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Builders of the future

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Dream Team


Il complesso delle Gallerie degli Uffizi a Firenze, pur essendo stato coinvolto solo marginalmente dalle distruzioni belliche, venne interessato, nel Dopoguerra, da una serie di interventi di ripristino, con la finalità di sostituire l’allestimento museale ottocentesco, con una serie di frammenti modernisti, un po’ neutri.

A volere questi interventi : il funzionario interno alla Soprintendenza Guido Morozzi, e Roberto Salvini, allora direttore della Galleria degli Uffizi, storico dell’arte all’Università di Trieste, nonché sostenitore di criteri di innovazione museale. Ambedue affiancati da una Commissione di esperti allestita ad hoc.

Le sale, oggetto degli interventi, sono quelle numerate da 2 a 7. Esse vennero ricavate sul finire dell’Ottocento dall’antico teatro mediceo. L’allestimento voluto nel Dopoguerra, venne progettato a partire dal 1953 e completato nel 1956 dagli architetti Giovanni Michelucci, Carlo Scarpa e Ignazio Gardella, che “scoprirono” la sala, togliendogli il controsoffitto ottocentesco, disvelando il soffitto a capriate, ad imitazione delle chiese medievali. Le sale espongono opere databili tra la prima metà del XIII secolo e gli inizi del XIV secolo.

Un Dream Team di architetti, forse il “meglio” possibile in ambito disciplinare per allora in Italia.

Gli architetti, a parte alcune resistenze iniziali a certi aspetti dell’intervento, decidono di comune accordo, di non alterare in maniera evidente l’impostazione planimetrica degli spazi esistenti, riproponendone quasi la stessa suddivisione. Viene invece completamente variata la sezione. I controsoffitti piani vengono eliminati ripulendo le soffitte da una selva di legname stratificatosi in seguito a rimaneggiamenti successivi e viene deciso per la prima sala, di mettere a nudo l’orditura principale della copertura a capanna con le grandi capriate originarie in legno, lasciate in vista ed esaltate dalla luce radente di un lungo lucernario orizzontale di nuova formazione, che stacca la massa della parete dal tetto.

L’ambiente, collocato nel Primo corridoio della Galleria (al piano primo), di “sommessa eleganza”, venne subito denominato “Sale dei primitivi”, dove sono esposti capolavori come le Maestà di Giotto, Duccio e Cimabue e il grande trittico de “L’incoronazione della Vergine” di Lorenzo Monaco.

Di recente l’allestimento (2015) è stato rivisitato, ma non nella sala 2, quella così detta “Delle Maestà”, dove tutto è rimasto come progettato dal Dream Team.

Racconta Giovanni Michelucci nel 1990 (poco tempo prima di morire) al Soprintendente agli Uffizi Antonio Godoli (1) : “Molto della progettazione avveniva così: giorno per giorno sul cantiere, venivano fatte delle proposte, le discutevamo tutti e tre e una volta d’accordo si andava avanti col lavoro; ma dei disegni non restava nulla, lo si dava al fabbro per esempio, o a quell’artigiano che era incaricato di eseguire quel certo lavoro. Gli esecutivi erano spesso sui muri, cioè quei segni che per il muratore servivano volta volta. L’opera nasceva via via a contatto con quei capolavori. Si faceva eseguire, si controllava l’esecuzione; l’architetto, secondo me, doveva stare il più possibile da parte nel senso che aveva il compito di vedere poi il risultato.”

“Furono momenti molto belli e interessanti. Ricordo che ci fu in un primo tempo una certa opposizione verso noi progettisti all’apertura di quella finestra in alto. D’altronde a nostro favore c’era il fatto che rimaneva tutta quell’altezza fra le opere e la finestra per cui la luce non può disturbare.”

Ed ancora : “È certo che per me la presenza del progettista si doveva sottrarre al massimo, noi dovevamo sparire. Si trattava semplicemente di appropriare le opere alle pareti con un lavoro di muratore. Non c’è dubbio che la personalità di Scarpa era difficile; era sempre attento ad avere la trovata, giusta si, ma che mettesse l’opera dell’architetto in evidenza e di questo se ne compiaceva. Io per principio mi ero posto di sparire di fronte alle opere di quella portata meditando moltissimo: l’idea di mettere un sostegno, per esempio di ferro, lo sentivo come un fatto di grande responsabilità, il risultato era far si che l’opera quasi naturalmente si mostrasse.”

Sempre Michelucci, racconta : “Si volle dare al soffitto un certo peso, un certo valore, Scarpa pensò al disegno dei ferri delle capriate e degli altri ferri presenti nelle sale come i telai dei lucernari, le transenne, i battiscopa. Poi ci fu l’invenzione della lastra di pietra con il grande Cristo del Cimabue che risolse lo spazio della sala in modo meraviglioso; l’opera fu posta in modo che se ne potesse vedere anche il retro, guardarla dava veramente un senso di piacere.”

In piedi, di fronte ad una finestra del primo corridoio della Galleria, sulla soglia dei 100 anni Michelucci ebbe a dire al Gozzoli in merito agli Uffizi : “Io ci ho lasciato il cuore in questa costruzione, l’ho sentita criticare nella scuola come cosa non riuscita di Vasari, ma essa è una grande opera di urbanistica: è la città stessa.”

Vale un viaggio a Firenze, la sola visita di questi “mitici” luoghi, sia per l’architettura espressa da questi “geniacci”, sia per l’immaginifico contenuto.

1 – Antonio Godoli, Michelucci e gli Uffizi, in Aa.Vv., Gli Uffizi. Studi e ricerche. Interventi museografici e progetti, Centro Di, Firenze 1994.

Dario Sironi

Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

Museo Teo


L’Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani (AMACI), ha promosso per il 6 ottobre 2012, l’ottava giornata del contemporaneo. E’ stata l’occasione, nel pomeriggio, per visitare l’insolito “Museo Teo”. Un museo senza una sede predefinita, senza opere, con spazi per le mostre in continuo cambiamento. Insomma il vero museo del terzo millennio (come dichiarano i curatori), che in questi giorni compie 22 anni di attività.

http://museoteo.blogspot.it/

Il Museo Teo, questa volta si materializzava, nel nuovo spazio organizzativo di via Stromboli 3 a Milano. Un appartamento borghese della fine degli anni cinquanta, dove al primo piano, tra librerie, divani, venivano esposte alcune opere di “vecchi amici del museo”, affiancate da alcuni sapienti “innesti” di nuovi giovani talentuosi artisti. Una mostra che ovviamente evocava, esempi milanesi molto più noti, come la mitica Casa Museo Boschi – Di Stefano, in via Giorgio Jan 15.

http://www.casemuseomilano.it/it/casamuseo.php?ID=2

Tra questi spiccava l’insolita installazione di Paulina Barreiro (Italo-Argentina), dal titolo “Chi- cosa- dove-quando-perché?”, costituita dauna vecchia, piccola valigia da viaggio, che conteneva un “Taccuino di memorie”. Una raccolta meticolosa e colta che ricostruisce le peregrinazioni della sua famiglia tra l’Europa e l’America Latina, cercando un “filo rosso” che tutto lega ed avvolge……e probabilmente trovandolo.

Paulina Barreiro – “Chi- cosa- dove-quando-perché?”

Il museo e l’opera descritta, dimostrano che Milano, pur nella solita asfissiante nebbia mortale che l’avvolge (carenza di musei, cinema, teatri e di offerta culturale rispetto a città simili) è sotto sotto, una città che culturalmente riesce, ancora a dare qua e là dei “colpi di pinna”. Insomma è la dimostrazione, che qualche speranza per il futuro, magari nel “new italian blood”, possiamo ancora coltivarla. Si tratta magari di trapiantare altrove questi fragili virgulti, visto che per molti anni il nostro paese sarà un terreno “sterile” (trattato, come è stato per anni “malamente”) per molti di loro, e poi re-importarli una volta “artisti maturi”.

D’altronde lì vicino, le architetture di Giò Ponti (casa d’abitazione in via Dezza) e di Arrigo Arrighetti (piscina pubblica al Parco Solari), costituiscono dei capisaldi architettonici, “testimonianze”, di un passato glorioso, gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta in cui Milano era (prima di diventare “La Milano da bere”) un luogo di produzione culturale di assoluto livello internazionale. Realtà come il Ciak o il Teatro Smeraldo, la stessa Brera scomparse o in corso di sparizione, erano i trampolini di lancio per artisti (pittori, musicisti, architetti, ecc.) a livello nazionale ed internazionale.

Piscina al Parco Solari.

Progettata dall’architetto Arrigo Arrighetti nel 1963, la piscina del Parco Solari ha come principale caratteristica, la copertura, così particolare da costituire l’immagine stessa dell’intera architettura: si tratta di una grande tenso-struttura a forma di sella .

L’ingresso della Piscina Solari è schermato da un setto curvilineo che divide la cassa dalla sala vera e propria, mentre gli altri servizi, che comprendono la direzione, gli uffici, il pronto soccorso, depositi e bagni, si trovano verso la strada. La vasca di piccole dimensioni 25 metri per 10 metri, è anche  poco profonda  si distingue per dettagli architettonici e tecnici, come gli spigoli arrotondati e l’assenza di trampolino o blocchi di partenza. La vista diretta sul parco, in particolare, la rendono una degli impianti sportivi più piacevoli ed affascinanti di Milano.

Casa d’abitazione in via Dezza

Nel condominio di via Dezza, realizzato tra il 1956 ed il 57,  Gio Ponti caratterizza la facciata con una successione di balconate, all’interno delle quali, secondo il programma iniziale molto lecorbuseriano, ogni condomino può far impaginare le finestre e scegliere il colore della sua porzione di facciata in base alla propria sensibilità. Una facciata di “architettura partecipata”, in cui il progettista si limita a offrire le componenti e la maglia entro cui gli acquirenti le dispongono. Nell’attico, si trova la residenza dell’architetto, che realizza un’abitazione dimostrativa della sua idea di pianta libera, sempre nel solco di LC. Le singole stanze, allineate sul fronte, sono divise da pareti a soffietto, che consentono di modulare lo spazio. Si può così ottenere, anche un grande ambiente unitario, rafforzato dal disegno insolito del pavimento in ceramica a strisce diagonali.

Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

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