Succede sulla meravigliosa e verde Isola di Sant’Erasmo, Laguna di Venezia (Comune di Venezia); 8 milioni di euro per il restauro di un immobile storico, stanno lì a “marcire”. Il Comune fa finta che l’immobile (La Torre Massimiliana, restaurata nel 2014) funzioni, gli eventuali avventori ed i bagnanti della vicina “Spiaggia dei Tedeschi”, scoprono che è completamente abbandonato da anni (dal 2015) e che non ha mai avuto una gestione manageriale degna di queste parole (spazio espositivo, bar/ristorante, ecc.), nonostante i soldi dei Cittadini veneziani e degli italiani spesi. Un’altra (l’ennesima) occasione persa il turismo lagunare minore. A beautiful country, la terra dei cachi !
D.S.
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Quale è il limite di “modellazione” della massa biologica planetaria da parte dell’uomo ?
Molte piante ed animali, ma anche parassiti, devono necessariamente adattarsi, alle esigenze della specie umana per sopravvivere sul Pianeta Terra.
Le colture modificate dall’uomo, per consentire una produzione sempre maggiore per ettaro di alimenti vegetali, hanno lentamente cancellato le foreste e le praterie (con la loro biodiversità). I topi ed i piccioni, ma anche i gabbiani, le tartarughe dalle orecchie rosse, ecc., nelle città, sopravvivono grazie agli scarti della civiltà umana, da cui ormai dipendono.
Alcuni organismi non esistono più in natura, sopravvivendo solo perché sono entrati nel ciclo culturale e/o alimentare umano. Da una parte l’uomo li ha “estinti” modificandoli geneticamente o distruggendo il loro ambiente di vita. Dall’altro è la stessa specie umana che li tiene in vita riproducendoli per finalità molto differenziate.
Un esempio sotto gli occhi di tutti, sono i bovini, avvistati “allo stato selvatico” l’ultima volta nelle foreste della Polonia nel 1627. Oggigiorno i bovini “modificati” e completamente diversi dal loro progenitore selvatico, sono i mammiferi animali più diffusi al mondo (oltre un miliardo e mezzo).
Un altro esempio, è il Ginkgo Biloba, non più esistente in natura, perché incapace di riprodursi se non coltivato; probabilmente a causa dell’estinzione (per colpa di noi umani) del volatile che ne mangiava i semi, eliminando il rivestimento maleodorante che ne inibisce la fertilità, e li diffondeva sui terreni con le proprie feci.
Le bellissime installazioni di Michael Wang (Extinct in the wild) e di Pamela Rosenkranz (Slight Agitation 2/4, Infection), presenti nello Spazio della Fondazione Prada a Milano ci fanno riflettere su diversi ed importanti temi; su cosa voglia dire naturale ed artificiale; su cosa siamo noi esseri umani che continuamente modifichiamo il pianeta su cui viviamo; su quale deve essere (se c’è) il limite al nostro agire sulla massa biologica planetaria; su quale futuro perseguire………………
Michael Wang ( Olney, Maryland, USA, 1981) – (Extinct in the wild) – Tre piccole serre in un’enorme capannone grigio. Delle fotografie su una delle pareti più corte. All’interno di due serre che contengono delle piante quasi ormai estinte in natura, che l’artista ha riprodotto in un estremo gesto di conservazione e catalogazione. Nella terza serra due acquari che contengono dei Tritoni bianchi. L’artista riunisce flora e la fauna che non si trovano in natura, ma persistono esclusivamente sotto la cura umana, all’interno di un habitat artificiale complesso. Etichettato con il termine ufficialmente designato “estinta in natura”, queste specie hanno lasciato la natura per entrare nei circuiti della cultura umana. In questo progetto, gli esseri naturali come piante e animali sono “traslate a forza” in uno spazio culturale, in una mostra, in un ambiente che sottoposto alle continue cure umane riesce a garantire la loro sopravvivenza. Una riflessione quindi non solo estetica ma anche sulle tecniche di modificazione biologica, e sulle strategie di sopravvivenza.
Pamela Rosenkranz (Uri, Svizzera, 1979) – (Slight Agitation 2/4, Infection) – esplora come i processi fisici e biologici influenzano l’arte. La sua installazione si basa su un parassita neuro-attivo (Toxoplasmosi)che ha come obbiettivo il gatto, ma che i bambini acquisiscono giocando con la sabbia o la terra, e di cui circa il 30% della popolazione mondiale è affetto in maniera quasi asintomatica. Un enorme, montagna conica, geometrica e sublime realizzata con della sabbia è formata all’interno degli spazi alti della Cisterna. La sua dimensione sembra esercitare pressioni contro l’architettura storica. La sabbia è impregnata di profumo di feromoni sintetici di gatto che attiva una specifica, attrazione o repulsione, negli esseri umani, biologicamente determinata, e inconsciamente influenzano il movimento del pubblico. Una luce verde a RGB illumina il picco di questa natura chimicamente modificata, facendo evaporare delicatamente il profumo. Pare che i portatori del parassita neuro-attivo, secondo studi scientifici, abbiano un comportamento alterato : statisticamente sono coinvolti più spesso in incidenti; hanno tendenza all’acquisto di abiti di lusso; ecc.. E’ per questo che la traccia olfattiva dei ferormoni del gatto, viene inserita in molti profumi, come ad esempio in Chanel “N.5”.
Ci fermeremo mai ? Sapremo almeno rallentare ? Sapremo, prima o poi avere senno in quello che facciamo ?
Dario Sironi
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Il “floating piers” poggia su 220 mila cubi a pioli galleggianti in polietilene ad alta densità, riempiti di aria. Per ancorarli sul fondo dei sub francesi hanno posato delle ancore in calcestruzzo (di fabbricazione bulgara ed italiana) e metallo appositamente studiate. Una volta assemblati tra loro i galleggianti nell’apposita area di Moltecolino (300 mila metri quadrati), le parti del “pier” vengono trascinate con imbarcazioni sul luogo dove vengono fissati al fondale mediante appositi cavi ed uniti tra loro.
Il tutto progettato ed intensamente voluto, dall’artista Bulgaro/Americano Christo Vladimirov Yavachev. L’opera alla fine dei sedici giorni di esposizione, verrà completamente rimossa e sarà industrialmente riciclata. I 10 milioni di euro dei costi, anticipati dall’artista e dagli sponsor, saranno recuperati dalla vendita dei gadgets e delle opere create dall’artista (quadri, serigrafie, ecc.), come già avvenuto per altri suoi lavori..
Christo ha scelto il Lago d’Iseo dopo un lungo sopralluogo sui laghi del nord Italia, insieme a Germano Celant, rimanendo colpito dall’Isola di San Paolo e da quella di Monte Isola, nonchè dal piccolo borgo di Sulzano.
Una operazione artistica, di valenza mondiale, voluta anche dalla comunità locale, per il rilancio internazionale del turismo sul Lago d’Iseo. Costo di tutta l’operazione “pagato” dall’Ente di promozione turistica del Lago d’Iseo e della Regione Lombardia, in collaborazione con sponsor/partner privati (Ubi Banca, Iseo Serrature, Franciacorta Outlet Village).
Per 15 giorni il Lago d’Iseo sarà “l’ombelico del Mondo”, un luogo di confluenza per paesaggio, turismo, arte, che saranno per una volta, finalizzati ad una grande operazione di “immagine” a livello mondiale.
Percorrere il “Floating Piers” sarà completamente gratuito. Il comune di Sulzano e quello di Monte Isola hanno predisposto piccoli padiglioni per accogliere i turisti e fornire cibo ed accoglienza.
Quello che interessa è il tentativo di sganciarsi dai soliti canoni di marketing turistico, per intraprendere una strada innovativa, probabilmente l’unica in grado di fare diventare il turismo italiano, un vero e proprio “motore economico primario” del Paese.
Comunque un’opera “maestosa” che nella sua artificialità voluta e palese, sia nel disegno che nei materiali, ci fa immediatamente capire tutta la violenza (e la bellezza) della specie umana, che da sempre modifica all’abbisogna, il paesaggio di questo magnifico pianeta.
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Genova vista dalla "promenade paesaggistica" che conduce al Museo Chiossone
A Genova esiste una “piccola chicca architettonica”, un edificio razionalista colto ed intelligente, collocato quasi in sommità di uno dei più interessanti belvedere cittadini.
Si tratta del Museo di Arti Orientali Chiossone. Edoardo Chiossone fu grafico ed incisore di Arenzano, stabilitosi in Giappone, divenne conoscitore dell’arte locale nonché grande collezionista.
L’area dove oggi si colloca il Museo fu individuata nel luogo dell’antica villa neoclassica del marchese Gian Carlo Di Negro (1769-1857), bombardata e quindi demolita durante la II Guerra Mondiale. Il parco era stato creato ai primi del secolo XIX dallo stesso marchese Di Negro, che riconvertì un antico bastione delle cinquecentesche mura di Santa Caterina a fini residenziali, stabilendovi la propria abitazione. Il parco è stato oltre che orto botanico, anche piccolo zoo; oggi è uno splendido bellevue pubblico su parte del centro storico di Genova.
La progettazione, dell’attuale sede museale fu affidata dal Comune di Genova che ereditò la collezione Chiossone, all’architetto Mario Labò (1884-1961).
La fase costruttiva iniziò nel 1953 e fu compiuta nel 1970, nove anni dopo la morte di Labò. La collocazione del Museo all’interno del parco della Villetta Di Negro è davvero privilegiata. Immerso nel verde giardino che domina l’ottocentesca Piazza Corvetto, il Museo Chiossone si trova nel pieno centro di Genova e, tuttavia, occupa una posizione appartata e magnificamente panoramica. Un’isola felice nel caos del centro di Genova. Dal camminamento terrazzato che fiancheggia il Museo sul lato sud-ovest, si gode una splendida “landscape promenade” la veduta della città antica, con la distesa dei tetti d’ardesia, i campanili e le torri medievali stagliati sullo sfondo azzurro del Mare Ligure.
L’edificio museale è un esempio colto e raffinato, d’architettura razionalista in cemento armato con rivestimento esterno in cotto maiolicato, formato da un avancorpo con tetto a terrazza, sede della biglietteria e del bookshop, e da un corpo principale costituente il museo. Si tratta di un magnifico spazio a volume unico con un salone rettangolare al piano terreno e sei gallerie a sbalzo sulle due pareti lunghe, collegate da rampe di scale formanti un percorso continuo. E’ come se il museo (nel suo percorso museale, seguisse l’andamento dell’altura su cui è collocato). Semplici ed al contempo “opulenti” i dettagli, governati da una scelta intelligente dei materiali e da forme essenziali
L’allestimento espositivo fu affidato nel 1967 all’ingegnere Luciano Grossi Bianchi, che lo progettò e lo realizzò in collaborazione con Giuliano Frabetti, Direttore del Museo Chiossone dal 1956 al 1990, e Caterina Marcenaro (Genova, 1906-1976), Direttore del Settore Belle Arti del Comune di Genova.
Mentre il “Gran camminatore” di Alberto Giacometti, osserva, nel suo dinamismo immobile, il lago di Lugano, dall’alto (ed all’interno) del LAC, il bel centro culturale progettato da Ivano Gianola, decine di piccoli motori elettrici, rendono tangibile il trascorrere del tempo, nella loro individuale asincronia poco architettonica. Installazione “site specific”, di una precisione geometrica rigorosissima, realizzata dall’artista svizzero Zimoun.
Sempre all’interno del LAC, ma sottoterra, lo spazio architettonico sembra assumere una dimensione insolita ed improbabile, forme intangibili di luce (nel buio) volute da Antony Mc Call, materializzate da improbabili nebulizzazioni “impalpabili”.
Tra questi due opposti tangibili/intangibili, contenuti in una “rigorosa” architettura, una esposizione tradizionale sui riferimenti culturali dell’orizzonte artistico del Ticino (tra metà Ottocento e metà Novecento).
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Dopo lunghe, e gratuite, peregrinazione in Expo 2015, se si dovesse scegliere il padiglione “più bello”, certamente bisognerebbe cercare di “surfare” tra una cacofonia di immagini architettoniche ridondanti, per non dire pacchiane, banali e soprattutto già viste.
Tra questa “folle ridda di architetture” emerge per la sua rigorosa semplicità e per il percorso museale scarno e semplice, il Padiglione delBahrain.
Il padiglione, progettato dall’architetto olandese Anne Holtrop e dalla paesaggista svizzero/olandese Anouk Vogel, è concepito come un continuum paesaggistico di meravigliosi ed intimi frutteti (10 giardini dell’Eden) che si intersecano in una serie di spazi espositivi chiusi. Il Padiglione è tutto costruito in pannelli prefabbricati in calcestruzzo bianco. Il Padiglione verrà trasferito in Bahrain alla fine di Expo Milano 2015 e sarà ricostruito, trasformandosi in un giardino botanico aperto al pubblico. I componenti prefabbricati, volutamente visibili, sono come attraversati da ancestrali “disegni”, da “cuciture”, da “piccoli canali”, che idealmente li collegano l’uno all’altro.
Il “centro” del Padiglione, rende omaggio ad un ricco patrimonio storico ed archeologico e presenta, pochi ma selezionati manufatti storici, risalenti a migliaia di anni fa, ognuno dei quali legato alle tradizioni agrarie e alle leggende che circondano il Bahrain, desertico ma ricco d’acque sotterranee, ed in particolare l’antica Cultura di Dilmun.
Qui non troverete grandi folle e lunghe code, ma soltanto la semplicità della “grande architettura”, ed un percorso museale con un racconto chiaro e semplice. La sera, tenui luci aggiungono fascino e mistero alle forme architettoniche che si confrontano con la natura. Niente a che vedere con le “strombazzature luminose” degli altri padiglioni.
Tra tante architetture “scrause”, degne di essere cancellate per sempre dopo appena sei mesi (la durata di expo 2015), questo piccolo padiglione (circa 2.000 metri quadrati), si offre come un’isola felice in cui ritrovare il vero senso dell’architettura, in grado di resistere al tempo.
Qui sotto il link ad alcune immagini del Padiglione del Bahrein
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Si presenta come una piscina azzurra circolare (inscritta su un basamento di forma sempre circolare che funge da perimetro/seduta), piena d’acqua per circa 30 centimetri, sulla cui superficie galleggiano numerose zuppiere bianche di porcellana, che dolcemente cozzano tra loro, emettendo un delizioso tintinnio, grazie al lento movimento del liquido.
Così facendo si ricrea nell’enorme atrio dell’edificio progettato da Shigeru-Bahn (http://www.shigerubanarchitects.com/works.html) un paesaggio visuale e sonoro molto coinvolgente ed accogliente.
La semplicità apparente dell’installazione è inversamente proporzionale al fascino che essa esercita sugli spettatori. In realtà si tratta di una macchina sonora complessa che l’autore può configurare in diverse maniere aumentando o diminuendo le “zuppiere” in movimento, riempiendole più o meno di liquido, o modificando i vortici che agitano l’acqua.
La temperatura dell’acqua, mantenuta attorno ai 30 gradi centigradi, favorisce l’emissione sonora e la risonanza. La persistenza del suono, fa si che gli spettatori si astraggano dal tema dell’installazione, per concentrarsi esclusivamente sull’emissione sonora.
Il tempo sembra come rallentare, per un attimo; per ogni spettatore, perdere un po di tempo a godere del concertino, pare essere una cosa buona e giusta.
Oltre ad essere un compositore, Céleste Boursier-Mougenot è noto soprattutto per le sue opere ambientali, vere e proprie installazioni sonore, come nel caso di Rêvolutions, l’opera con cui, nel 2015, rappresenta la Francia alla cinquantaseiesima esposizione internazionale d’arte contemporanea della Biennale di Venezia.
Quì sotto il link ad alcune immagini dei luoghi
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Ho conosciuto, ed apprezzato Franco Maria Ricci molti anni fa quando a Milano si occupava della rivista FMR (acquisita nel 1994 dal Gruppo Art’è). Oggi che è diventato anche un “progettista di architettura e paesaggi”, mi è sembrato giusto andare a vedere ciò che aveva combinato a Fontanellato (Parma), dove da anni , nella sua tenuta di campagna, insieme agli architetti Pier Carlo Bontempi e Davide Dutto, si era ritirato a realizzare un “Parco culturale”.
Fontanellato, per me è sempre stata, fin da piccolo quando mi ci portavano i miei genitori passando per andare a trovare i parenti (mia nonna paterna Italina era di Fornovo Val di Taro), la Rocca Sanvitale, con la sua “camera ottica”, gli affreschi del Parmigianino e gli angiolotti cicciottelli. Ma soprattutto l’immancabile “Torta fritta” (o gnocco fritto, che dir si voglia) con il Culatello di Zibello ed il burro.
Il Labirinto della Masone è a sud di Fontanellato a circa 5 chilometri; perso nella bellissima campagna parmigiana, dove l’agricoltura ancora, segna con prepotenza il paesaggio.
La campagna circostante vista dalla Torre di Osservazione del Labirinto della Masone
Quì il Ricci ha voluto creare un epicentro culturale, la sua Fondazione, ma soprattutto una di quelle “funzioni ibride” e complesse, che stanno alla base dello stimolare l’interesse per i luoghi, da parte degli esseri umani. All’ingresso del Labirinto c’è un bar/ristorante e un bookshop dove, oltre a libri e gadget, forse in futuro si potranno acquistare Culatello e Parmigiano Reggiano, di certo per ora le informazioni sul bambù (tipologie, caratteristiche, ecc.) dei numerosi giovani guardiani del Labirinto sono scarse. Al piano superiore si sviluppa la galleria-museo dove Ricci ha sistemato la sua collezione di 450 opere tra sculture e quadri, la maggior parte risalenti al Settecento e al primo Impero, busti e ritratti soprattutto. E quasi tutti i volumi di Giambattista Bodoni che Ricci ristampò in un formato raffinatissimo nel 1963. C’è anche spazio per mostre temporanee, oggi dedicate ad Antonio Ligabue e Pietro Ghizzardi, con il titolo “Arte e Follia”.
E poi, soprattutto, c’è il Labirinto di Bambù, uno spettacolo in cui perdersi, con oltre 20 tipologie diverse di piante, con al centro una grande piazza porticata con : suite, sale per eventi, una cappella piramidale.
Il tutto in mattoni “faccia a vista”, rigorosamente fatti a mano. Il “Parco Culturale” ha aperto il 29 di maggio 2015.
Quì sotto il link ad alcune immagini del sopralluogo effettuato
Che dire, nel nulla, un privato fa un investimento considerevole, probabilmente discutibile dal punto di vista dell’architettura (sembra troppo legata ad una rivisitazione storica che ricorda tanto il Post-Modern – http://it.wikipedia.org/wiki/Architettura_postmoderna), non certamente per la “funzione ibrida” e complessa che si è voluta insediare. Ormai le funzioni tradizionali “canoniche” : residenza, alberghi, terziario, ristoranti, commercio, ecc., sono morte, bisogna guardare ad altro e Ricci (che ha un grande fiuto imprenditoriale) è certamente sulla strada giusta. In un sabato anonimo di un giugno tra i più caldi e torridi a memoria umana (36 gradi in loco, 55% di umidità), la presenza di visitatori era consistente, nonostante il costo del biglietto abbastanza alto (18 euro a persona). Probabilmente nelle “funzioni ibride” e complesse sta anche il rilancio dell’edilizia e del turismo italiano, attraverso la valorizzazione del paesaggio e dell’architettura esistente e nuova. Basta avere le idee giuste.
Architettura, arte dei giardini, attività museali, bibliofilia, cultura, editoria, enogastronomia, ecc. quì a Masone si fondono a rappresentare (ed elevare) un paesaggio eccellente quale è quello parmigiano. La scommessa sarà vinta se, una volta passata la novità, tale luogo saprà continuamente rinnovarsi e generare attrattività ed interesse.
La pittura fu uno dei mezzi adottati in passato per rendere policroma l’architettura (anche all’esterno), per abbellirla ed impreziosirla, insieme a materiali da costruzione colorati, incrostazioni, mosaici, ecc.. Bastino come esempio le case di epoca romana rinvenute a Pompei con gli apparati murali dipinti (III sec. A.C.), oppure gli edifici residenziali del centro storico di Lucerna (della metà del 1500 D.C.) con le facciate dipinte. Oggi sembra un aspetto quasi dimenticato, poco utilizzato, soprattutto quì in Europa. Quello che ancora sopravvive oggi, dell’arte pittorica muraria, è relegato al campo dell’illegalità vandalica, del Graffitismo.
Il Graffitismo è un’arte di confine, che utilizza l’architettura (muri ciechi, edifici dismessi, ecc.) quale supporto su cui collocare un’altra idea di città. Una città colorata, aggressiva, un urlo di protesta. Qualche volta, il Graffitismo contemporaneo è stato veicolato nel campo dell’arte, ma mai pensato come parte integrante del progetto di architettura.
Invece, come ci hanno insegnato Le Corbusier, ma anche Oscar Niemeyer, si può fare della decorazione, pittorica, musiva, o ceramica, degli edifici, uno degli elementi “forti” dell’ architettura. Un segno di distinzione, quasi una firma. Forse bisogna ritornare a “lavorare” (ed a rischiare) sulla superficie esterna degli edifici, non semplicemente con delle operazioni di grafica pura, delle “pelli”, ma con delle vere e proprie azioni disciplinari integrate.
Le Corbusier (nudo) mentre dipinge un murales nella casa E-1027 di Eileen Grey a Roquebrune-Cap-Martin (Francia)