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Come credere che possa esistere un mondo migliore.


Il cielo sopra Milano, il 5 settembre 2011

Sai, essere libero
Costa soltanto
Qualche rimpianto
Sì, tutto è possibile
Perfino credere
Che possa esistere
Un mondo migliore
Un mondo migliore
Un mondo migliore
Un mondo migliore

(Vasco Rossi, un Mondo migliore, 2016)

Ennesima lettera, e probabilmente ultima, di dimissioni da organi comunali farlocchi, la cui terminologia nasconde in realtà la volontà opposta DISTRUGGERE IL PAESAGGIO.

Una DISTRUZIONE, che cerca la legittimazione legislativa (e politica), attraverso organi costituiti da liberi professionisti, non pagati, selezionati in base alla loro esperienza curriculare,

Quel “paesaggio lombardo” dove ogni giorno, sotto la pressione antropica di quasi undici milioni di residenti, si può assistere ormai da parecchio tempo, ad ogni nefandezza possibile. A scapito dei cittadini, presenti e futuri, puntualmente INGANNATI sulla eventuale salvaguardia paesaggistica.

Porvi argine sembra una cosa ormai IMPOSSIBILE, come credere che possa esistere UN MONDO MIGLIORE.

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Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

LA MACELLERIA DEL PAESAGGIO


Il Centro Direzionale di Milano Garibaldi/Repubblica/Porta Nuova, fotografato dall’Aeroporto di Bresso

La cementificazione della Pianura Padana vista da Montevecchia Alta, in direzione Bergamo

In Lombardia la Legge Regionale n°12/2005 dell’11 marzo “Legge per il governo del territorio“, ha istituito con l’articolo 81, le “Commissioni del Paesaggio”. Articolo che riporto quì di seguito.

La vaghezza del legislatore, ha fatto si, nell’indifferenza degli ordini professionali, che il ruolo dei membri delle Commissioni del Paesaggio, sia ottemperato in maniera completamente gratuita, di fatto configurandosi come totale volontariato.

Compito della Commissione per il Paesaggio è valutare l’impatto di un progetto, garantendo l’equilibrio tra la libera esplicazione del diritto di proprietà, di cui è espressione lo jus edificandi (diritto di edificare), e l’interesse pubblico alla tutela dei valori paesaggistici, che (ove pure sussistente sul piano estetico) diventa recessivo se afferente a un bene non fruibile dalla generalità indifferenziata dei consociati.

Il potere di autorizzare o negare gli interventi edilizi risiede sempre e comunque, da ultimo, in capo al Comune, al cui esercizio non può sottrarsi rimanendo sottomesso al parere della Commissione per il paesaggio, che è e rimane un organo tecnico-consultivo.

La Commissione del Paesaggio, firmando il “Verbale con cui esprime il suo parere”, di fatto però si assume (gratuitamente) la responsabilità civile e penale di quanto espresso nel suo parere tecnico- consultivo. Esemplare in tal senso il “Caso Milano” – https://www.rainews.it/tgr/lombardia/video/2024/11/commissione-paesaggio-milano-inchieste-a719b648-0f3e-4e8b-88c3-621eda064b50.html

Da Montevecchia Alta guardando verso Milano

Ma cosa è il “Paesaggio”………..

La Convenzione Europea del Paesaggio (è un documento firmato il 20 Ottobre 2000 a Firenze ed è parte del lavoro del Consiglio d’Europa sul patrimonio culturale e naturale, sulla pianificazione territoriale e sull’ambiente), considera il paesaggio come  “determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”  è la  “componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale, nonché fondamento della loro identità”.

Il termine “paesaggio” definisce quindi una parte di territorio che viene riconosciuta o meglio percepitadalle popolazioni che abitano tale luogo.

Questo riconoscersi delle popolazioni in un territorio è strettamente legato alle forme spaziali e temporali che la popolazione stessa percepisce nel luogo, permettendole di  disegnare e dare forma al territorio. Questo carattere del paesaggio è legato quindi a fattori naturali e a fattori culturali/antropici, chiarendo definitivamente che il concetto di paesaggio non è definito solo dall’ambiente ma soprattutto dalle trasformazioni che le popolazioni riversano sui loro territori, per determinare un connubio che ci permette di osservare “quel paesaggio” e riconoscerlo come tale.

La “giungla” di antenne sui tetti del centro di Roma

L’Arno a Firenze fotografato dalle “finestre Mussolini” del Corridoio Vasariano

Torre Unicredit vista da Piazza XXV Aprile – Paesaggi vecchi e nuovi che si confrontano

Anni fa lo storico e teorico del paesaggio italo-svizzero Michael Jakob ha scritto che il paesaggio: «non sarebbe un concetto misurabile, identificabile e oggettivo, bensì un fenomeno che si sottrae a qualunque tentativo di fissarlo; la sua rappresentazione, con parole o immagini, si scontra con l’identità fluttuante, aperta e forse irritante del fenomeno».

Sempre uno svizzero rinomato, il sociologo, urbanista e soprattutto promenadologo Lucius Burckhardt, affermò che: «Il paesaggio è un costrutto. Questa parola per significare che il paesaggio non va ricercato nei fenomeni ambientali, ma nelle teste degli osservatori.» Insomma, non è concetto semplice da maneggiare, quello di “paesaggio”, nonostante sia tra quelli più utilizzati da chiunque quando vi sia da descrivere il mondo che ci circonda; parimenti la sua “gestione” non è facile dal punto di vista politico – quello principale, in effetti – stante questa sua indeterminatezza, e non di rado in forza di essa accadono cose opinabili anche se di testi che trattano tali argomenti, e che appaiono utili alla loro conoscenza e competenza, ne siano stati prodotti innumerevoli e molti di grande rilevanza.

Gli architetti che fanno volontariato gratuito presso le Commissioni del Paesaggio di fatto sono, in balia della loro condizione poco definita di dover tutelare un “Paesaggio” che in Italia è poco trattato e non bene definito.

Sono, gli architetti, in balia (NDR – e lo dice uno che per 14 anni è stato membro di Commissioni del Paesaggio in diversi comuni del milanese) delle pulsioni edificatorie delle amministrazioni comunali, ed essendo un organo puramente consultivo, esprimono un parere, facilmente by-passabile da semplici determine dirigenziali.

Il Paesaggio diventa quindi un “minuetto”, una “recita”, una “sceneggiata” fatta per “riempire” la bocca dei politici locali.

Di fronte a progetti “obbrobriosi”, non riformabili con modifiche, o a “storture urbanistiche” (tipologiche, dimensionali, ecc.) fissate, spesso per motivi politici nei PGT (Piani di Governo del Territorio), ai membri che hanno intenzione di “Salvare il Paesaggio”, o quello che ne resta, non rimane che dimettersi (NDR – come ho più volte fatto).

Diversamente in molti Paesi europei, come la Svizzera, il paesaggio da decenni è studiato e normato, ed ogni anno “fissato” in appositi convegni e ricerche pubbliche destinate a definirne, per gli utenti e gli operatori, le mutevoli caratteristiche (https://www.fedlex.admin.ch/eli/cc/1966/1637_1694_1679/it)

Autostrada A2 – E35 (La via delle genti). Scavalcamento paesaggistico/naturalistico a Quinto.

Come scriveva Andrea Zanzotto (1921 – 2011) che è stato uno studioso del paesaggio e partigiano italiano, tra i più significativi poeti italiani della seconda metà del Novecento : ” Un bel paesaggio una volta distrutto non torna più.”

Ma di ciò, in Italia, ai più importa poco; appena si può lo si “macella” il Paesaggio, senza nessun ritegno.

La Torre Velasca e l’abside del Duomo di Milano, visti dall’ ultimo piano della ex Torre Tirrenia, in Piazzetta Liberty

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Paesaggi dello spazio pubblico


Il paesaggio fisico storico esperienziale e rappresentativo, più abituale della vita collettiva nell’Antropocene, è ancora ovviamente lo spazio pubblico, il cui termine, ha contenuti che necessariamente devono essere scomposti, per non ridurlo esclusivamente ad una banale dicotomia storica tra pubblico e privato (piazze, vie, rotonde, parchi, ecc.).

Già Aristotele nel IV secolo a.C. ha affermato la naturale tendenza dell’essere umano alla socialità. Siamo per genia, portati a stare in contatto l’uno con l’altro, questa “contiguità” addirittura è parte essenziale del definirsi della nostra identità.

E’ quindi indubbio, ed acclarato da sempre, il valore sociale dello spazio pubblico, e della sua importanza politica, culturale ed economica.

Lo spazio pubblico è una necessità umana, e la telematica, l’informatica pur insinuandosi in esso, e nella vita contemporanea, non sembrano, per ora, in grado di adattare questo paesaggio, destrutturandolo, a livelli d’informazione e di accessibilità diversi.

Nemmeno “Second Life”, il mondo virtuale (pubblico/privato) elettronico digitale online lanciato nel 2003 dalla società statunitense Linden Lab, è riuscito ad essere un’alternativa allo spazio pubblico reale. Ad un’iniziale successo, la piattaforma dal 2013 ha progressivamente perso utenti (avatar).

I vari social network: Facebook, Twitter, Instagram, nonostante i numeri notevoli degli utenti iscritti, sembrano incapaci di superare il “chiacchiericcio da pollaio”, la “violenza verbale”, la “critica gratuita”, lo sghignazzo”, per diventare degli spazi pubblici di vero dibattito ed incontro sociale. Questi “palcoscenici liquidi” hanno però determinato il collasso definitivo delle sfere sociali classiche: famiglia, colleghi, amici, eccetera. Ciò sta producendo una progressiva ulteriore frammentazione del pubblico e delle sue liaison con il mondo virtuale. L’esempio più concreto è: piazza/mercato = internet/vendite on-line.

La stessa fusione di alcune di queste piattaforme in “Meta”, voluta dal fondatore di Fb Mark Zuckerberg, per superare il calo di iscritti, sembra non in grado di superare questa impasse. Meta non si limiterà a connettere le persone ma punterà al cosiddetto Metaverso, un mondo virtuale nel quale proiettare la nostra identità digitale. La promessa del fondatore della società, è che trasformeremo la nostra “casa” (privata) in un luogo “aumentato” (semi-pubblico) nel quale i nostri amici si materializzeranno davanti ai nostri occhi ovunque essi siano, in cui lavoreremo come fossimo in ufficio, anzi meglio, dove faremo sport o shopping, ed acquisiremo cultura, senza soluzione di continuità.

Oggi possiamo acclarare che nella realtà contemporanea, è in atto una progressiva degenerazione dello spazio pubblico, reale, fisico, di una sua costante perdita di appeal, e contemporaneamente di una sua “ibridazione on-line”, dove la separazione storica, tra spazio pubblico e spazio privato, è ormai ridotta ai minimi termini, o forse già più non esiste.

Storia breve, di una genesi

All’origine “pubblico”, era tutto il Pianeta Terra, in quanto bene comune, a disposizione di tutti gli esseri viventi (animali e vegetali) che qui si sono evoluti, per: abitare, viverci e riprodursi. Poi noi Sapiens, scesi dagli alberi, dopo un lungo periodo di nomadismo, evolvendo, abbiamo incominciato a perimetrare, recintare ed ordinare la superficie terrestre, per coltivare, per produrre alimenti ed energia, per moltiplicarci, rendendo “privati” pezzi sempre più grandi di questo bene comune.

La specie Homo Sapiens, a cui apparteniamo, ha velocemente identificato tutto l’ambiente planetario come, “spazio esclusivamente suo”, eleggendolo ad ambito di azione, a cui appartengono o si riferiscono i diritti o gli interessi di una collettività dominante civilmente ordinata, in continua esponenziale crescita.

L’ambiente naturale, della biosfera planetaria, è stato, nel corso del tempo, modificato, assoggettato all’evoluzione ed alla moltiplicazione selettiva della specie umana (con finalità di puro sfruttamento); la quale specie, ha precise responsabilità, molto evidenti oggi, rispetto all’inquinamento di: aria, acqua, terra: al consumo di suolo (città, agricoltura intensiva, infrastrutture) ed al conseguente cambiamento climatico planetario.

Ancora oggi, il paesaggio fisico storico, esperienziale e rappresentativo, più abituale della vita collettiva nell’Antropocene, è ovviamente questo “bene comune”, il cui termine, ha contenuti che necessariamente devono essere scomposti, per non ridurlo esclusivamente ad una banale dicotomia storica tra pubblico e privato, tra naturale ed artificiale.

Già Aristotele nel IV secolo a.C. ha affermato la naturale tendenza dell’essere umano alla socialità. Siamo per genia, portati a stare in contatto l’uno con l’altro, questa “contiguità” addirittura è parte essenziale del definirsi della nostra identità. Siamo dal punto di vista fisico, meticci, costruiti, mischiati, con il materiale genetico di altri. Nasciamo alimentandoci del sangue di nostra madre; ci alimentiamo con la “materia” di altri esseri viventi. La stessa vita planetaria è già mescolanza di: “infinite altre specie, che si sono date appuntamento nel nostro corpo”.

E’ indubbio, ed acclarato da sempre, il valore sociale, d’incontro, dello spazio pubblico, e della sua importanza politica, culturale ed economica per l’uomo. Lentamente ci siamo impossessati del “bene comune planetario”, riempiendolo di: contenitori, infrastrutture, impianti, natura antropizzata, ecc.; addirittura rinominandolo per farlo diventare “spazio pubblico”, supporto, “esclusivamente nostro” in cui dipanare la nostra vita di specie dominante.

Eppure, questo “spazio pubblico” in senso universale, che continuamente modifichiamo, mangiamo, distruggiamo, ci condiziona e ci modifica. Nella materia carnale e soprattutto nella testa. Come scrive Emanuele Coccia nel suo libro “Metamorfosi”[6]: “La vita non è che un’unità cosmica che stringe la materia della Terra in un’intimità carnale. Siamo tutti carne della stessa carne, indifferentemente dalla specie cui apparteniamo”.

Spazio pubblico e Natura

La natura (L’ecosistema terrestre, il bene pubblico planetario condiviso) non è un “prodotto” umano; la specie umana può solo tentare di arrivare a capire, e modificare, la natura, attraverso la cultura. In tal senso la banca dati del World Wide Web, ci consente, con l’ausilio dei computer, di comprendere, attraverso una “memoria culturale” la continua metamorfosi dei saperi più diversi: dalla zoologia alla filosofia, dalla biologia alla linguistica, dalla botanica alla letteratura, dall’architettura all’astrofisica, dalla genetica all’arte. Ne risulta una visione in cui l’essere umano stesso, secondo Coccia, è una specie di “zoo ambulante”, un “Arlecchino” frutto ed espressione di una forma di vita più vasta e magistralmente intimamente interconnessa.

Lo spazio pubblico, in cui si muove questo “Arlecchino” è però una necessità tipicamente umana, e la telematica, l’informatica pur insinuandosi in esso, e nella vita contemporanea, non sembrano, per ora, in grado di adattare questo paesaggio, destrutturandolo, a livelli d’informazione e di accessibilità diversi.

Lo abbiamo visto bene tutti durante la “clausura” pandemica, dove l’isolamento, la mancanza di socialità protratta per lungo tempo, ha portato conseguenze psicologiche, su vaste fasce della popolazione, e soprattutto sui giovani. La stessa necessità di applicare in maniera diffusa lo smart-working (in italiano: lavoro agile), ha fatto cambiare completamente gli orari di uso delle città, ed i riti di frequentazione delle persone, costrette a vedersi ed a risolvere i loro necessari incontri, mediante l’utilizzo di piattaforme on-line: Meet, Zoom, Teams, eccetera. Soprattutto l’isolamento pandemico, ci ha indirizzati ad acquistare su piattaforme dedicate, come Amazon, o direttamente on-line dai produttori. Salvando molte attività commerciali, che velocemente hanno implementato o ampliato la loro presenza on-line. Però molti negozi, luoghi di arricchimento e mediazione sociale, proprio dello spazio pubblico, sono stati costretti a chiudere per mancanza di utenti, di fatto modificando il paesaggio pubblico urbano.

Chiusi in casa, abbiamo tutti sperimentato appieno, e modificato, le nostre case (private) per adattarle a queste nuova situazione, per lavorare a casa, per studiare, eccetera. Le nostre abitazioni sono diventate lo sfondo di collegamenti on-line interminabili. Le piazze, le vie, improvvisamente, per imposizione legislativa sanitaria, hanno acquisito una “vuotezza” raramente sperimentata prima. Anche durante gli anniversari istituzionali legati alla memoria di una Nazione.

[fig.1] Piazza del Duomo a Milano il 25 aprile 2020, durante la pandemia (Fonte: Foto dell’autore).

[fig.2] Piazza del Duomo il 25 aprile 2022 (Fonte: Foto dell’autore)

Pandemia: ridefinizione del confine tra pubblico e privato

Gli anni della pandemia hanno determinato una mutazione profonda nelle nostre relazioni, nel modo di lavorare, nella maniera di rapportarci con la realtà “fisica”. E lo spazio pubblico, per “stare insieme” che è la città tutta, o un teatro, o addirittura un parco, hanno subito una forte mutazione. Lo spazio pubblico, è stato per anni gravato da provvedimenti sanitari restrittivi, ma oggi, con un allentamento del controllo sanitario, in atto, conseguente alla riduzione della circolazione virale, gli spazi pubblici (piazze, spiagge, discoteche, teatri, raduni, concerti, ecc.) stanno riacquistando il loro ruolo sociale, ante-pandemia.

Nemmeno “Second Life”, il mondo virtuale (pubblico/privato) elettronico digitale online lanciato nel 2003 dalla società statunitense Linden Lab, è riuscito ad essere un’alternativa allo spazio pubblico reale. Ad un’iniziale successo, la piattaforma dal 2013 ha progressivamente perso utenti (avatar).

I vari social network: Facebook, Twitter, Instagram, nonostante i numeri notevoli degli utenti iscritti, sembrano incapaci di superare il “chiacchiericcio da pollaio”, la “violenza verbale”, la “critica gratuita”, lo sghignazzo”, per diventare degli spazi pubblici di vero dibattito ed incontro sociale. Questi “palcoscenici liquidi” hanno però determinato il collasso definitivo delle sfere sociali classiche: famiglia, colleghi, amici, eccetera. Ciò sta producendo una progressiva ulteriore frammentazione del pubblico e delle sue liaison con il mondo virtuale. L’esempio più concreto è nell’antinomia: piazza/mercato = internet/vendite on-line.

La stessa fusione di alcune di queste piattaforme in “Meta”, voluta dal fondatore di Fb Mark Zuckerberg, per superare il calo di iscritti, sembra non in grado, per ora, di superare questa impasse. Meta non si limiterà a connettere le persone ma punterà al cosiddetto Metaverso, un mondo virtuale nel quale proiettare la nostra identità digitale. La promessa del fondatore della società, è che trasformeremo la nostra “casa” (privata) in un luogo “aumentato” (semi-pubblico) nel quale i nostri amici si materializzeranno davanti ai nostri occhi ovunque essi siano, in cui lavoreremo come fossimo in ufficio, anzi meglio, dove faremo sport o shopping, ed acquisiremo cultura, senza soluzione di continuità. Nel Metaverso, potremo acquistare o affittare “spazi virtuali privati non tangibili”, da ritagliare nel Metaverso (pubblico?), in cui costruire case, ambienti, gallerie, ecc. con degli “architetti digitali”. Magari acquistare questi “spazi virtuali privati non tangibili”, con criptovalute (tipo BITCOIN), in cui collocare/esporre/commercializzare, degli NFT opere d’arte digitali. NFT che significa non-fungible token (gettone non fungibile o gettone non riproducibile), cioè è un tipo speciale di token, che rappresenta l’atto di proprietà e il certificato di autenticità scritto su catena di blocchi di un bene unico (digitale o fisico).

Si genera così uno spazio parallelo a quello fisico; uno spazio virtuale né pubblico, né privato, Uno spazio n cui ritrovarsi come specie.

Infatti, se di fatto, in diluizioni infinitesimali di miliardesimi di DNA, siamo tutti imparentati “fratelli e sorelle”, costituiti in una rete sociale, che si è ritagliata nell’ecosistema planetario, con famelica bramosia spazi pubblici/privati, ad uso esclusivo, come abbiamo visto in precedenza. Questi spazi fisici, sempre più grandi, sono finalizzati ad “ospitare e sfamare” numeri di individui in continuo esponenziale aumento; ma il virtuale, il Metaverso, non consente di produrre cibo ed energia, per “sfamare” individui atti ad una crescita infinita.

Si crea così, un nuovo confine (memoria del recinto/muro), come “limite” tra reale e virtuale. Dove però i significati di “pubblico” e “privato” tendono ad “ibridarsi”, a confondersi.

In architettura la facciata di un edificio, sia esso pubblico o privato (con i suoi materiali, i suoi colori, la sua composizione, ecc.) stabilisce un limite/comunicazione con lo spazio pubblico, sia esso: piazza, via, parco, o quant’altro, e l’io privato degli utenti. E lo stesso spazio pubblico interagisce con gli utenti, attraverso le caratteristiche di finitura, di segnaletica, di arredo, eccetera, degli stessi.

In questo contesto, lo “spazio pubblico”, tende a diventare (nel convenzionamento tra pubblico e privato), sempre più spesso, uno spazio che totalmente pubblico non è. La cessione di spazi pubblici, nelle grandi trasformazioni urbane (piazze, verde, ecc.), ma non solo, diventa una promessa fatta ai cittadini (nella liaison tra politici/amministratore, ed immobiliaristi sempre più voraci) in cambio di “eccessi volumetrici”, ma che nella realtà si traduce soprattutto in spazi che potremmo definire “di solo uso pubblico”. Questi spazi, non più privati, né completamente pubblici, vengono convenzionati e gestiti per decenni, sia come manutenzione, che per gestione degli spazi (eventi, sicurezza, ecc.), dal privato, che ne gode dal punto di vista immobiliare, facendo affacciare su questi “spazi nobili” i propri volumi, che così aumentano ulteriormente di valore.

Il gestore pubblico, non in grado di assumere un ruolo direttorio, manageriale ed economico di rilievo, nella conservazione di questi spazi, soggiace a questa condizione, che è ormai una consuetudine.

Da spazio pubblico a spazio di uso pubblico

In merito a questa mutazione, un caso emblematico lo si trova a Milano, nella trasformazione urbana Garibaldi/Repubblica/Porta Nuova. Il progetto, approvato nel 2004, dopo un iter urbanistico/immobiliare risalente al 1958, è stato curato dall’imprenditore immobiliare statunitense Hines e dalla sede italiana Hines Italia Sgr. Frutto di un convenzionamento innovativo per l’Italia, tra amministrazione pubblica ed operatore privato proprietario delle aree. In questo masterplan, il parco pubblico, realizzato da Hines Italia a scomputo oneri, detto “Biblioteca degli Alberi – BAM” (progetto: studio olandese Inside Outside di Petra Blaisse) è emblematico di questa assurda condizione dello spazio pubblico. Dal 5 luglio 2019 la Fondazione Riccardo Catella gestisce, dal punto di vista tecnico e culturale, il parco pubblico BAM, Biblioteca degli Alberi Milano. Per gestire al meglio il calendario del Parco mantenendone rigogliose, sicure e pulite le aree verdi, tutte le iniziative sono da allora comunicate e concordate con la Fondazione stessa. Nella BAM, anche la miscela floreale, che caratterizza i parterre di questo parco, viene decisa dal privato, per ottimizzare la manutenzione e la resa scenica.

[fig.3 e fig.4] Immagini di alcuni parterre della BAM, durante la fioritura primaverile (Fonte: Foto dell’autore)

Lo stesso vale per piazzetta Liberty (progetto: studio inglese Foster + Partners), sempre a Milano, un altro “spazio in uso pubblico”, dove addirittura il sottosuolo è di proprietà privata (Apple), ed anche qui tutto avviene esclusivamente per convenzionamento, sotto la regia esclusiva del privato. L’accordo di convenzione, prevede che Apple, oltre alla manutenzione ed alla sicurezza della piazza, dovrà organizzare ogni anno almeno otto eventi pubblici gratuiti di alto profilo culturale e sociale, concordati con l’Amministrazione e proporre al Comune almeno quattro ulteriori eventi l’anno.

[fig.5] Piazzetta Liberty a Milano il 15 maggio 2020 (Fonte: Foto dell’autore).

[fig.6] Piazzetta Liberty il 15 maggio 2022 (Fonte: Foto dell’autore)

Eppure, questi “spazi”, vengono percepiti dagli utenti, grazie al marketing “spinto” di eventi prestigiosi in essi realizzati, ai giornali, alla rete ed ai social che ne diffondono le immagini, come se fossero delle entità spaziali esclusivamente pubbliche. Cosa che nella realtà non sono, essendo il frutto di un compromesso, di una convenzione, cui non corrisponde più una chiara definizione terminologica tra ciò che è “pubblico” e ciò che è “privato”.

Sempre nell’Area Metropolitana di Milano, nei comuni di Rho/Pero, è in atto l’operazione immobiliare “Mind”, la riqualificazione dell’ex Area per Expo 2015 (che prima era un terreno agricolo), che è la più grande liaison, tra pubblico e privato, in corso: 510 mila metri quadrati di nuovi edifici, che ospiteranno oltre 40 mila utenti, per un progetto da 2 miliardi di euro. Sarà soprattutto terziario (circa 200 mila mq.), con l’arrivo, presunto, di grandi aziende come Novartis, Bayer, Glaxo, Bosch, Abb, Ibm, eccetera. Poca la residenza (63 mila mq.) di cui 9 mila metri quadrati di residenze di alto livello, e 30 mila mq. di social housing (case a prezzi contenuti). A ciò si aggiungono altri 54 mila mq. di studentati (residenze per studenti). Completano il progetto 16 mila mq. di spazi commerciali, ma senza grande distribuzione, e 7 mila mq. di hotel. Il tutto gestito dai privati di Lend Lease insieme alla società pubblica proprietaria delle aree, Arexpo.

Investimenti previsti: 2 miliardi pubblici e 2 miliardi privati. Per sviluppare il progetto e “valorizzare” almeno 250 mila mq, Lend Lease verserà ad Arexpo 671 milioni di euro, in cambio di una concessione che durerà 99 anni. Altri 230 mila mq saranno “valorizzati” direttamente da Arexpo, che conta di ricavarci 130 milioni, o vendendoli a Lend Lease o direttamente a privati. Oltre a tutto ciò, sull’area è già stato edificato, ed in corso di completamento, anche un ospedale, l’ortopedico Galeazzi, che pagherà ad Arexpo 25 milioni per i 50 mila mq ottenuti.

Ma ciò che renderà credibile e realizzabile l’operazione “Mind”, facendo da attrattore per le aziende hi tech e big pharma, sarà il trasferimento sull’area Expo delle facoltà scientifiche dell’Università Statale (150 mila mq., costo ipotizzato 380 milioni), oltre al più piccolo centro di ricerca Human Technopole su genoma e big data, che ha già occupato Palazzo Italia e si amplierà ad alcuni edifici a ovest dell’Albero della Vita.

Secondo il progetto Lend Lease, 460 mila metri quadrati dell’area saranno occupati da un parco pubblico. Ma per conseguire questa cifra si devono sommare anche i canali, l’anello esterno con i relativi canali, l’arena per grandi eventi, la Cascina Triulza e aree come il “decumano” e il “cardo” di Expo, che saranno in realtà trasformati in viali pedonali alberati, su cui dovranno comunque transitare automezzi per i rifornimenti e che saranno creati sopra la piastra “impiantistica” di cemento che impedisce la piantumazione di alberi ad alto fusto. I cittadini milanesi, nel 2011, hanno votato a favore (con risultato del 95,51%) al quesito di un referendum comunale consultivo, che impegnava a lasciare a parco tutta l’area verde che si sarebbe realizzata nell’area di Expo 2015[1]. Anche qui, il limite, tra cosa è pubblico e cosa è privato, seppur regolato da rigide convenzioni, sembra “labile” e potrebbe erodersi, senza nemmeno rispettare veramente il risultato del referendum pubblico consultivo espletato.

[fig.7] L’Ospedale Ortopedico Galeazzi in completamento nell’Area MIND (Fonte: Foto dell’autore).

[fig.8] L’intorno dell’ex Padiglione Italia oggi sede di Human Technopole (Fonte: Foto dell’autore)

[fig.9] L’area di Expo 2015 a Milano prima dell’intervento (Fonte: immagine del 2001 tratta da Google Earth).

Considerazioni finali

E’ chiaro che, in questa situazione “fluida”, tra una pandemia planetaria, ed una guerra, tra una crisi economica imminente, e la necessità di ristrutturare la maniera di vivere e di produrre, per salvare l’ecosistema planetario, i confini tra pubblico e privato, tenderanno sempre più a soffrire, ad essere labili e “virtuali”. Ci troviamo in una realtà sempre più ingannevole, in cui il Metaverso farà buon gioco a chi realizza spazi fisici, vendibili e praticabili virtualmente, in una loro “costruzione virtuale 3D” ancora prima che si posi a prima pietra. Microsoft ha recentemente annunciato che dal 2022 integrerà il Metaverso nella piattaforma Teams con una funzionalità chiamata Mash: gli utenti potranno creare un avatar con cui partecipare alle riunioni di lavoro

(già lo sfondo lo possiamo alterare per non fare capire dove siamo). Ciò anche per creare un ulteriore spostamento di confine tra reale e virtuale. Ci si prospetta una vera e propria vita senza mai alzarsi dal divano. Spazio “privato” e “spazio pubblico” (la via, la piazza, la città), che stanno lentamente ambedue convergendo, verso quel divano con sopra “noi”, il nostro corpo, la nostra carne, e davanti un terminale video.

Eppure, già di fatto, noi stessi, il nostro corpo, sono da sempre “materia pubblica”, essendo la nostra genia il frutto di una selezione (e di un sostegno sociale) in cui sono entrati in campo tutti gli esseri umani che sono stati presenti sul Pianeta Terra, fin dal primo uomo scimmia, e di tutto quello di cui ci siamo alimentati, sia per ricavare energia vitale, idee, progetti.

Oggi possiamo acclarare che nella realtà contemporanea, è già in atto una progressiva degenerazione dello spazio pubblico, reale, fisico, di una sua costante perdita di senso del “bene comune”, a favore di un appeal, sempre più pilotato e controllato (telecamere, ripetitori wi-fi, conta-utenti, ecc.), anche a causa della pandemia. E contemporaneamente ci, troviamo di fronte ad una sua “ibridazione on-line”, dove la separazione modulata e storica, tra spazio pubblico e spazio privato, come avveniva nelle città porticate di una volta, è ormai ridotta ai minimi termini, o forse già più non esiste.

Bibliografia

Veronica Barassi, I figli dell’algoritmo. Sorvegliati, tracciati, profilati dalla nascita. Luiss Press, 2021

Franco La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, 2020

Giancarlo De Carlo, La città e il territorio. Quattro lezioni, Quodlibet Habitat, 2019

Salvatore Settis, Teatro della democrazia. Cattedra Borromini 2014-2015, Mendrisio Academy Press, 2016

Massimo Cacciari, La Città, Pazzini Editore, 2004

Raymond Ledrut, Sociologia urbana, Il Mulino, 1969

L’ultimo Zucchino


L’ultimo complesso residenziale di CZA (Cino Zucchi Associati – https://www.zucchiarchitetti.com/) realizzato, tra i tanti, si trova a Turro, nella periferia Nord di Milano, in via Valtorta 32.

Si tratta di un intervento che ricalca la poetica dell’ormai notissimo architetto milanese, già codificato nell’intervento dell’area Junghans all’isola della Giudecca a Venezia (https://bit.ly/3AU8Mro), e nelle abitazioni al Portello di Milano (https://bit.ly/3LTDWFB).

Quì a Turro risulta particolarmente interessante l’edificio a torre, che nello smusso, strutturalmente ardito, denuncia l’aspetto sensuale della architettura sapiente e di scuola tipicamente milanese.

https://bit.ly/3VtdO7w

Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

Ad un secondo dalla fine!


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Lo Scalo Ferroviario di Porta Romana a Milano

L’ultima GRANDE OCCASIONE milanese per operare una tutela SANITARIA dei cittadini, vista la particolare FEROCIA, con cui il virus Covid19 ha colpito il territorio milanese, sono gli scali ferroviari dismessi. L’ultima occasione per creare dei vuoti urbani di verde orizzontale (e non verticale come vaticinato dal Sindaco Sala – https://bit.ly/3c9mAPN ), che dovrebbero essere acquisiti per motivi sanitari, dalla pubblica amministrazione. Per farne RESPIRARE MILANO, dopo che per anni si è fatto finta che le micropolveri sottili non esistevano, che i caotici traffici dei mezzi pubblici e privati non andassero interrotti MAI ! Eppure a Milano da anni di inquinamento si muore, esattamente come per il virus (https://bit.ly/2XB99mE). Già persa l’occasione dello Scalo Farini (https://oma.eu/projects/scalo-farini), ora tocca allo Scalo di Porta Romana. L’ex scalo di Porta Romana a Milano, che è già un meraviglioso parco, di vegetazione nata spontaneamente tra i binari,  sarà messo in vendita da Fs entro il mese di giugno 2020, per dare il via ai lavori per la costruzione del Villaggio olimpico che dovrà essere pronto nel giugno 2025, un anno prima dei Giochi invernali (https://bit.ly/2M8PpS2). Nonostante la “VIOLENZA” della pandemia e la necessità di una ripartenza “NUOVA”, non vedo i cittadini mobilitarsi, ma nemmeno l’opposizione politica, ad un sindaco, Giuseppe Sala (detto “Beppe Cemento”), che ormai governa la città dal suo “trono” sul tetto del Duomo di Milano (https://bit.ly/2B5CUnL). L’intellighezia cittadina pare prona a 90 gradi ai voleri del Sindaco/Manager e dei suoi amici immobiliaristi. UNO SQUALLORE tipicamente milanese!

( https://bit.ly/3esaouX )

ROM

PortaRomana

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Così vicini, così lontani.


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Sopra l’inconfondibile Piazza Duomo venerdì 10 aprile 2020, ore 10,30. Vuota.

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Sopra Sesto Marelli, senza nessuno il 10 aprile 2020, ore 17,30

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Sopra Piazza liberty /sede Apple desertica il 11 aprile 2020, ore 11,30

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Sopra viale Bligny/Aula Magna Bocconi (Grafton Architects)  il 11 aprile 2020, ore 18,00

Ma veramente credevamo, si potesse andare avanti all’infinito a riprodurre un sistema economico capitalista “globale” (di oggetti, di persone, di prelievo indiscriminato delle risorse del Pianeta, d’inquinamento, ecc.), senza prima o poi pagarne le conseguenze, in merito alla distruzione sistematica, e senza limiti, di un ecosistema planetario?

Se non era il virus, sarebbe stato il clima, o altro a darci un segnale forte, inequivocabile. La misura è colma; o si ripartirà dopo questa pandemia, facendone tesoro, cercando tutti assieme di modificare la nostra maniera di vivere su questo pianeta, o presto, la nostra stessa permanenza come specie umana sulla superficie terrestre, ci sarà negata dai fatti. Vanno cambiati i sistemi di produrre, di consumare, di prelevare materie prime, di costruire le città, di muoversi, di coltivare la terra, di vivere. Ci vorrà tempo e sacrificio, ci vorranno soprattutto idee, ma potrebbe essere una grande opportunità per tutti. La possibilità, se sapremo coglierla, di modificare un percorso palesemente sbagliato.

La crisi che stiamo vivendo, dimostra l’intima interrelazione, tra la salute umana e le condizioni dell’ecosistema del pianeta: la scala globale, l’interdipendenza e la rapidità della diffusione del virus Covid-19 hanno mostrato questa realtà in tutta la sua drammaticità. Le aree urbane sono i principali epicentri dell’emergenza sanitaria in corso: Wuhan, Milano, Madrid, New York, ecc., in quanto luoghi privilegiati della contiguità, della densità, inquinati e malsani (Ed in tal senso Milano è leader al Mondo (https://bit.ly/39H5mbr). Tutti fattori che li rendono ottimali per il proliferare del virus, che usa i nostri corpi come vettori, e “contenitori/case/cibo” in cui vivere e diffondersi sul Pianeta.

La forma urbana attuale che continua a estendersi come un tumore inarrestabile, è palesemente inadeguata, per dare risposte alle esigenze anche sociali della società post Covid-19, dove bisognerà rispettare delle precise distanze interpersonali per anni, stando “lontani”, ma cercando di stare “vicini”, come società coesa in grado di supportare questi cambiamenti indispensabili dal punto di vista sanitario ed economico.

La salute, come la natura, nell’ambiente urbano sono circoscritte e ben delimitate, come se fossero un dato di fatto, un’appendice obbligatoria, piuttosto che essere un concetto generativo fondamentale per un habitat sostenibile, in cui gli esseri umani, ed i loro “contenitori” (architetture), cercano di coesistere in armonia con la natura e l’ambiente. I futuri “contenitori per gli esseri umani” dovranno essere realizzati “di natura” (ad esempio di legno – https://bit.ly/2UQXTlE) non solamente “rivestiti” con essa, per conseguire fin da subito, benessere e salubrità per la collettività.

L’emergere di epidemie porta alla luce il significato di un nuovo concetto di salute e benessere in relazione all’ambiente costruito. La città andrà ripensata, radicalmente, come dovremo ripensare la nostra vita di relazione per coesistere con il virus.

La politica soprattutto nei suoi aspetti legati all’economia, deve saper ridare fiducia alla Nazione, riparare i danni alle finanze dei cittadini e delle imprese, che saranno prodotti dalla “chiusura totale”, per proteggerci dalla diffusione virale, isolandoci. Tali danni saranno soprattutto evidenti nel post-virus, tra l’estate e l’autunno 2020, bisognerà quindi garantire riforme in grado di innescare un duraturo e innovativo percorso per una “crescita economica controllata”. Intendendo con questo termine, l’esigenza di dare una chiara discontinuità, rispetto alla “crescita folle” e senza limiti in cui eravamo tutti “lanciati” prima dell’epidemia.

Da domani saremo chiamati a prefigurare lo spazio urbano dell’uomo, nelle grandi città, con uno sguardo nuovo, “diverso”: partendo dalla Natura e dal nostro rapporto con essa; e non solo dall’antropocentrismo. Non basterà più evocare un frettoloso maquillage verde, come fatto a Milano fino a ieri, per “nascondere il cemento sotto il tappeto” e sottrarre agli occhi dei cittadini, le masse volumetriche eccessive di una pianificazione quantitativa, asservita alle immobiliari ed ai capitali esteri o italici, più che qualitativa, dalla parte dei cittadini ed a tutela della loro salute.

Il problema è che i politici, gli imprenditori, soprattutto quelli milanesi e lombardi, sono stati abituati per anni a svolgere il loro ruolo avendo a disposizione un’elevata quantità di denaro. La crisi economica, post Covid-19, imporrà di riprogettare l’Italia e soprattutto Milano e la Lombardia, avendo a disposizione pochi soldi e tempi contingentati (se non si vuole che tutto muoia). I Manager veicolati da prestigiose esperienze imprenditoriali, senza limiti di cassa, ed i liberi professionisti imprestati alla politica, non hanno una cultura in merito. Bisognerà essere geniali e portatori d’idee innovative. Soprattutto comunicare quello che si fa, molto bene, ed in maniera chiara. Ci vuole altro rispetto all’attuale organigramma amministrativo milanese e lombardo. Bisognerà anche mettere mano agli assetti urbanistici della città; il vigoroso, volumetrico e “verdeggiante” PGT 2030, approvato in Consiglio Comunale milanese pochi mesi fa, è ormai carta straccia. Inadeguato alla società post Covid-19. Sarà molto difficile trovare capitali e società che vogliano insediarsi in quella che è stata la capitale italiana della “peste 2020”.

Si dovrà agire, mettendo a punto nuovi standard abitativi, un nuovo sistema di mobilità e nuovi modi di pensare gli spazi collettivi. Valorizzare i vuoti urbani, per fare “respirare” la città, ed il verde orizzontale. Magari demolire ciò che è vetusto ed ecologicamente non risanabile. Incentivare al massimo le architetture sostenibili, altamente sostenibili dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico e dell’equilibrio termico, a consumo zero. Architetture fatte di natura, facilmente riciclabili e sostituibili.

Eppure, Milano ha già, in seno al proprio costruito, un esempio emblematico in tal senso, che ricostruisce qualità ambientale e sociale, all’insegna di una natura “dentro” che dà il senso dello scopo anche “sanitario” dell’architettura (https://bit.ly/2Xs7cuk), che si dovrà conseguire dovunque, laddove possibile, in futuro.

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Sopra – Complesso Aler di Via Cenni a Milano, Arch. Rossi Prodi, 2015 

Sotto –  Foto del complesso dall’alto, tratta da – https://bit.ly/2JWHruc

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BOERITUDINE gourmet


TRE B

Può essere Milano una città più serena, che persegue il raggiungimento della sostenibilità di capitali europee, già da decenni in “corsa” per raggiungere lo stesso obbiettivo per il 2025 (https://bit.ly/2C8N7NP  – ben 5 anni prima).

E mentre da noi, a Milano, si discute di qualità dell’architettura (e non di giardinaggio), distratti ad arte da Beppe Sala e Pierfrancesco Maran; il duo cela nel VERDEGGIANTE PGT 2030 di Milano, milioni di metri quadrati di slp. per l’esattezza : 4 milioni e 500 mila; pari ad oltre 15 milioni di metri cubi di cemento (con le premialità inerente la sostenibilità del Regolamento Edilizio); pari ad oltre 100 mila nuovi residenti a Milano da qui al 2030.

Un volume pari a SEI VOLTE il volume della Piramide di Cheope. Eppure nessuno dice niente in merito. Passate le osservazioni, si discute dei milioni di alberi che il Sindaco Sala ha promesso di piantare (per nascondere il cemento).

Milano è ormai da anni in preda alla “Boeritudine”, che ha dimostrato che si può nascondere un grattacielo a torre (massiccio e pesante, di una mediocre qualità architettonica) sotto alcune migliaia di piante, ed i turisti, i cittadini e gli architetti, giù a sperticarsi in complimenti senza fine.

L’architettura ormai è solo “nascondimento” nella città più INQUINATA (https://bit.ly/2q4FLYQ) ed europea d’Italia; ma è anche propaganda, effetto, stranezza, e il futuro non può essere un bosco verticale replicato all’ennesima potenza, come si legge nei documenti del PGT 2030 e nel testo del Regolamento Edilizio, che il duo Sala/Maran si accinge a modificare.

Ci vogliono PARCHI, pause nel tessuto urbano, per OSSIGENARE i cittadini che muoiono letteralmente asfissiati.

Mentre nel PGT 2030, la giunta “spaccia” il nascondimento VERDEGGIANTE di un’edificazione “prona” alle esigenze degli immobiliaristi (Coima, Hines, ecc.), letteralmente “FUMANDOSI” anche l’occasione generazionale di 1 milione e 200 mila metri quadrati degli ex Scali Ferroviari da trasformare PER MOTIVI SANITARI URGENTI, esclusivamente in aree verdi, in parchi (come il Parco Nord); mentre invece solo il 50/60% di queste enormi aree sarà trasformato in verde pubblico (ovviamente a gestione privata).

E’ la BOERITUDINE GOURMET, la ricetta perversa di mettere verde ovunque, rinunciando a costruire una città per i cittadini, fatta di piazze, parchi, case  popolari, servizi, biblioteche (non di alberi MA DI LIBRI), come si faceva qualche decennio fa con l’Urbanistica.

Oggi con il PGT (Piano di Governo del Territorio) la pubblica amministrazione ha delegato il tutto alle fameliche ricette degli immobiliaristi, mentre la BOERITUDINE convince tutti esattamente come UN SOLE INGANNATORE.

No, così la città, Milano non PUO’ ESSERE SERENA.

BOERITUDINE

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Call for Ideas


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Nel lontano 1978, appena diplomato al Liceo, e da poco iscritto alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, l’assistente di disegno (che faceva l’architetto) mi propose, chiamandomi a casa, visto che ero il più dotato del suo corso, di fare un lavoretto di disegno, per un annetto part-time, in un comune dell’Hinterland milanese.

Si trattava di disegnare e correggere gli elaborati del nuovo Piano Regolatore Generale, che si andava a redigere. A tal fine il comune dove allora imperavano i socialisti, aveva costituito nella recente sede comunale, un apposito ufficio di Piano.

I tre architetti incaricati di redigere il P.R.G. erano tutti di “sinistra”, il capintesta (che poi sarebbe diventato dopo questa esperienza il mio datore di lavoro) ovviamente iscritto al Partito Socialista e con ufficio in prossimità della sede provinciale del PSI in Corso Magenta a Milano.

Gli altri due molto più giovani, gravitavano ; uno nell’area del PCI, l’altra (la mia assistente) probabilmente nel PDUP, il partito di unità proletaria, o giù d lì.

La Stesura delle tavole di piano avveniva cercando di interpretare i dati raccolti sul territorio, i possibili sviluppi futuri, le desiderata dei cittadini e dei politici che veniva interpellati in estenuanti riunioni. Sembrava un’operazione “scientifica” ed immutabile, o almeno a me così appariva all’inizio.

L’incarico era di disegnare a mano i profili del centro storico e stendere su degli enormi radex (copie eliografiche su supporto lucido), i retini autoadesivi delle varie destinazioni funzionali, i trasferelli con i percorsi pedonali, le sigle, le legende, ecc..

Un lavoro demenziale se immaginato oggi; un lavoro manuale, che l’Ufficio Tecnico comunale non era in grado di svolgere perché sottodimensionato, e che a me consentiva di fare la mia prima esperienza lavorativa.

Io c’ero…..ma non c’ero, per motivi politici; e per questo il Comune mi pagava IN NERO circa 1.500 lire all’ora (meno di un euro). Come faceva l’amministrazione comunale a pagarmi in nero, lo sa solo Dio. Ma allora era quasi una consuetudine.

La mia disponibilità di tempo doveva esserci anche la sera fino alle ore piccole. Infatti dopo ogni presentazione pubblica degli elaborati dello strumento urbanistico ai cittadini, avvenivano delle riunioni ristrette, al piano sottostante (sindaco, giunta assessori, rappresentanti dei partiti che amministravano), dove spesso si aggiungevano “altri personaggi” (rappresentanti dell’opposizione, immobiliaristi, proprietari di grossi appezzamenti di terreno, singoli con molto potere decisionale, imprenditori, ecc.).

Io dovevo essere abile e preciso, a spostare immediatamente i retini per trasformare zone inedificabili in terreni costruibili; spostare improvvisamente strade e quant’altro. Spesso attendevo per ore, mentre sentivo che litigavano a voce alta animatamente. Poi velocemente spesso anche aiutato per velocizzare la cosa dovevo trasformare il lavoro dignitoso fatto in una “porcata”. Il tutto avveniva anche più volte nella stessa serata.

Era il SACCO del territorio. La compravendita “bendata” al mercato delle vacche. Era una accesa “partita a tresette”, come veniva dai più chiamata.

Poi i tre tecnici dovevano fare “digerire” quanto prodotto, al consiglio comunale ed ai cittadini. All’opinione pubblica.

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Oggi un certo Pierfrancesco Maran, e l’amministrazione Giuseppe Sala tutta, lanciano per l’aggiornamento al 2030 del PGT (Piano di Governo del Territorio, cioè quello che una volta era il Piano Regolatore Generale), anche una “Call for Ideas”. Insomma il Comune raccoglie idee e scenari che si ispirino agli obiettivi e regole del PGT (ovviamente gratis) rivolta a esperti, investitori, operatori che vogliano immaginare possibili scenari urbanistici per alcune aree della città in base alle regole e agli obiettivi del Piano di Governo del Territorio. Le proposte dovranno essere inviate tra il 30 novembre e il 20 dicembre 2018.

http://www.comune.milano.it/wps/portal/ist/it/servizi/territorio/revisionePGT/PGT_Milano2030_CALL?fbclid=IwAR16vCKN6LeTwm_XmwQVZh4a8-Ey9qkEcT4CT4sxbJ1gFWfPJwJuZbccwXs

Una chiara, e triste, OPERAZIONE DI MARKETING POLITICO, di FALSA DEMOCRAZIA ED INCLUSIONE, infatti tutto avverrà esattamente come ho descritto nel testo soprastante, alla stessa maniera in uso nel 1978 (40 anni fa) : la “partita a tresette”. Ma ovviamente Maran e Sala questo non possono dirlo, e tutta l’operazione di NASCONDIMENTO E PARTECIPAZIONE avviene con l’avvallo dell’Ordine degli Architetti di Milano e provincia. Soprattutto Maran e Sala, non possono dire che molte delle opzioni possibili politiche e territoriali, a questo punto sono già state decise.

http://www.arcipelagomilano.org/archives/51222

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Con – gresso


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La “mission” di questo Ottavo Congresso degli architetti, sembra IMPOSSIBLE, e forse lo è per davvero : “ offrire un significativo contributo al dibattito sul futuro dell’abitare, delle città e dei territori, proponendo un nuovo paradigma della qualità della vita urbana, ripensandone il modello. Una città, quella a cui pensano gli architetti italiani, che diventi sempre più un luogo desiderabile dove vivere, lavorare, incontrarsi, formarsi, conoscere e divertirsi: un luogo attrattivo, dunque, da tutti i punti di vista …..E poi c’è il tema dell’elaborazione di un – Disegno di Legge per la tutela dell’architettura – ”.

Oggi non sembra possibile dare una risposta che abbia un senso, una coerenza, a questo quesito plurimo. Sembra più comodo, come ormai sta succedendo da un pò di anni a questa parte, affidarsi, sia in architettura che nell’urbanistica, alla “verzura” alla “pelle” degli edifici, creando, di fatto, una solitudine architettonica di architetture “isolate” ed autoreferenziali, che costituiscono continue eccezioni, continue “invenzioni” che non costruiscono più le strade, le piazze, che sono l’anima storica stessa della socialità cittadina italiana (come ha detto di recente lo stesso Jacques Herzog in una conferenza alla Feltrinelli per MILANO ARCH-WEEK 2018).

Oggi nei PGT e nei PRG, è il verde, la piantumazione di alberi (Milano nell’aggiornamento del PGT prevede di insediare in città decine di migliaia di nuovi alberi), che va per la maggiore, e non l’architettura (quella “buona” con la “A” maiuscola). Si rifugge dall’architettura piuttosto che creare le condizioni per una dimensione urbana più umanamente sostenibile che suggerisca una nuova maniera di “abitare” le città 2.0.

I temi delle città oggi sono : l’insicurezza (più percepita che effettiva), la crescente diversità sociale (pochi ricchissimi, e tanti quasi alla soglia di povertà) e le questioni di convivenza (giovani/anziani, italiani/immigrati), i diritti delle minoranze, l’accesso ai servizi, l’avanzamento del digitale (e della nascente robotica), l’infrastruttura tecnologica (rete, mobilità, ecc.) e la dimensione immateriale del futuro urbano; le soluzioni sembrano legate esclusivamente all’architettura sostenibile e agli approcci resilienti “a base di verde”, per una progettazione urbana, che viene “spacciata” in alleanza con la natura (ma che così inevitabilmente non è).

Il Verde nei Piani di Governo del Territorio, nei P.R.G., serve come “Cavallo di Troia” per immettere in città sempre più caotiche ed inquinate (come ad esempio Milano, la città dove lavoro), altra superficie lorda di pavimento (SLP) e nuovi residenti, con il loro traffico conseguente (che uccidono con le micropolveri sottili) e la congestione dei servizi. Un esempio emblematico la dismissione gli scali ferroviari milanesi, dove il miraggio di parchi verdi sul modello di “Central Park a New York” è la caramellina per fare “digerire” ai milanesi milioni e milioni di metri cubi. Sempre più spesso chi amministra è “prigioniero senziente” di logiche immobiliari trasnazionali (fondi arabi, ecc., fondi cinesi si stanno comprando le nostre metropoli e gli edifici più significativi). Gli architetti e gli urbanisti sono prigionieri e “complici” anche di logiche mediatiche tese a conseguire attraverso la progettazione “verde”, il consenso dei cittadini, ad un continuo consumo di suolo. C’è chi si oppone a mere logiche di consumo di suolo senza qualità ( https://bit.ly/2ME55uF ), c’è chi invece inneggia ad una continua crescita dell’edilizia fine a se stessa anche quando gli alloggi vuoti raggiungono numeri ragguardevoli ( solo a Milano oltre 70 mila alloggi vuoti – https://bit.ly/2lJOPwJ ).

Il dibattito tra gli architetti in merito si fa acceso, ed anche generazionalmente divisivo, da una parte gli architetti anziani, che cercano una liaison una “connessione” con la storia delle città, per ottenere un governo del territorio più coerente con il passato, magari a piccoli gradi. Dall’altra gli architetti più giovani, dove la storia, la “memoria” è solo un peso a cui soggiacere per giustificare qualunque soluzione possibile per una città a dimensione degli immobiliaristi. L’equazione SLP = LAVORO, in particolare modo a Milano è quanto mai vera, visto che la metropoli lombarda è in un certo senso, considerata dai più lo “Stargate” per l’Europa, degli italiani. Ciò fa si che la popolazione giovanile di Milano, ed anche quella degli architetti (immigrati da ogni parte d’Italia), sia in continuo aumento e che necessita di una risposta abitativa e di servizi sempre più marcata ed impellente ( https://bit.ly/2z5VgUy ).

L’utopia di una città ecologicamente sostenibile fatta di tecnologie (costose) meno impattanti : auto elettriche o ibride, mezzi di trasporto elettrici, impianti di riscaldamento ad emissioni zero (pompe di calore. Impianti fotovoltaici, ecc.) sembra difficile da raggiungere vista la situazione economica italiana ed il continuo aumento della popolazione non in grado di avere un reddito in grado di sostenerla ( https://bit.ly/2MCIkas ).

Bisogna come architetti, reagire alle affermazioni che tendono, con troppa facilità, a rendere come ineluttabile il diffondersi delle nuove tecnologie applicate alla città, rendendo le strutture morfologiche, spaziali e architettoniche sempre vetuste (e sempre più velocemente)  perchè “non fluide”, mentre per i progettisti “di qualità” rappresentano un patrimonio e una costante di valore insostituibile. Come architetti e progettisti abbiamo difficoltà a pensare che la città 2.0 (o 4.0), destinata ad azzerare gli storici spazi urbani, possa rappresentare un riferimento valido in senso generale anche se le nuove tecnologie (computer portatili, smartphone, ecc.), possono contribuire, con facilità, a rendere più accessibile, fruibile e godibile la città storica.

La formazione universitaria degli architetti d’altronde, dopo anni di crescita segna il passo, sia al sud che al nord ( https://bit.ly/2NeTe7fhttps://bit.ly/2IFL8kQ ), una eccessiva liberalizzazione della professione ha fatto si che i numeri dei professionisti architetti in Italia, siano “ai confini della realtà” ( https://bit.ly/1QEtfSG ).

E’ un pericoloso “mix esplosivo” che accomuna la Scuola di Siracusa ad un trend nazionale ed anche internazionale di gettonate Accademie, in odor di crisi d’iscrizioni. S’impone una importante riflessione che travalichi il contesto locale.

La liberalizzazione delle parcelle aggiunge ulteriore mancanza di qualità all’azione professionale ( https://bit.ly/2tVY2We ).

Mentre gli ordini cosa fanno ? Quando va bene , ce la “cantiamo e ce la suoniamo” tra di noi architetti, oggi più che mai con l’obbligo dei crediti formativi, chiusi nelle aule degli ordini professionali (che così hanno trovato un motivo per continuare ad esistere), ed i webinar on-line. Vi è uno scollamento tra l’idea che hanno gli italiani degli architetti (mangiasoldi ad ufo ed incompetenti) ed una professione che, nel Paese della “Grande Bellezza”, dovrebbe essere al centro di una riflessione sociale complessiva su: paesaggio, architettura, ripristino del territorio dal punto di vista idrogeologico, turismo, mobilità, futuro, ecc.. Bisognerebbe iniziare a diffondere (a tutti e per tutti : nelle scuole d’obbligo, agli anziani, ecc.), un sapere disciplinare che troppo spesso è legato solamente ai nomi di un paio di archistar (Renzo Piano, Massimiliano Fuksas….) o alle storielle mediatiche di Alberto Angela sulle architetture del passato. Bisogna ritornare a raccontare, noi architetti, l’architettura ed il paesaggio italiano alla gente comune, in maniera chiara e comprensibile, spiegando il legame indissolubile con una delle professioni più belle al mondo, quando gli è consentito di “dispiegare le ali”.

Non sarà certo una “Legge di tutela della architettura” (e della professione dell’architetto), l’ennesima legge italiana nel coacervo di eccesso di legislazione attualmente vigente, a fare si, che l’architettura (la buona architettura, i bravi architetti, ed anche il buon paesaggio) torni in Italia ad essere un bene comune dal punto di vista culturale, sociale ed economico. Prima c’è molto da fare proprio da parte nostra (di noi architetti) e soprattutto all’interno della nostra professione !

Sesto San Giovanni, 1 luglio 2018

Dario Sironi

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