fa apprezzare ulteriormente il paesaggio urbano dominato dai freschi portici, dalle grandi piazze ariose e dagli ampi e ventilati  lungofiume. L’occasione ghiotta dei “portici di carta”, consente di godere al contempo di qualche chilometro di bancarelle di libri usati (di ogni fattura e costo), alternate qua’ e la’ da maestose gelaterie e opulente cioccolaterie. Qui, si creano a mano, indimenticabili gianduiotti, come avviene alla antica casa A. Giordano, fondata nel 1897,

http://www.giordanocioccolato.it/

La citta’,’ di oltre un milione di abitanti, con il blocco del traffico di una domenica ecologica, si trasforma in un’isola felice per i pedoni e per i ciclisti, che si godono le ampie vie di fattura comoda e monumentale. Tra Piazza Carlo Felice, Piazza Castello ed il Lungodora Siena, si succedono immagini di un paesaggio urbano disegnato e di chiara impronta europea. La dimensione “adeguata” e “consona” e’ forse proprio la caratteristica piu’  evidente di una perfetta assonanza con la realta’ sociale dei dinamismi urbani contemporanei . Velocemente la “bellezza” del disegno urbano, limpido e moderno, si  impadronisce dell’occhio dell’osservatore attento, facendogli dimenticare le “micragnosita’” del radiocentrismo milanese, triste e congestionato. La sequela degli ampi portici, conducono alla bellissima mostra su Arnaldo Pomodoro, scultore, scenografo ed architetto teatrale, che si tiene fino al 25 novembre a Palazzo Reale. Le sculture di una vita, in bronzo dorato, raccontano di una “vita d’artista” che ha continuamente “twittato” con l’architettura e con il paesaggio.

http://www.arnaldopomodoro.it/index_eng.php

Superati i Giardini Reali, lussureggianti e rigogliosi nell’insolito clima di questo strano autunno, subito si fa’ strada il disegno urbano geometrico e rigoroso, (ottocentesco),  di viale Regina Margherita. Da qui’ al Lungodora Siena, passano poche decine di metri. Dal Lungodora, subito si apprezzano le candide coperture del nuovo Campus Universitario di Torino, “Luigi Einaudi”, dove si concentrano gli insegnamenti di Scienze Politiche e Giurisprudenza. Si tratta di un progetto di chiara fattura paesaggistica, che arricchisce il rapporto della citta’ con il fiume Dora, recuperando un’area dismessa dell’Italgas, dove ancora permangono i tralicci degli immensi  gasometri. Un vero campus, fatto di aule multimediali, biblioteche, alloggi per studenti, mensa, campi da gioco, ecc..

http://www.unito.it/unitoWAR/page/istituzionale/speciali1/campus_luigi_einaudi1

Ecco il paesaggio urbano di una grande citta’ , come sta succedendo qui’ a Torino, deve saper coniugare la propria storia, con una visione chiara e prestigiosa del proprio futuro. Perche’ il paesaggio urbano e’ un corpo fragile e prezioso in cui bisogna saper agire con grazia e maestria, coniugando funzione, forma, volume, altezza in un’unica parola                  ……………” bellezza”.

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Workshop nel Parco


Oggi pomeriggio (27 settembre 2012), il cielo, si è come aperto, consegnando all’area metropolitana nord milanese, una giornata limpida e calda, dal sapore più primaverile che autunnale. Abbiamo quindi deciso, vista la ormai cronica, carenza di lavoro, di fare una “zingarata” là dove si teneva una delle iniziative “Milano nei cantieri dell’arte”. Ci siamo quindi recati a Cesano Maderno per vedere come procedono i lavori di restauro del Palazzo Arese Borromeo, un workshop di aggiornamento e un’occasione di rivedere dei luoghi frequentati quando studiavo al Politecnico di Milano. Infatti era quì vicino, che io e la mia compagna di gruppo, Delia, ci recavamo a fare le eliocopie necessarie per sostenere gli esami.

Alle amenità tecniche, seppur interessanti, è succeduta una visita al magnifico Parco, che oggi si presentava in grande “spolvero”. Magnifico nel suo disegno rigoroso, semplice, oserei dire “moderno”.

La villa ed il Parco, devono la loro nascita all’anno 1618 (i lavori vennero ultimati tra il 1660 ed il 1670) . Erano i luoghi di “delizia” del Conte Bartolomeo III Arese, Presidente del Senato di Milano

Il Parco Borromeo Arese deve il proprio disegno ad una ripetuta serie di interventi progettuali, stratificati nel corso del tempo, voluti dalla famiglia proprietaria. Tali attività si protrassero per oltre un secolo. Il Parco è sorto contestualmente al Palazzo e fu oggetto di ampliamenti e modifiche ad opera di Carlo e Renato Borromeo Arese, successori di Bartolomeo. Nel XVIII secolo il luogo era strutturato come una immensa “macchina paesaggistica”, un sistema complesso ed articolato,  costituito dal vasto impianto formale rettangolare del Parco, da cui si diramavano due grandi viali, in direzione est e ovest che conducevano rispettivamente al serraglio e al roccolo, dislocato sulle prime alture delle Groane.

Nel secolo successivo,  il Parco (come il Palazzo), venne progressivamente abbandonato fino alla parziale distruzione delle architetture vegetali operata dagli Austriaci che confiscarono il complesso per adibirlo a caserma. Una volta restituito alla famiglia Borromeo Arese fu oggetto di una serie di interventi di ripristino della vegetazione, nei primi decenni del Novecento, da parte del Conte Guido. Prima dell’acquisto da parte del Comune di Cesano Maderno il Parco si trovava in stato di abbandono e grave degrado dell’impianto formale, tanto che di esso si conservavano solo alcune tracce.

Ecco un esempio di “addomesticamento” della natura, di antropizzazione del paesaggio, che, grazie ad un’attività sapiente di restauro, ancora oggi restituisce il vigore e la bellezza del passato. E ciò nonostante attorno, le palazzine e le villule pastrufaziane tanto care a Carlo Emilio Gadda, siano una regola ineludibile.

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