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Builders of the future

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Svizzera

Le jene


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L’ultimo edificio dell’epicentro Vitra di Weil am Rhein, sarà un “contenitore edilizio”, il progetto è di Herzog & de Meuron. Si tratta di un deposito/galleria (Schaudepot) per la collezione di sedie dello svizzero Rolf Peter Fehlbaum (Capostipide della famiglia), che ha inventato l’attuale realtà imprenditoriale di Vitra.

Si tratta di un edificio completamente chiuso, se si esclude la porta d’ingresso, con microclima ed illuminazione controllata, destinato alla preservazione degli importanti “pezzi di design” che vi saranno insediati. Una architettura “banalotta”, in linea con le ultime tendenze “provocatorie” del duo allargato di basilea.

Il rivestimento è in mattoni rossi alleggeriti, appositamente spezzati, di un colore rosso intenso. Rosso sangue.

Gli architetti, noi architetti, siamo delle jene, pronti ad azzannarci tra di noi. Essendo in molti e volendo tutti insistere nello stesso territorio, la competitività è spietata, senza essere esente da colpi bassi. Noi architetti siamo degli “animali opportunisti” che perseguono l’illusione del grande successo. Pur avendo un buon grado di adattabilità agli eventi della vita, a predominare sempre, è soprattutto il cinismo; avendo la capacità di digerire qualunque sopruso, qualunque ignominia, pur di lavorare, e di avere successo.

Il nostro cinismo è inversamente proporzionale alla età anagrafica; più si è giovani e più, non guarda in faccia a nessuno. Pronti a “venderci l’anima” per un lavoro, per un incarico, per emergere. Il sangue dei colleghi, il loro insuccesso, ci eccita, ci esalta.

La maggior parte degli architetti di oggi (ma non tutti) è di fatto a spiccata tendenza logorroica. Continuiamo a parlare di noi stessi, non sappiamo ascoltare, e riempiamo angosciati, qualunque silenzio. E’ diventato un vero e proprio sport disciplinare, parlare male dei colleghi, di tutti i colleghi. Appena uno esce dalla porta, o appena si termina una telefonata, ecco che gli improperi ed i diminutivi “piovono a raffica”, verso l’altro colpevole spesso solamente di esistere.

L’architetto deve tornare a fare l’architetto, cercando d’innovare, con un lavoro paziente e “poco cinico”, cercando nello spirito del proprio tempo cosa mettere alla base del proprio lavoro, e della propria etica professionale. Bisogna ritornare ad individuare i veri contenuti capaci di sostenere il lavoro, senza “scannarsi con i colleghi”, magari prendendosi dei rischi, avventurandosi anche in territori poco conosciuti.

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Droga per architetti


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Durisch & Nolli, progetto primo classificato al concorso AIM.
Mendrisio 2015

TESTIMONIANZA – Ho lavorato, per un lungo periodo, tra il 1988 ed il 1991, per un’architetto di Milano, geniale e simpatico (che chiameremo Patsy, come il personaggio di Bonvi). Patsy, aveva 45 anni, pesava ben oltre i 100 chili, ed era alto più di centonovanta centimetri. Il suo bagaglio culturale spaziava a 360 gradi, dall’architettura alla letteratura, all’universo femminile, passando per la cucina (di cui era un raffinato interprete).

Costui, di buona (e ricca) famiglia dell’alta borghesia milanese, era stato assistente al Politecnico di un noto teorico dell’architettura, che poi sarebbe diventato Preside della Facoltà di Architettura.

La moglie (più giovane di qualche anno), di origine spagnola, lavorava con lui essendo anch’essa architetto. I due avevano una bella casa in affitto nel centro di Milano, vicino alla Chiesa di Santa Maria delle Grazie. Lo studio di Patsy (da lui stesso ristrutturato), ovviamente si trovava in zona Navigli, e vagamente assomigliava allo studio di Le Corbusier di Rue De Sevres a Parigi. La vasta biblioteca dello studio contava oltre 4.000 volumi; gli acquisti si succedevano a ritmo incessante.

Patsy aveva un unico difetto : era letteralmente “impossessato” dal morbo dei concorsi di architettura. Lui e la moglie, vivevano letteralmente per la competizione, trovando li, la sublimazione del loro rapporto. I concorsi di architettura, per loro erano come una droga, oltre che un motivo di vita.

Negli anni che ho lavorato per loro, si realizzavano tra gli 8 ed i 10 concorsi per anno. Tutta l’attività professionale, ancora incentrata sulla manualità, orbitava attorno ai concorsi di architettura, essi costituivano un momento di ricerca, ma soprattutto erano stati individuati come l’unico momento per fare veramente “L’Architettura”, quella con la “A” maiuscola. Senza compromessi, senza condizionamenti, senza clientela mafiosa (ricordo che allora Milano “era da bere”, saldamente in mano alla gerontocrazia socialista).

Tre, quattro persone, più loro due, lavoravano costantemente in studio, quasi esclusivamente a produrre gli elaborati concorsuali; a cui io mi aggregai in qualità di coordinatore. Pochissima attività professionale redditizia. Facemmo anche molti concorsi internazionali: in Giappone, in Svizzera, in Francia, ecc..

http://www.ticinonews.ch/ticino/260769/nuova-sede-delle-aim-ecco-il-progetto-vincitore

Tutti i concorsi iniziavano con un sopralluogo a cui partecipava tutto lo studio, in cui si vagava in maniera a-finalistica per l’area oggetto dell’intervento, scattando numerose fotografie. Lunghe ed interminabili riunioni (anche notturne) per decidere il progetto, la composizione delle tavole, la scelta della carta da lucido, le tecniche di coloritura degli elaborati finali. La ritualità della chiusura delle buste e dei pacchi, per l’invio degli elaborati (internet ancora non era diffusa), era quasi un “evento” sacro. La consegna talvolta, si trasformava in un finale concorsuale tragico.

Ricordo ancora chiaramente quando Patsy, con la moglie, una volta preparato il tutto, partì dopo una nottata passata a finire le tavole concorsuali, in direzione Firenze. Era inverno, e Patsy (mentre la moglie cercava di tenerlo sveglio) spesso abbassava il finestrino per esporre la testa all’aria fresca, per mantenersi vigile. Arrivato nella città toscana, con largo anticipo, decise di fermarsi appena dopo il casello, per una pennichella in auto, prima della consegna. I due dormirono ben oltre l’orario di consegna, e gli elaborati finirono inevitabilmente incorniciati, su un muro dello studio, ad imperitura memoria.

Gli insuccessi si succedevano con estrema regolarità. I pochi successi, mai compensavano i costi. Le spese della struttura lavorativa erano impressionanti. Già nel 1990,  il fornitore del gas che alimentava la caldaia dello studio, iniziò a piombare le valvole. I pagamenti dei collaboratori si fecero saltuari; il pagamento degli affitti, dei fornitori e delle rate dell’auto una remota eventualità a cui sfuggire in maniera sempre più rocambolesca. I due architetti “succhiato” tutto quello che era credibilmente ottenibile dai parenti, caddero in disgrazia. Lo studio fu chiuso definitivamente nell’estate del 1992 (quasi all’inizio di “Tangentopoli”), anche se ormai era inagibile dall’inverno precedente, senza illuminazione, riscaldamento, e presidiato dai proprietari che rivendicavano numerosi trimestri arretrati di affitto.

Ho rivisto recentemente Patsy, che è stato lasciato dalla moglie (che ha avuto poi due figlie) e si è trasferito vicino a Ravenna, dove si è rifatto una vita anche professionale (ristruttura ville storiche per una società tedesca).

Abbiamo riso assieme davanti ad una birra, ricordando quegli anni “gloriosi”. In particolare abbiamo evocato un incontro con Flora Ruchat, nella sua bellissima casa di Riva San Vitale, per organizzare un “ticket” per partecipare ad un concorso a Locarno. Davanti ad un salamino e ad un bicchiere di vino, presente anche Ivo Trumpy, mentre parlavamo dell’attività concorsuale insieme a Patsy,  essi “disegnarono” a me (giovane architetto di quasi 30 anni), ed a lui, un panorama ben chiaro del “fare concorsi di architettura” in Italia ed in Svizzera.

In Svizzera allora (ma vale anche per oggi) bisogna correre con il “cavallo giusto”. Soprattutto, sempre bisogna avere nel team concorsuale, uno svizzero che abbia una conoscenza molto alta del panorama geo – concorsual – politico, in modo che sia chiaro fin dall’inizio se sia opportuno o meno partecipare. Solo così, l’attività concorsuale può diventare anche un’occasione professionale ripagata dai premi che la giuria ha a disposizione, o dalla costruzione dell’oggetto concorsuale che non è mai un’eventualità remota.

In Italia, invece, di concorsi d’architettura, certamente non si campa, ieri come oggi. I premi sono ridicoli, i bandi sono fatti male. Quasi mai l’oggetto concorsuale viene realizzato.

Comunque sia nella Svizzera del Canton Ticino, come in Italia, sia allora come oggi, l’attività concorsuale è egemonizzata da un ristretto numero di “soggetti” che si “lottizzano” con estrema sapienza i concorsi più “ghiotti”.

Patsy oggi è completamente disintossicato, dai concorsi di architettura. Si è rifatto una vita, professionale e familiare, ha una bellissima figlia che studia enologia. Comunque per non ricaderci, come un alcolista anonimo, preferisce evitare anche solo di visionare un bando concorsuale.

http://www.varesenews.it/2015/12/piazza-repubblica-foto-vincitori-e-motivazioni/468290/

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Tangibile / Intangibile


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Mentre il “Gran camminatore” di Alberto Giacometti, osserva, nel suo dinamismo immobile, il lago di Lugano, dall’alto (ed all’interno) del LAC, il bel centro culturale progettato da Ivano Gianola, decine di piccoli motori elettrici, rendono tangibile il trascorrere del tempo, nella loro individuale asincronia poco architettonica. Installazione “site specific”, di una precisione geometrica rigorosissima,  realizzata dall’artista svizzero Zimoun.

Sempre all’interno del LAC, ma sottoterra, lo spazio architettonico sembra assumere una dimensione insolita ed improbabile, forme intangibili di luce (nel buio) volute da Antony Mc Call, materializzate da improbabili nebulizzazioni “impalpabili”.

Tra questi due opposti tangibili/intangibili, contenuti in una “rigorosa” architettura, una esposizione tradizionale sui riferimenti culturali dell’orizzonte artistico del Ticino (tra metà Ottocento e metà Novecento).

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Il tempo delle rughe


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Luigi Snozzi (1932) 

In una calda ed umida serata di metà luglio, si è tenuta nell’Ex Convento delle Agostiniane di Monte Carasso (Svizzera), la serata conclusiva del XXII Seminario Internazionale di Progettazione. Seminario che quest’anno ha visto la partecipazione di 24 “Seminaristi” e di numerosi insegnanti.

Tra questi insegnanti sicuramente va segnalato l’importante apporto di Roberto Briccola, architetto di Giubiasco ed insegnante all’Accademia di Architettura di Mendrisio, che ha tenuto una interessante lezione, il 7 luglio, dal titolo : ” La tua casa è la mia città”.

https://www.carasc.ch/Architettura-e9f4e000

E come si è in uso fare, da quando, negli anni Ottanta del Novecento, a Monte Carasso, si sono adottate regole di pianificazione dove architettura, urbanistica e paesaggio “lavorano assieme” (sotto l’egida dell’Architetto Luigi Snozzi), ci siamo recati in macchina da Milano  (con un caro amico architetto : Marcelo Barreiro) ad attingere a questa fonte infinita, che ha la sua “ciliegina sulla torta” proprio nella lezione conclusiva del Seminario Internazionale.

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Quì a Monte Carasso, abbiamo assistito, nel corso del tempo, alle magistrali lezioni di Michele Arnaboldi, Aurelio Galfetti, Mario Botta, Eduardo Souto de Moura, Livio Vacchini, Gonçalo Byrne, Alvaro Siza, Paulo Mendes da Rocha, Guillermo Vasquez Consuegra, Manuel Aires Mateus.

Anche la sera del 16 luglio 2015, è stata impreziosita dalle elucubrazioni architettoniche del portoghese  João Luís Carrilho da Graça (attore principale della critica finale del Seminario), che ha presentato tre progetti a Lisbona, ed uno ad Evora.

Ma al di là di quello che è stato detto dall’insigne oratore, sui suoi progetti : analisi territoriale, genius loci, sintesi sociale, luce, volumi; il “tempo” quale “materiale” della buona architettura è stato l’epicentro della serata.

Anzi sarebbe giusto dire due “azioni temporali” che agivano parallelamente.

La prima quella colta di un professionista, un docente universitario, che, operando con la sua architettura, implementa in essa l’azione storica che il “tempo” (e gli uomini), hanno sedimentato nel paesaggio urbano di una delle più belle città europee (Lisbona). Facendo un’operazione progettuale, che ormai in molti professionisti che assurgono agli onori delle riviste, non è più in uso fare.

La seconda, il “tempo nostro”, che trascorre inesorabile ed è ben leggibile nelle stupende “rughe sul volto” che condividiamo con Luigi Snozzi. Rughe “meravigliose” presenti non sono solo sulla pelle, ma anche nel pensiero, ed inevitabilmente trasposte più o meno scientemente nell’architettura,  che come scrive Andrej Tarkoskij nel suo bellissimo libro “Scolpire il Tempo” : ” In un film (ndr – come in un’architettura) vi sono sempre più idee di quante non ne abbia messe coscientemente l’autore. Come la vita, muovendosi e mutando incessantemente, dà a ciascuno la possibilità di interpretare e di sentire a modo suo, ogni istante, analogamente un film autentico (ndr – ma anche un’architettura autentica), contenente un’esatta registrazione del tempo sulla pellicola, espandendosi oltre l’inquadratura (ndr – oltre le mura di un edificio), vive nel tempo se anche il tempo vive in lui: lo specifico del cinema (ndr – e dell’architettura) è racchiuso nelle caratteristiche di questo processo di interazione”.

Alla fine della conferenza un leggero e fresco venticello, ha incominciato a soffiare dalle alture della Cima dell’Uomo, che con i suoi  2.390 metri sul livello del mare, domina Monte Carasso e la Piana di Magadino.

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Melano Memories


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Nicola Baserga e Christian Mozzetti

Cosa è una “buona architettura” : è un edificio che, oltre a rispondere al programma funzionale, riesce attraverso la composizione delle facciate, i materiali, la disposizione planimetrica, ad esprimere “bellezza”.

Come scrive Alberto Campo Baeza, nel suo bel libro : “L’idea costruita” (Edizioni  LetteraVentidue, 2012) – L’Architettura deve offrire all’uomo quel “qualcosa in più”, misterioso però concreto, che è la Bellezza. La Bellezza intelligente che è la conseguenza di opere che sono idee costruite. Qualcosa di più, molto di più, che la mera costruzione. – 

Ecco l’edificio commerciale ed amministrativo di Melano (Svizzera), opera di Nicola Baserga e Christian Mozzetti, ha tutte queste caratteristiche. E’ inoltre un’operazione interessante di collaborazione e sinergia tra pubblico e privato.  Costato 6,1 milioni di Franchi, il nuovo centro amministrativo (900 metri quadrati in pianta) che il Comune di Melano ha costruito lungo la strada cantonale, ha la particolarità che conterrà al pianterreno un centro commerciale della Migros. L’affitto servirà così a finanziare l’opera dove al piano superiore si insedieranno i nuovi uffici comunali, in una struttura complessivamente comunque flessibile. L’edificio è eco-sostenibile e sul tetto ha un impianto fotovoltaico. Meravigliosa l’enorme porta in rovere, dell’ingresso della parte amministrativa.

Qui sotto il link con le foto dell’edificio

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Il Sindaco di Melano che indica il terreno vuoto in cui è stato costruito l’edificio

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Englih version (Abstract)

What is a “good architecture” is a building that, in addition to responding to the functional program, succeeds through the composition of the facades, the materials, the ground plan, to express “beauty”.

As written by Alberto Campo Baeza, in his book: “The idea built” (LetteraVentidue Editions, 2012) – The Architecture must offer man that “something more”, mysterious but real, that is Beauty. The Intelligent Beauty which is the result of works that are built ideas. Something more, much more, than the mere construction. –

Here is the commercial building and administrative Melano (Switzerland) by Nicola Baserga and Christian Mozzetti, has all these features. It ‘also interesting task of collaboration and synergy between public and private. Cost 6.1 million francs, the new administrative center (900 square meters in plan) that the City of Melano built along the main road, has the peculiarity that will contain the ground floor of a shopping center Migros. The rent will serve well to finance the work where the upper floor will settle the new municipal offices, in a total still flexible. 

Sulle tracce


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Essere sulle tracce di un “paesaggio” fisico, che è anche interiore, significa trovare nei luoghi una serie di appigli fisici e mentali, che siano in grado di restituirci questa dimensione paesaggistica familiare. E’ una ricerca paziente, lenta, che porta via tantissimo tempo, probabilmente tutta una vita.

Vivere da architetto, da pittore o da scultore è come vivere da infermiere, da operatore ecologico. Per la totalità degli esseri viventi, la vita è un enorme spreco di tempo. Dalla stragrande maggioranza delle proprie ore (spostarsi, pulirsi, attendere, dormire, ecc.) non si ricava assolutamente nulla. Il tempo trascorre e basta, verso la nostra ineluttabile morte, che è la norma per tutte le cose e le creature viventi contenute in questa parte di universo.

Viviamo quasi tutti in un grande agglomerato metropolitano planetario, collegato anche solo virtualmente in rete, che cambia il nome dei luoghi da noi frequentati, esclusivamente per darci la sensazione di essere identificati e localizzati. In Italia, c’è l’abitudine di spostarsi senza interruzione tra tre o quattro città, per lavorare, per risiedere, per divertirsi, per fare acquisti. Ci si muove freneticamente tra questi luoghi, come si fa tra le stanze di una casa. Velocemente ognuno di noi impara a non abitare spiritualmente in nessun luogo, per poter credere che si abita dappertutto.

In questa estate 2014, piovosa ed insolitamente fresca, trascorsa tra Lavin, Zernez e Zuoz, in Engadina, inseguendo le “tracce” dell’esistenza di Alberto Giacometti e di Giovanni Segantini, ho avuto la netta sensazione di aver trovato il mio paesaggio fisico ed interiore.

Il segreto, probabilmente la luce, la montagna, la buona architettura, l’ottimo cibo e soprattutto le persone, che hanno fatto di questa parte della valle, un luogo dove l’arte e la cultura hanno ancora un posto molto importante all’interno della società. Lo vedi trascritto nella natura saggiamente antropizzata, riverberarsi fino all’architettura, al paesaggio, ed alle cose più insignificanti prodotte dall’uomo in questi luoghi.

Quì una mappa dei luoghi

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Barli Biber


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Prodotti nell’Appenzell (o Appenzello interno) fin dal XVI secolo, i Barli – Biber, devono la loro fama alla miscela speciale di spezie, miele, mandorle (gelosamente custodita e segretissima) ed al sofisticato processo produttivo dell’ impasto.

Di cosa sanno, difficile a dirsi, però vagamente hanno il gusto degli amaretti morbidi,  di certo il loro uso costante genera dipendenza. Si tratta di un prodotto dolciario che sviluppa molte calorie. La morbidezza estrema del Barli – Biber, ne fa una volta ingerito, masticato e trasformato in bolo, una miscela soffice che, raggiunto lo stomaco (soprattutto se successivamente si beve acqua o altro liquido commestibile), è in grado di triplicare il suo volume. Quindi  facilmente toglie la fame e dona un notevole senso di sazietà.

Viene ora da chiedersi perchè, in un blog che si occupa di architettura, stiamo parlando di un dolce tipico svizzero.  Perchè si tratta di un prodotto di “paesaggio”, intimamente legato ad un luogo, l’Appenzello, tra le regioni più amene, bucoliche e fiabesche (soprattutto d’inverno) della Svizzera. In nessun altro luogo della Svizzera il paesaggio collinare del Mittelland si alterna in maniera così stupefacente con l’ambiente montano dominato dalle falesie dell’Alpstein.

Qui nell’ Alpstein le formazioni rocciose spuntano come dal nulla, sviluppandosi fino ad oltre 2500 metri di altezzaMa l’Appenzello significa anche Democrazia Diretta, mediante le così dette assemblee rurali all’aperto. 

Ogni anno, l’ultima domenica di aprile, nell’Appenzell, gli elettori, aventi diritto, si riuniscono all’aperto, nella piazza principale della capitale del cantone rurale,  per decidere la politica cantonale. Questa originale, ed antica forma di democrazia diretta è denominata Landsgemeinde, ha un unico esempio similare nel  Canton Glarona.

La Landsgemeinde è un’assemblea solenne, in cui i cittadini (in passato solo maschi) con diritto di voto eleggono le autorità e deliberano su questioni particolari. Sviluppatesi dal tardo Medio Evo, le Landsgemeinden si tenevano anche in altri cantoni: Uri (dal 1231), Svitto (dal 1294), Untervaldo (dal 1309), Zugo (dal 1376), Appenzello (dal 1378), Glarona (dal 1387) e anche in diversi altri territori e valli dipendenti dai cantoni, incluse Bellinzona e Einsiedeln.

La Landsgemeinde adotta e può rivedere la Costituzione dello Stato e le leggi , può anche rivedere le principali decisioni e soprattutto le iniziative finanziarie. Inoltre i cittadini possono fare proposte, che devono essere consegnate per iscritto entro il 1 ° ottobre dell’anno precedente alla comunità rurale. Le proposte per le elezioni devono essere per acclamazione .

Nasce così un’insolita analogia, tra il dolce tipico dell’ Appenzello (Barli – Biber), il paesaggio bellissimo (Il paesaggio collinare prealpino e il maestoso Alpstein sono semplicemente meravigliosi quando sono ammantati di neve o in primavera con le fioriture), e la Democrazia Diretta (forma di democrazia nella quale i cittadini, in quanto popolo sovrano, sono direttamente legislatori e amministratori del bene pubblico). Mangiare un Barli – Biber è un po come implementare il paesaggio, la storia e la cultura svizzera, compresa l’essenza stessa della sua struttura politica fondata sulla Democrazia Diretta.

Barli – Biber, di cui gli architetti, di solito ne vanno ghiottissimi, perchè fonte di ispirazione e di idee. Conosco un collega di origini trentine, residente a Varese, che esercita la sua attività principale a Chiasso, costui vivrebbe esclusivamente assimilando dei Barli – Biber .

Qui la ricetta tradizionale 

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Great Lake


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OLYMPUS DIGITAL CAMERAIsole di Brissago (Svizzera)

Mio padre lavorava per una ditta svizzera che produceva (e produce) collanti industriali e pitture. Dapprima come semplice rappresentate, poi scalando lentamente la gerarchia societaria, come dirigente. I proprietari, originari di Zurigo, ma residenti inizialmente a Lugano e poi a Milano, organizzavano tutte le estati, una gita societaria in torpedone nella confederazione elvetica. Negli anni Settanta (del Novecento) erano soliti frequentare le terre di confine, tra l’Italia e la Svizzera, a ridosso dei laghi ticinesi. Soprattutto del Lago Maggiore, dove la “bellezza” era come distillata in paesaggi ameni e fatati, sosteneva uno di questi proprietari.

Ricordo chiaramente un mio compleanno, quello dei 10 anni, passato con un meltin-pot di ragazzini coetanei svizzeri ed italiani, su un’enorme terrazza di Cannobio (Lago Maggiore), con vista a lago, a giocare a pallone.

Poi da adulto, durante gli studi universitari, mi è capitato molte altre volte di frequentare soprattutto le cittadine svizzere che si affacciano sul Lago Maggiore : Brissago, Ronco, Magadino, San Nazaro, ecc., mete preferite di lunghe gite durante i fine settimana.

Dopo l’università ho fatto un master in “Architettura del Paesaggio”, con un notissimo paesaggista milanese (Franco Giorgetta), che ha avuto quale epicentro proprio le isole Borromee del Lago Maggiore.

Dal 1995 ho iniziato una lunga esperienza universitaria, alla facoltà di architettura del Politecnico di Milano, prima come assistente e poi come docente a contratto, terminata nel 2005. Il mio docente di riferimento, un signorotto di belle speranze, proveniente da una ricca famiglia varesotta poi decaduta in maniera traumatica, era solito organizzare dei “laboratori itineranti” in provincia di Varese. Ricordo molto bene un anno passato a Sesto Calende (un luogo meraviglioso) a disquisire con Marco Zanuso, Fabio Reinhart, ed altri soloni dell’architettura, di massimi sistemi architettonici tra lago, fiume e paesaggio.

Mi è capitato, sempre casualmente, come succede spesso, di trovarmi sul lago, in quella che fu la  casa di Aldo Rossi, a Ghiffa (ora in vendita per 450 mila euro), in compagnia di suoi parenti che me ne hanno raccontato i legami con il lago.

Sono stato più volte sull’Altopiano di Agra a visitare la bellissima casa progettata da Carlo Mollino, quando era in rovina e quando è stata risistemata. Come anche al Museo di Maccagno “Parisi-Valle” di Maurizio Sacripanti.

Anche la parte Svizzera del Lago Maggiore, è per me sempre stata una specie di “riserva di architettura contemporanea”, una “biblioteca architettonica a cielo aperto”, ad iniziare da Locarno. Dove più volte ho assistito a mirabili conferenze di quel “geniaccio” dell’architettura che era Livio Vacchini. Per poi passare ad Ascona ed al Monte Cardada.

Era quindi da parecchio tempo che coltivavo, l’esigenza di dare una visione organica a queste frequentazioni lacustri del Lago Maggiore. Quando un “sacranone padovano”, mentre ci trovavamo ambedue in terra svizzera,  inventandosi una serie di “balle pazzesche” (a suo esclusivo uso e consumo)  mi ha stimolato in tal senso, non me lo sono fatto ripetere due volte. In qualunque caso ci avrei guadagnato qualcosa ad ordinare i miei ricordi ed a sottoporvi questo elenco di bellissimi incontri architettonici e paesaggistici selezionati.

Cosa è la vita se non si condividono le esperienze. Ecco quindi, una mappa con individuati i luoghi “eccellenti” (secondo me), del Lago Maggiore,  a cavallo del confine italo-svizzero.

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Isola Bella

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Jorge


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Il Ristorante svizzero “Vignetta”, collocato in un edificio, proprio al centro del Campus dell’Accademia di Mendrisio, costituisce, non solo dal punto di vista geografico, ma anche visivo, un riferimento per studenti e professori.

Il gestore, un signore anziano di origine portoghese (Jorge), ne ha fatto, nel bene e nel male, un luogo quasi “astratto e surreale”, un po fetido,  in cui, entrando, si viene avvolti dal profumo fetido del tempo, che ha il sapore “mischiato” del tabacco, del sudore delle persone e degli aromi della cucina, di cui i muri sono irrimediabilmente impregnati. La televisione, sempre accesa sul campionato di calcio portoghese e sullo sport, gli arredi vetusti, la bellissima pergola con bocciofila e ping-pong del giardino retrostante, completano la disamina estetica del luogo, come magicamente sospeso in un universo parallelo a-temporale.

Alla fine del mese di Marzo 2014, le porte del Vignetta si chiuderanno per sempre portando con sé i ricordi e le tante occasioni mancate. Probabilmente con un minimo di sforzo tale attività sarebbe certamente divenuta remunerativa e vantaggiosa, Di certo i muri di questa istituzione, come già detto, sono impregnati, non solo in senso metaforico, delle numerose visite, delle lunghe soste degli astanti, soprattutto studenti e docenti.

Il mito del “Ristorante Vignetta” lo si deve soprattutto al “Santone di Coira” Peter Zumthor, che era solito, quando insegnava all’Accademia, insistere in questi luoghi, per alimentarsi e discutere con i suoi assistenti e studenti. Alcune delle sue pubblicazioni inerenti l’attività didattica, terminano proprio con una foto del “Ristorante Vignetta”.

Questo luogo rappresenta, per l’Accademia di Mendrisio, un momento fatto di fantastici incontri ed attimi di gioia pervasi dall’odore “inteso” di queste murature, a volte insostenibile. Odore difficilmente rimovibile dai vestiti, e che continuerà ad aleggiare nei ricordi olfattivi di molti estimatori. La sua demolizione, sarà comunque un atto sanitario importante.

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