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Builders of the future

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Filosofia

Milano City (Testa o Croce).


 

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La "Nube Purpurea che uccide" su Milano fotografata dalla Torre Garibaldi

Se con il lancio di una monetina, Milano ha perso l’assegnazione dell’Agenzia Europea del Farmaco (EMA), a favore della più rutilante, ecologica e culturalmente più dotata Amsterdam, questo fatto non deve essere vissuto negativamente, in quanto può essere una grande occasione.

Infatti, l’arrivo dell’Agenzia Europea del Farmaco (che ora ha sede a Londra), con i suoi oltre 800 impiegati, i congressi ed il relativo turismo conseguente, avrebbero ulteriormente indotto la metropoli milanese ad una crescita urbanistica “gonfiata” che già consta di decine di migliaia di vani sfitti e/o inutilizzati; soprattutto di terziario e di residenziale.

Non dimentichiamoci che Milano, una delle zone al mondo con il più alto consumo di suolo, insiste in una delle regioni della Pianura Padana in cui gli abitanti dell’area metropolitana sono esposti quotidianamente (tra ottobre e marzo) a livelli di inquinamento atmosferico da biossido di azoto e da micropolveri sottili (PM 10 e PM 2,5) di gran lunga superiore ai limiti di legge. Da Paderno Dugnano a Lacchiarella, da Corbetta a Truccazzano.

È evidente la necessità di un urgente e decisivo piano d’intervento che vada finalmente ad incidere sulle politiche relative alle fonti di inquinamento. E’ ormai un problema di salute pubblica, che ricorre praticamente ad ogni inverno, per più settimane.

A ciò non esula l’urbanistica. Anziché di continuare a progettare dei Piani di Governo del Territorio (PGT)  di espansione della superficie lorda di pavimento (con conseguente inevitabile consumo di suolo), bisognerebbe decostruire, riducendo il numero degli abitanti insediati. Concentrando tutte le disponibilità economiche sulla realizzazione di spazi verdi (filtranti) e di mezzi di trasporti pubblico efficienti, capillari ed economici.

Una occasione è stata di recente offerta dall’Accordo di Programma (A.d.P) tra Ferrovie dello Stato e Comune di Milano, inerente la riqualificazione degli scali ferroviari dismessi (oltre 1,2 milioni di metri quadrati oggi abbandonati e degradati sparsi nel territorio comunale) delle aree : Farini, Porta Genova, Porta Romana, Lambrate, Greco, Rogoredo e San Cristoforo, ecc.. Una occasione colta solo parzialmente d’invertire un futuro di “cemento”.

Infatti i progetti, presentati la scorsa primavera in occasione del Salone del Mobile, sono maestosi, ricchi di verde, di piante e di grandi prati, ma anche di tanto edificato “dipinto di verde” : troppo edificato e tanti palazzoni inutili, probabilmente invendibili a medio e lungo termine.

Non si tratta di realizzare, degli scenari per le “fauci feroci” degli immobiliaristi, o per le “matite verdeggianti” degli architetti, troppo spesso “servi” di costoro, ma invece bisogna consentire ai cittadini di tornare a respirare, invertendo una tendenza che non consente più deroghe, già da molti anni. Alle auto ecologiche ed elettriche, al costruito sostenibile con contenimento spinto dei consumi energetici, deve anche seguire un’architettura che sappia contenersi nella quantità (volume) per dare più spazio alla qualità, ai contenuti.

Non è più accettabile pensare alla Città di Milano ed alla sua area metropolitana in termini di edificato, ogni brandello di terreno da riqualificare deve diventare esclusivamente un’area verde. Un verde da intendersi «come infrastruttura ecologica ed economica», che sia fruita insediandovi attività diverse che possono essere orti urbani, istallazioni temporanee, spazi per i concerti e attività sportive. Per il costruito ci sarà solo l’impronta degli edifici già edificati, il sopralzo (contenuto) di quelli esistenti. Un lascito per le generazioni future.

Dario Sironi

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Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

 

 

Lati-nismi


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Quest’uomo, quest’architetto, lo stiamo “seguendo” da un po. Ormai da parecchi anni. Da quando, partecipando al concorso di progettazione per la stazione marittima del Porto Grande di Siracusa (dove arrivammo a metà classifica), risultò vincitore il team italo-spagnolo guidato dall’Ing. Enrico Reale e composto dagli architetti Vincenzo Latina, Jordi Garcés, Emanuela Reale, Daria de Seta, Anna Bonet, Raimondo Impollonia, Angela Tortorella e Jose Zaldìvar. Era l’ormai lontano 2009.

In quell’occasione, ci colpì molto una personalità locale, l’architetto Vincenzo Latina (8 aprile 1964, Froridia / Siracusa), che sembrava animare, dal punto di vista dell’architettura e della qualità, il team vincitore.

Da allora è stata quasi una consuetudine seguirne la prestigiosa e rapida carriera architettonica ed accademica, che lo vede al giorno d’oggi essere un po dovunque, indispensabile, piacevole e “saporito” come il prezzemolo.

Tra i principali, recenti riconoscimenti :

nel 2012 – Vincitore della Medaglia d’Oro della Triennale di Milano. Premio Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana 2012 della Triennale di Milano. Al progetto “Padiglione di Accesso Agli scavi dell’Artemision”;

nel 2013 – Vincitore del Premio internazionale di architettura in pietra “ARCH&STONE”;

nel 2015 – Vincenzo Latina è il vincitore del Premio Architetto italiano, bandito dal Consiglio Nazionale degli Architetti;

nel 2017 – Vincitore del concorso Internazionale per la copertura dell’Arena di Verona;

nel 2017 – Era inserito nella rosa dei “papabili” per la curatela del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2018.

Nelle settimane scorse è stato spesso “quì al nord” : a ritirare il premio alla ARCHMARATHON SELECTIONS 2017 del Made Expo a Rho/Pero, come migliore architetto; alla presentazione del numero monografico 1013 di Domus ” Non c’è Italia senza spine” (curato da Fulvio Irace, in cui sono presentati i suoi ultimi progetti) a Mendrisio presso il Tatro dell’Architettura di Mario Botta; era invitato allo spazio sotterraneo H2OTTO di Milano a tenere una “lectio Magistralis”; era tra i designers del “Foodies Challenge” di Milano dove architetti e cuochi interagivano tra loro; ecc..

La sensazione, “gravitandogli attorno” da diversi anni, è che ci troviamo di fronte ad una personalità di grande spessore disciplinare, molto simpatico, diremmo “verace” ed umile, come difficilmente se ne trovano nel campo dell’architettura (infestato da “fighetti puzzoni” e da “egocentrici stralunati”). Insomma uno bravo, “certificato” e riconosciuto, destinato ad un grande futuro.

Tutto ciò è ancora più evidente se lo si segue sul “libro di facce” (Facebook), dove alterna un pensiero colto per l’architettura, con una foto della moglie che produce gli arancini nella casa di campagna. Dove alla diffusione virale di un evento di cui è partecipe, segue la foto dell’oblò di un aereo (condizione ormai consuetudinaria per un globetrotter dell’architettura) o acuti appunti di viaggio, oppure un selfie con un collega.

A “seguirlo”, facilmente ricorrono alcune terminologie, che potremmo definire dei “Latinismi architettonici” ; parole che danno lo spessore dell’attività di questo grande architetto, identificabile soprattutto una serie terminologica ben precisa :

TRADIZIONE, TRADUZIONE, TRADIMENTO – (tutti dalla radice latina tradere) che viene inteso dal Vincenzo Latina, come tradire per tradurre. L’architetto/archeologo, inevitabilmente tradisce il passato,  per poter “tradurre” nella realtà odierna la spazialità architettonica che gli viene richiesta. L’architettura è sempre “tradimento” della tradizione.

Forza Vincè, pedala, che il Pritzker Prize è quantomai vicino.

Link ad una lectio Magistralis di Vincenzo Latina a Varese

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Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

 

 

Lisc e grezz


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L’ultima fatica di Mario Botta, sul Monte Generoso in Svizzera è l’omonima struttura turistica. Denominata dall’architetto mendrisiense “Fiore di pietra”, domina il crinale con vista sul Lago di Lugano. Completata all’inizio della primavera 2017, sta già ritornando ad essere (dopo anni di chiusura) uno dei luoghi più visitati del Canton Ticino. Dalle prime foto e dai disegni, l’opera architettonica sembrava fare il verso alla moltiplicazione dei “cilindroni” del maestro svizzero, ormai da anni incancrenito su geometrismi ripetitivi.

Invece, visitandolo, anch’io che ero scettico, mi sono completamente ricreduto. Molti sostengono sia la “Torre di Mordor” o un “carciofo”, un’astronave calata sul Generoso. In realtà si tratta di un bell’edificio, magnificamente realizzato, consono al paesaggio in cui si colloca. Soprattutto l’edificio polivalente è molto funzionale con degli spazi comodi ed un’architettura che anche da vicino è perfettamente inserita tra le rocce che anticipano la cima, rispetto alla cacofonia di forme dell’edificio precedente. Paesaggio, quello del Generoso, già “sputtanato” parecchi anni prima dalle forme tecnologiche (e necessarie) del ripetitore radiotelevisivo.

Spazi mostre, accoglienza ed informazione turistica, un self-service, un ristorante (stellato), una sala per conferenze, camere per alloggiare, locali tecnici ed una spettacolare terrazza in copertura con un panorama a 360 gradi: distribuiti su 5 livelli, si incastrano nella montagna, completando ed esaltando il crinale.

Ottima la scelta dei materiali : pietra (probabilmente una beola o un serizzo) per il rivestimento esterno; beton a vista, legno e pietra per gli interni. L’edificio nonostante l’assalto di una moltitudine di turisti domenicali, risulta accogliente e funzionale.

L’occasione della nuova struttura turistica (25 milioni di franchi sponsorizzati da Migros), ha consentito di sistemare anche i percorsi pedonali che da Bellavista conducono alla cima del Generoso, rendendo tutto il parco del Generoso più facilmente accessibile anche a chi non può permettersi di spendere l’alto costo del biglietto del trenino a cremagliera.

Scendendo a piedi, due signori attempati al mio fianco (marito e moglie), veraci ticinesi, commentavano l’esperienza architettonica in rigoroso dialetto ibrido : “Bravo il Mario, in fin di facc un bell’edifizi, lisc e grezz” (se ho trascritto bene), probabilmente riferendosi al rivestimento esterno in corsi di pietra levigata alternata a quella a spacco.

Sotto il link ad alcune immagini del sopralluogo sul Monte Generoso

https://it.pinterest.com/dariosironi/lisc-e-grezz-2016/

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Limite biologico


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Quale è il limite di “modellazione” della massa biologica planetaria da parte dell’uomo ?

Molte piante ed animali, ma anche parassiti, devono necessariamente adattarsi, alle esigenze della specie umana per sopravvivere sul Pianeta Terra.

Le colture modificate dall’uomo, per consentire una produzione sempre maggiore per ettaro di alimenti vegetali, hanno lentamente cancellato le foreste e le praterie (con la loro biodiversità). I topi ed i piccioni, ma anche i gabbiani, le tartarughe dalle orecchie rosse, ecc., nelle città, sopravvivono grazie agli scarti della civiltà umana, da cui ormai dipendono.

Alcuni organismi non esistono più in natura, sopravvivendo solo perché sono entrati nel ciclo culturale e/o alimentare umano. Da una parte l’uomo li ha “estinti” modificandoli geneticamente o distruggendo il loro ambiente di vita. Dall’altro è la stessa specie umana che li tiene in vita riproducendoli per finalità molto differenziate.

Un esempio sotto gli occhi di tutti, sono i bovini, avvistati “allo stato selvatico” l’ultima volta nelle foreste della Polonia nel 1627. Oggigiorno i bovini “modificati” e completamente diversi dal loro progenitore selvatico, sono i mammiferi animali più diffusi al mondo (oltre un miliardo e mezzo).

Un altro esempio, è il Ginkgo Biloba, non più esistente in natura, perché incapace di riprodursi se non coltivato; probabilmente a causa dell’estinzione (per colpa di noi umani) del volatile che ne mangiava i semi, eliminando il rivestimento maleodorante che ne inibisce la fertilità, e li diffondeva sui terreni con le proprie feci.

Le bellissime installazioni di Michael Wang (Extinct in the wild) e di Pamela Rosenkranz (Slight Agitation 2/4, Infection), presenti nello Spazio della Fondazione Prada a Milano ci fanno riflettere su diversi ed importanti temi; su cosa voglia dire naturale ed artificiale; su cosa siamo noi esseri umani che continuamente modifichiamo il pianeta su cui viviamo; su quale deve essere (se c’è) il limite al nostro agire sulla massa biologica planetaria; su quale futuro perseguire………………

Michael Wang ( Olney, Maryland, USA, 1981) – (Extinct in the wild) – Tre piccole serre in un’enorme capannone grigio. Delle fotografie su una delle pareti più corte. All’interno di due serre che contengono delle piante quasi ormai estinte in natura, che l’artista ha riprodotto in un estremo gesto di conservazione e catalogazione. Nella terza serra due acquari che contengono dei Tritoni bianchi. L’artista riunisce flora e la fauna che non si trovano in natura, ma persistono esclusivamente sotto la cura umana, all’interno di un habitat artificiale complesso. Etichettato con il termine ufficialmente designato “estinta in natura”, queste specie hanno lasciato la natura per entrare nei circuiti della cultura umana. In questo progetto, gli esseri naturali come piante e animali sono “traslate a forza” in uno spazio culturale, in una mostra, in un ambiente che sottoposto alle continue cure umane riesce a garantire la loro sopravvivenza. Una riflessione quindi non solo estetica ma anche sulle tecniche di modificazione biologica, e sulle strategie di sopravvivenza.

Pamela Rosenkranz (Uri, Svizzera, 1979) – (Slight Agitation 2/4, Infection) –  esplora come i processi fisici e biologici influenzano l’arte. La sua installazione si basa su un parassita neuro-attivo (Toxoplasmosi)che ha come obbiettivo il gatto, ma che i bambini acquisiscono giocando con la sabbia o la terra, e di cui circa il 30% della popolazione mondiale è affetto in maniera quasi asintomatica. Un enorme, montagna conica, geometrica e sublime realizzata con della sabbia è formata all’interno degli spazi alti della Cisterna. La sua dimensione sembra esercitare pressioni contro l’architettura storica. La sabbia è impregnata di profumo di feromoni sintetici di gatto che attiva una specifica, attrazione o repulsione, negli esseri umani, biologicamente determinata, e inconsciamente influenzano il movimento del pubblico. Una luce verde a RGB illumina il picco di questa natura chimicamente modificata, facendo evaporare delicatamente il profumo. Pare che i portatori del parassita neuro-attivo, secondo studi scientifici, abbiano un comportamento alterato : statisticamente sono coinvolti più spesso in incidenti; hanno tendenza all’acquisto di abiti di lusso; ecc.. E’ per questo che la traccia olfattiva dei ferormoni del gatto, viene inserita in molti profumi, come ad esempio in Chanel “N.5”.

Ci fermeremo mai ? Sapremo almeno rallentare ? Sapremo, prima o poi avere senno in quello che facciamo ?

Dario Sironi

Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

Soliman


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Puo’, la luce, smaterializzare l’architettura per reinventarla ? Sembra di si, fino a farla diventare il supporto per racconti poetici e spettacolari in grado di coinvolgere decine di migliaia di spettatori. E’ quello che avviene ormai da qualche anno a Bressanone. La società francese “Spectaculaires – Allumeurs d’Images” grazie a sofisticatissime videoproiezioni animate di altissimo livello qualitativo, utilizzando le tecniche più avanzate di mapping, trasforma, la sera, il Palazzo Vescovile (Hofburg) di Bressanone, in un “incontro” tra architettura e video arte, stabilendo delle relazioni inusitate, curiose ed inaspettate. Relazioni che esaltano l’architettura, evidenziandola e disvelandola al meglio al comune spettatore, ma anche al cultore più sofisticato della disciplina. Piccoli e grandi, al di là della storia accattivante dell’elefante Soliman, vengono coinvolti dalla simbiotica espressione di luci, architettura e musica, in un racconto di circa mezz’ora, che ogni anno, attorno a Natale (in occasione dei mercatini), porta a Bressanone oltre 55.000 spettatori paganti. 

Raccontare storie, generare momenti sublimi, in luoghi, le architetture storiche, che testimoniano della trasformazione umana del paesaggio, e dell’intero pianeta, è un atto didattico estremamente importante che dà il senso del “transito terrestre” della specie umana. Nel bene e nel male.

Porre al centro l’architettura, e lo spettacolo che su di essa si proietta, per riunire un pubblico vasto attorno ad una storia comune, esaltando l’identità locale attraverso il divertimento. Fare del territorio e dell’architettura, l’epicentro dell’attenzione degli spettatori, troppo spesso “distratti” rispetto a queste tematiche. Sembrano i punti per un nuovo manifesto.

Qualcosa assolutamente da vedere e soprattutto da “percepire”, anche per riflettere su questa insolita, e stimolante liaison.

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Le jene


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L’ultimo edificio dell’epicentro Vitra di Weil am Rhein, sarà un “contenitore edilizio”, il progetto è di Herzog & de Meuron. Si tratta di un deposito/galleria (Schaudepot) per la collezione di sedie dello svizzero Rolf Peter Fehlbaum (Capostipide della famiglia), che ha inventato l’attuale realtà imprenditoriale di Vitra.

Si tratta di un edificio completamente chiuso, se si esclude la porta d’ingresso, con microclima ed illuminazione controllata, destinato alla preservazione degli importanti “pezzi di design” che vi saranno insediati. Una architettura “banalotta”, in linea con le ultime tendenze “provocatorie” del duo allargato di basilea.

Il rivestimento è in mattoni rossi alleggeriti, appositamente spezzati, di un colore rosso intenso. Rosso sangue.

Gli architetti, noi architetti, siamo delle jene, pronti ad azzannarci tra di noi. Essendo in molti e volendo tutti insistere nello stesso territorio, la competitività è spietata, senza essere esente da colpi bassi. Noi architetti siamo degli “animali opportunisti” che perseguono l’illusione del grande successo. Pur avendo un buon grado di adattabilità agli eventi della vita, a predominare sempre, è soprattutto il cinismo; avendo la capacità di digerire qualunque sopruso, qualunque ignominia, pur di lavorare, e di avere successo.

Il nostro cinismo è inversamente proporzionale alla età anagrafica; più si è giovani e più, non guarda in faccia a nessuno. Pronti a “venderci l’anima” per un lavoro, per un incarico, per emergere. Il sangue dei colleghi, il loro insuccesso, ci eccita, ci esalta.

La maggior parte degli architetti di oggi (ma non tutti) è di fatto a spiccata tendenza logorroica. Continuiamo a parlare di noi stessi, non sappiamo ascoltare, e riempiamo angosciati, qualunque silenzio. E’ diventato un vero e proprio sport disciplinare, parlare male dei colleghi, di tutti i colleghi. Appena uno esce dalla porta, o appena si termina una telefonata, ecco che gli improperi ed i diminutivi “piovono a raffica”, verso l’altro colpevole spesso solamente di esistere.

L’architetto deve tornare a fare l’architetto, cercando d’innovare, con un lavoro paziente e “poco cinico”, cercando nello spirito del proprio tempo cosa mettere alla base del proprio lavoro, e della propria etica professionale. Bisogna ritornare ad individuare i veri contenuti capaci di sostenere il lavoro, senza “scannarsi con i colleghi”, magari prendendosi dei rischi, avventurandosi anche in territori poco conosciuti.

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Camera con vista


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Scrivo questi versi, seduto all’aperto su una sedia bianca, d’inverno, con la sola giacca addosso, dopo molti bicchieri, allargando gli zigomi con frasi in madrelingua. Nella tazza si raffredda il caffè. Sciaborda la laguna, punendo con cento minimi sprazzi la torbida pupilla per l’ansia di fissare nel ricordo questo paesaggio, capace di fare a meno di me.

Iosif Brodskij – Strofe veneziane VIII (1982)

Gli edifici, sono quasi sempre considerati degli “oggetti particolari”, frutto della moda e per questo stravaganti; o che comunque devono sempre affermarsi nell’immaginario collettivo per la loro particolarità architettonica. Invece si tratta di elementi ricavati dagli uomini, modificando, per sempre,  la materia estratta dal Pianeta Terra. Sono gli “involucri” indispensabili alla sopravvivenza della specie umana, al cui interno, o nel loro esterno, si realizza quel “microclima”  (fisico, termico e psichico) indispensabile affinchè le funzioni umane biologiche e/o artificiali, possano svolgersi nella miniera migliore possibile. Sono la rappresentazione (e la testimonianza) di come noi, specie umana, adattiamo il “paesaggio naturale” del Pianeta alle nostre esclusive esigenze. Modificandolo per sempre, tanto che dopo il nostro passaggio non si può più parlare di “paesaggio naturale”.

In questo senso, gli edifici, ed il paesaggio che ne conseguono per sommatoria, sono elementi “tangibili” a cui i nostri corpi ed i nostri sistemi neurologici, sono intimamente ed indissolubilmente interconnessi.

Così scrive, in sintesi, Harry Francis Mallgrave nel bellissimo libro “L’empatia degli spazi” (2013) : portando avanti un discorso di interpretazione multidisciplinare della percezione dell’architettura e dello spazio, nato probabilmente con Heinrich Wolfflin (Psicologia dell’architettura, 1898) e continuato con l’antropologo Edward T. Hall (La dimensione nascosta, 1966).

Il nostro corpo, collezionando esperienze “sul campo”, attraverso i sensi, ma non solo, ci insegna a percepire le forme estetiche tridimensionali : una città, un edificio, un interno, un elemento di arredo. La nostra mente, il nostro corpo, l’ambiente che ci circonda e la cultura, durante il percorso continuo di apprendimento (che dura tutta la vita), si interconnettono tra loro a diversi livelli, facendo nascere in noi una capacità multisensoriale e psichica di percepire lo spazio. Oggi le neuroscienze consentono di “leggere” in maniera diversa l’architettura ed anche la sua storia.

Il corpo crea innanzitutto per sè, per soddisfare la propria esigenza di bellezza, ma anche per chi verrà dopo di noi. Sempre con una finalità di procurare piacere e soddisfazione, nonchè testimonianza del transito terrestre. Senza dimenticare gli aspetti emozionali ed affettivi, che inevitabilmente connotano, ogni modalità di relazione sensoriale e motoria con il mondo fisico costruito.

Il corpo, ci evidenzia infine Mallgrave, ritorna ad essere l’epicentro della cultura architettonica; il fondamento stesso dell’esistenza dell’architettura. Il tutto genera ovviamente una nuova attenzione, una “cura”, per coloro che stanno negli intorni (dentro o fuori), degli edifici che progettiamo, che costruiamo.

Ecco quindi, che una “camera con vista”, contenuta  in quello che fu un edificio eccellente di Venezia, diventa un “osservatorio empatico” sulla citta’ lagunare e sulla sua architettura. Il clima invernale umido e freddo che titilla la resistenza dei corpi umani, la bellezza degli affascinanti esterni architettonici della Giudecca, la rumorosità concitata dell’omonimo canale, l’esperienza olfattiva di una realtà culinaria importante, il contrasto con degli interni mediocri figli dell’international style, ecc. : diventano le scenografie di un’empatia architettonica multi sensoriale.

Se esiste una spazialità, figlia delle neuroscienze e percepibile con tutto il corpo (nel suo insieme piu omnicomprensivo), qui a Venezia e soprattutto nei sui dintorni periferici, se ne ha la più alta consapevolezza.

L’isola della Giudecca, quella di San Giorgio, Murano, Torcello, ecc. costituiscono un “panorama” entro cui sperimentare al meglio quanto sostenuto da Harry Francis  Mallgrave. Dato che da questi luoghi, più che dal centro,  nasce da sempre la “potenza” culturale, economica, sociale della citta’ lagunare.  L’apice lo si conquista con l’isola di San Michele, dove natura, morte ed artificio architettonico, convivono splendidamente in una decrepita stratificazione spaziale; i corpi dei vivi vanno all’isola dei morti, quasi esclusivamente per acquisire un’esperienza empatica spaziale (tra passato e futuro), girovagando tra le tombe di Stravinskij, Brodskij, Nono, Vedova, Pound, ecc..

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Gli interni della follia


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OLYMPUS DIGITAL CAMERALa Luce rivela che l’uomo è straniero a se stesso. E poichè non si conosce, compie atti che non doveva compiere – il primo, che tutti comprende: nasce e non avrebbe dovuto“.
 

Il bellissimo (e ostico) libro di Massimo Cacciari, “Dallo Steinhof – Prospettive viennesi del primo Novecento” pubblicato per Adelphi nel 1980, e più volte riveduto ed integrato, fino alla sontuosa edizione del 2005, può essere così riassunto in breve. Su una collina che guarda Vienna sorge la Chiesa dello Steinhof costruita dal 1904 al 1907 sul terreno dell’ex-manicomio della Bassa Austria, sede attuale dell’ospedale psichiatrico della Città di Vienna. Tale edificio è un’opera architettonica fondamentale dello stile Liberty viennese, opera di Otto Wagner.

Nello spazio raccolto della sua cupola (dorata), ci rivela Cacciari, si incontrano “forze oscure” che riescono, solo qui a ritrovare un punto di contatto tra cosa è “follia” e cosa è “normalità”. Uscendo dallo spazio della chiesa lo sguardo si perde in un paesaggio di “perfezione infinita” e di “follie interminabili”: Vienna. A questa città, e a certi memorabili “uomini mirabili” che vi abitarono nei primi anni del secolo scorso, è dedicato questo libro.

Il filosofo ci accompagna a rivisitare le opere e la vita di uomini viennesi quali : Robert Musil, Hugo von Hofmannsthal, Joseph Roth, Georg Trakl, o Ludwig Wittgenstein. Dallo Steinhof, secondo Cacciari si riesce a trovare “un centro comune, un centro però vuoto, dove non risiede una verità da trasmettere, tutt’al più un’assenza”. E di ciò fa parte integrante : la letteratura, il teatro, l’architettura e tutto quanto generano gli esseri umani, che sia in grado di “resistere” alla loro inevitabile caducità.

Ecco entrare in una casa dove risiede un folle, un ammalato di mente, inevitabilmente porta a confrontarsi con ciò che è giusto e ciò che è errato, su come, per “utilità e raziocinio” noi “normali” ci siamo dati come regole condivise. Se queste sono giuste o sbagliate.

Gli interni, più che gli esterni, rappresentano benissimo queste due “posizioni estreme”, che poi si riversano in precisi atteggiamenti e formalismi architettonici. Oggi probabilmente, proprio l’architettura minimale degli interni, diventata un riferimento stilistico disciplinare, palesa forse, una follia diffusa, che ormai pervade l’intera umanità.

Ad architetture asettiche, “chirurgiche”, con soggiorni che sembrano delle reception di hotels, cucine e bagni luoghi assimilabili a sale operatorie per anatomopatologi: sempre più frequentemente, i mezzi di informazione disvelano situazioni reali limite, dove gli interni sono utilizzati quali discariche e/o depositi per collezioni interminabili di oggetti più o meno ordinati. Oggetti che saturano gli spazi interni, fino ad escludere quasi totalmente la possibilità che possano risiedervi gli esseri umani.

Interni che, sempre più spesso, diventano i luoghi di efferati omicidi e/o suicidi, probabilmente intimamente correlati anche allo stato delle architetture interne ed esterne che oggi siamo in grado di proporre come società (e noi architetti).

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L’orologio ed il violino


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“Il tempo è un treno – trasforma il futuro in passato – ti molla alla stazione – con il muso schiacciato contro il vetro”

U2 – Zoo Station (LP Acthung! Baby)

Il meraviglioso e particolare orologio astronomico del Torrazzo di Cremona, venne realizzato tra il 1583 ed il 1588 dagli orologiai Giovanni Battista e Giovanni Francesco Divizioli, è ancora oggi è perfettamente funzionante. E’ uno degli orologi astronomici più grandi al Mondo. Da allora il quadrante è stato più volte ridipinto, così come perfezionato l’apparato meccanico dell’orologio, adeguandolo alle diverse esigenze nate nel corso del tempo.

Il quadrante è contornato da una cornice in rame sbalzato.  Il diametro dell’orologio è di 8,44 metri. L’orologio rappresenta la volta celeste con le costellazioni zodiacali attraversate dal moto del Sole e della Luna.

L’ultima sistemazione di vero e proprio restauro dell’orologio, risale al 1970 ed è  stata eseguita su progetto e calcoli di Achille Leani, seguendo il bozzetto del pittore Mario Busini e dallo scultore Piero Ferraroni coadiuvato dal fratello Vincenzo.

Le lancette indicano le ore, le fasi lunari, i mesi, le costellazioni e i segni zodiacali. La quarta lancetta compie un giro completo ogni 18 anni e 3 mesi, quando si sovrappone a quelle del sole e della luna, significa che è in atto un eclissi.

 Un orologio magnifico, così come è magnifica l’arte della liuteria cremonese.

Visitare il laboratorio del liutaio Riccardo Bergonzi è una vera e propria delizia, in bilico tra storia e modernità. La “bottega” si trova proprio nel centro di Cremona, in Corso Garibaldi 45. La liuteria è l’arte della costruzione e del restauro di strumenti a corda ad arco (quali violini, violoncelli, viole, contrabbassi, ecc.) e a pizzico (chitarre, bassi, mandolini, ecc.). Il nome deriva dal liuto, strumento a pizzico molto usato fino all’epoca barocca. È un’arte e tecnica artigianale rimasta quasi immutata dall’epoca classica della liuteria (XVI, XVIII secolo). Il Riccardo Bergonzi, che ripercorre le gesta di Carlo Bergonzi (Cremona, 1683 – 1747), mitico liutaio cremonese tra Seicento e Settecento, riesce ad essere al contempo artista estroverso ed eclettico e fine artigiano rigido alle regole costruttive della liuteria cremonese (http://www.riccardobergonzi.com/about.html).

Il lavoro dell’architetto e del designer contemporaneo, consiste oggi, proprio nell’individuazione precisa delle molteplici trasformazioni imposte all’uomo, da una società e da un sistema economico che cerca disperatamente di replicarsi indipendentemente dalla crisi in atto. La società umana oggi è il luogo dove tutti i sedimenti e le stratificazioni  della storia e della memoria umana, si palesano in contraddizioni sempre più evidenti e macroscopiche. Tradurre queste contraddizioni nella propria attività, ed in ciò che si progetta, è oggi quasi una missione obbligatoria di civile denuncia.

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