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Il Regno di Lo (Fino alla fine dell’uomo – Parte II)


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Il vertiginoso sviluppo della Cina, contamina inevitabilmente i più deboli tra i Paesi limitrofi che offrono un terreno fertile ad eventuali accordi per uno sviluppo congiunto. Per esempio il Nepal si infrappone tra due nuove superpotenze economiche, la Cina e l’India, orientandosi su una lingua di terra che segue da est a ovest, la catena dell’Himalaya.

E’ da anni che la Cina, facendo campo base sull’altopiano tibetano, preme sul confine nepalese per cercare un varco attraverso il tetto del mondo, per aprirsi sulla nuova potenza economica indiana.

All’atto pratico ciò che occorre è un sistema infrastrutturale che si dirami dalla Cina verso i territori del sud, scavalcando l’impossibile barriera “degli 8.000” Himalayani. Negli ultimi anni del 900, sono stati trovati dei valichi che potenzialmente offrivano la possibilità fisica di realizzare una strada carrabile, approdando sul confine Indiano, attraverso lo stretto stato del Nepal. Storicamente la strada è il primo segno di una volontà chiara di sviluppo e nel passato anche sinonimo di progresso.  La realtà oggi presenta un rovescio della medaglia.

Tra i pochi punti individuati per creare la nuova strada, fu scelto il piu praticabile. L’orografia del terreno poteva essere modificata, gli accordi tra i Paesi interessati, sanciti.

Rimaneva solo un problema da risolvere.

Il Regno di Lo. La potenziale via di comunicazione, entrando in territorio nepalese, penetrerebbe come un cuneo in uno dei patrimoni più preziosi dell’umanità.

Esiste un luogo incastonato tra uno dei territori più impervi del mondo, posto a oltre 4000 mt di altitudine chiamato oggi Mustang. Questa piccola parte di mondo trovò la sua identità oltre un millennio fa, quando alcune etnie tibetane si spostarono nel cuore dell’Himalaya provenendo dall’attuale Tibet e sconfinando nell’attuale Nepal. Si trattava di poche persone forse un migliaio, comandate da un re e da una regina che decisero di fermarsi e creare il loro luogo di permanenza lungo il fiume Kali Gandaki, in un fazzoletto di terra di circa 3.500 kmq, distribuendosi in piccoli villaggi fatti di poche anime e altrettante poche case realizzate con fango e paglia. Era il luogo ideale dove fermarsi, un piccolo altopiano tra alcune delle montagne più alte del mondo, dal Dhalaugiri 8167 mt. all’l’Annapurna 8091 mt., che offriva la giusta protezione e il minimo di terra fertile, nutrita dal fiume eterno.

In poco tempo il Regno di Lo venne istituzionalizzato e la popolazione si isolò nei secoli dal resto del mondo. Poiché l’accesso al regno è stato sempre di difficile percorrenza (unicamente a cavallo o a piedi) e trattandosi di poche persone pacifiche, anche nel 1951 quando divenne ufficialmente territorio nepalese e denominato Mustang, mantenne la sua identità istituzionale e lo stato di clausura antropologica. Questo isolamento volontario dalla civilizzazione ha concesso che si generasse un incubatore spontaneo, dimenticato dal mondo, nel quale si è preservata la cultura di quel popolo, congelandola al momento in cui formarono il loro regno e le montagne fecero da recinto, fermandola nel tempo in una sospensione mistica fino al 1992.

In quell’anno venne data dal Nepal la possibilità al turismo di nicchia di accedere al Regno, seppur in modo limitato (solo un centinaio di presenze all’anno e attraverso permessi speciali) dando avvio ad un inevitabile (programmato?) lento declino del Regno di Lo.

Fino a quel momento nel Regno, tutto ciò a cui si poteva ambire o era necessario non poteva che ricavarsi dalla terra, dagli animali e dallo spirito, dove i sudditi possedevano tutti una casa e un pezzo di terra. Dove il ritmo della vita era scandito dal sole e della luna, dall’inverno e dalla primavera e soprattutto della preghiera. L’idea del luogo segreto, di pace e felicità, così come rappresentato da Frank Capra nel film Orizzonte perduto, trova senso in quello che doveva essere il Regno di Lo fino a qualche decennio fa.

Un paradiso segnato però da quella che un tempo si chiamava “semplicità” e che oggi alcuni confondono con la povertà, e dalla durezza delle condizioni di vita in alta quota per tutti i suoi abitanti (oggi circa 15.000 incluse le etnie nepalesi).

Questo lento processo di apertura al mondo, vede negli ultimi anni una rapida evoluzione, oggi l’accesso al Mustang è ancora limitato al turismo di massa, ma i permessi d’ingresso sono aumentati fino ad oltre un migliaio all’anno.

Come risultato, l’identità culturale e l’antico retaggio della popolazione si sono notevolmente disgregati.

Nel 2009 quando ebbi occasione di accedere al Regno di Lo, camminai due settimane per oltre 250 km e dovetti scavalcare valichi in alta quota per arrivare a Lo Manthang, ultimo villaggio fortificato tibetano di cui si ha conoscenza, con alcuni dei più importanti templi del buddhismo himalayano, dove ancora oggi risiede il Re. Già allora trovare un caterpillar a oltre 5.000mt di quota fu uno shock. Oggi sapere che quello stesso tragitto si può percorrere in jeep in poche ore di viaggio mi lascia uno strano sentimento addosso.

Jigme Parbal Bista l’anziano re dell’antico Regno di Lo, che per quanto oggi rappresenti solo una figura simbolica, alla mia domanda su cosa ne pensasse della nuova strada, ha alzato le spalle e fatto un sorriso, non una parola, solo due occhi lucidi.

Il problema del regno di Lo era quindi stato risolto.

Non voglio pensare che sia stata una subdola manovra studiata a tavolino, ma sta di fatto che oggi è in corso di costruzione la parte finale di una pista che attraverserà il Mustang dal confine cinese fino a Jomson, aprendo l’importantissimo passaggio nell’Himalaya, tra l’India e la Cina. Tutto come se fosse la naturale evoluzione delle cose, con una stridente rassegnazione da parte di un popolo che fino al 1992 viveva isolato dal mondo e che oggi già ambisce ad avere un cellulare ed una televisione.

La nuova via di comunicazione voluta dal governo cinese, nepalese e indiano da una parte contribuirà al progresso economico dei Paesi, dall’altra esporrà le comunità locali a quella forma di globalizzazione che a mio avviso non potrà essere sostenuta in un processo di evoluzione così rapido. La velocità con cui questa popolazione si vedrà proiettata nella “civiltà” alla quale si era negata per secoli non potrà che avere un solo effetto che disgregherà, dissolvendola, una delle ultime culture del nostro passato che ancora vale la pena preservare e che rappresenta una tra le più preziose ricchezze dell’Umanità a cui si può ambire.

Marco Splendore

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Fino alla fine dell’uomo


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Nel mio ultimo viaggio in Cina ho avuto occasione di esplorare una parte di mondo che attraversa oltre 1,5 milioni di km quadrati, di territorio cinese da est a ovest, da Beijing a Zhangye, passando per il cuore geografico dello stato.

In passato avevo già avuto occasione di visitare alcuni tratti di questo vasto territorio, ma rimanendo sempre in zone circoscritte.

Questa volta, a distanza di anni, ho avuto occasione di avere una visione aggiornata e di insieme di questo enorme fetta di mondo.

Quando fu fondata la Repubblica Popolare Cinese sei decenni or sono, la popolazione era locata per il 90 % nelle campagne e la rimanenza in centri urbani di piccole dimensioni, dove le città più grandi contavano pochi milioni di abitanti. Oggi il rapporto ha superato la soglia del 50% in favore dei centri abitati,  Pechino ha oltre 20 milioni di abitanti, Shanghai quasi 24.

Nel resto del mondo questo tipo di cambiamento ha richiesto secoli, consentendo una più coerente crescita del sistema culturale e sociale, insieme allo sviluppo tecnologico.

La politica di sviluppo della Cina, prevede di spostare nelle città 310 milioni di persone entro il 2030. Da come costruiscono sembra che i programmi mirino a numeri ben più alti. In venti anni prevedono quindi di avere il 70% della popolazione residente nelle città.

Si è innescata quindi una frenetica corsa edificatoria, che genera una situazione già vista (almeno ai nostri occhi, ma credo che il governo Cinese stesse facendo altro in quel periodo) negli Usa nel 2008 e in Spagna, con tutte le conseguenze disastrose a livello globale, che conosciamo.

Nei numerosi centri abitati che ho attraversato, dove la matrice rurale è ancora presente nella struttura urbana, si vedono elevare, quasi a fortificazione del perimetro, una cortina di scheletri di cemento alti oltre 100 metri, a mazzette di dieci, quindici, venti torri affiancate, ripetute in lotti non molto distanti l’uno dall’altro. Torri tutte uguali. Tutte desolatamente vuote, anche quelle finite. Questo scenario si ripete in tutte le aggregazioni urbane da est a ovest, considerate strategiche dal punto di vista geografico. Da lontano l’impressione è questa, ma da vicino è anche peggio.

Le nuove strade urbane si aprono su prospettive inquietanti con enormi viali oggi desolati ma che domani potranno ambire solo ad uno scenario peggiore, immaginandosi lo stato del traffico che oggi degenera nelle grandi metropoli cinesi. Le cortine di edifici si dispongono lungo questi enormi assi infrastrutturali come fantasmi di se stessi, mentre a terra enormi cartelloni pubblicitari, mostrano una futura realtà che nulla ha a che fare con le premesse edificate. La qualità delle opere eseguite risulta essere pessima, rendendo ancora più deprimente lo scenario urbano che si sta delineando nelle, sempre più tutte uguali, nuove città cinesi. La popolazione che viene spostata dalle campagne nelle città viene oggi prevalentemente impiegata nel settore edilizio. La manovalanza impiegata nella costruzione degli edifici risulta essere senza competenze specifiche, pertanto la cura nell’esecuzione delle opere, specialmente in quelle di finitura, è assolutamente assente. Si generano quindi migliaia di edifici di oltre 35 piani, che alla fine della loro costruzione risultano già bisognosi di manutenzione, altro concetto assolutamente assente in questa nuova politica di (in)evoluzione.

Non rimane che chiedersi, verso quale futuro si sta proiettando lo sviluppo cinese. Se la bolla edilizia resisterà, se questa follia urbanistica eluderà lo spettro dell’implosione economico/finanziaria legata al mercato immobiliare, avuta con l’esperienza USA e quella spagnola, allora si dovrà fare i conti con una nuova problematica mai affrontata prima. Lo sviluppo socio culturale di una popolazione di  1 miliardo e 400.000 anime che cresceranno in città che già oggi sembrano paradossalmente essere sopravvissute alla fine improvvisa dell’Uomo.

Marco Splendore

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IAC


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Nel lontano 2007, veniva assegnato il primo premio del concorso “Progettazione e ristrutturazione del comparto Masseria, Istituto Agrario Cantonale, a Mezzana (IAC)”. Oggi questo edificio è una realtà, infatti si stanno completando i lavori.

Il progetto è degli architetti : Mario Conte, Gionas Pianetti, Michele Zanetta architetti di Lugano Carabbia. Un edificio caratterizzato dai grandi setti in terra, dal cor-ten, da grandi vetrate che si aprono sulla campagna e le viti circostanti.

Quasi non la si nota, questa architettura, dalla strada cantonale Chiasso-Mendrisio, eppure questa “corte non chiusa”, una volta disvelata, rivela tutta la sua forza paesaggistica, la sua “giustezza” con cui si colloca sul suolo inclinato, splendidamente contornata da magnifici vigneti.

il suolo esprime continuamente, nella sua duplice e inscindibile connotazione geografica ed umana, un serie di informazioni, non soltanto geometriche e formali , ma anche storiche e culturali. La lettura di tali informazioni, avviene nel progetto dello IAC in maniera scientifica, elaborando dati di varia natura .

Il progetto è uno strumento di ricognizione e la scoperta del terreno (del suolo, dell’orografia) è il momento decisivo del percorso nel quale intuizione e invenzione possono avere un peso diverso, ma comunque interagiscono. Il risultato architettonico qui a Mezzana è particolarmente riuscito.

http://www.behance.net/gallery/PROG-2007-scuola-agraria-IAC-mezzana/5301685

Anche quest’anno ci sarà, a fine settembre (27 – 28 – 29), la Sagra dell’Uva del Mendrisiotto, con apertura di cantine ed eventi, un’ottima occasione per fare il pieno, non solo di benzina, ma anche degli ottimi prodotti locali, di “ameni paesaggi” e di eccellenti architetture. Il tutto a soli 50 chilometri da Milano.

Quì una mappa che localizza l’edificio

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OPorto poetic


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41 progetti di architettura in mostra, 215 pezzi di design, 540 fotografie d’autore, 28 filmati in proiezione, tantissimi plastici, schizzi e disegni originali. Questa è la mostra “Porto poetic” che si tiene alla Triennale di Milano (http://www.triennale.it/en/), sotto l’egida dell’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Portoghese e la collaborazione del Canadian Centre for Architecture (CCA) e del Museum of Modern Art  (MoMA). Il tutto dal 12 settembre al 27 ottobre 2013.

La bellissima mostra, narra le vicende architettoniche di Álvaro Siza e Eduardo Souto de Moura, e di tutta la Scuola di Oporto (come si scrive in italiano) negli ultimi decenni, dalla rivoluzione dei garofani (http://it.wikipedia.org/wiki/Rivoluzione_dei_garofani) all’oggi, dimostrando con i materiali, la forza dell’architettura pensata, poetica. Ma soprattutto l’eccezionalità comunicativa e la forza rivoluzionaria, del “disegno che si fa realtà spaziale”.

Scrive Alvaro Siza in “L’importanza di disegnare” (Skira, 1997) . “Il disegno è una forma di comunicazione con l’io e con gli altri. Per l’architetto, è anche, tra i tanti, uno strumento di lavoro, una forma di apprendere, comprendere, comunicare, trasformare: una forma di progetto. L’architetto potrà utilizzare altri strumenti; ma nessuno sostituirà il disegno senza qualche perdita, nemmeno il disegno sostituirà quello che appartiene agli altri. La ricerca dello spazio organizzato, l’approccio calcolato di quello che esiste e di quello che è desiderio, passano attraverso le intuizioni che il disegno introduce immediatamente nelle più logiche e partecipate costruzioni, alimentandole e alimentandosene. Tutti i gesti (anche il gesto di disegnare) sono carichi di storia, di incosciente memoria, di incalcolabile, anonima sapienza. E’ necessario non trascurare l’esercizio, perché i gesti non si contraggano, e con essi il resto.”

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L’architecture est un sport de combat


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La principale citta’ del sud della Francia, Marsiglia, e’ per tutto il 2013 capitale della cultura Europea. Fulcro di tutta la manifestazione e ‘ il MuCEM (Museo della civilizzazione dell’Europa e del Mediterraneo – www.mucem.org), progetto dell’astro emergente (e amante della filibusta) dell’architettura francese, Rudy Riccioti (www.rudyrocciotti.com). Un progetto architettonico e soprattutto museale, grandioso ed ambizioso, che cerca di sancire un nuovo “centro culturale”, il Mediterraneo. Una prospettiva futura per l’Europa, che è anche stata la base della sua origine : la contaminazione. A Marsiglia si gettano le basi per un “tavolo culturale” (ma non solo) del Mediterraneo. Una cosa che fa la Francia ma che avrebbe dovuto fare l’Italia, paese “sterile ed impotente” in merito, ma che essendo una penisola è di fatto una ponte sdraiato nel centro del Mare Mediterraneo.

http://www.dailymotion.com/video/x10knuu_mucem-marsiglia-cuore-del-mediterraneo_news

A fianco  del MuCEM, si trova l’edificio Villa Mediterranee (www.villa-mediterranee.org), un centro congressi ed esposizioni, multifunzionale, progettato in seguito a vincita di concorso internazionale, dall’italico Stefano Boeri (www.stefanoboeriarchitetti.net). Tutta l’operazione fa parte di un progetto complessivo di ammodernamento della citta’ denominato Euromediterranee (www.euromediterranee.fr) che prevede un investimento complessivo di oltre 3,5 miliardi di euro in infrastrutture, riqualificazioni urbane, edifici culturali, alberghi, residenze, ecc..
Dalla visita dei due interessanti edifici contigui, risulta evidente, direi quasi imbarazzante, una maggiore dimestichezza e genialita’ nei “lavori in pelle ” e nella coerenza tra struttura ed involucro, da parte del francese.  Dovendo dare un voto : Riccioti 9, Boeri 7,5.

Raccontare quello che sta avvenendo a Marsiglia, per la cultura e per il turismo e che funge da motore per un rilancio di tutta l’economia locale francese, vuol dire necessariamente, come nel caso dei due edifici  MuCEM e Villa Mediterranee, mettere a confronto realtà molto diverse, l’Italia e la Francia.

Oltralpe, si è sempre investito in cultura, istruzione e nella ricerca, perseguendo una società multietnica/multiculturale e democratica (ed oggi, in periodo di crisi, si rilancia guardando al Mediterraneo), in Italia si dilapidano, senza un progetto complessivo, le “briciole” che si investono in questi settori.

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E’ notizia di questi giorni di fine agosto 2013, che Lucrezia De Domizio Durini (Trento 1936), figura di primo piano della scena artistica e culturale contemporanea, lascia Milano. La lascia per sempre, in direzione Parigi, dichiarando, come si legge a pagina 6 de “il Giornale-Milano” del 26 agosto : ” I grattacieli, le fondazioni dei modaioli, le mostre itineranti, i riciclaggi, le gallerie-boutique, i luoghi remember di musei caserecci, hanno prodotto in questi confusione e ambiguità. In ambito artistico Milano è provinciale, non ha nulla a che fare con le proposte che osano i galleristi europei, né è possibile un benché minimo paragone tra i suoi musei e quelli stranieri”.

Ed ancora : “Lo Stato prima e cinque musei (italiani) in seguito hanno rifiutato sia la mostra Joseph Beuys. Difesa della Natura, sia la Donazione di 300 lavori che invece, nel 2011, è stata accolta ed esposta dalla Kunsthaus di Zurigo, alla quale avevo già donato la regale opera Olivestone”.

Ecco che allora, anche l’architettura deve conformarsi a questo “stato delle cose”, diventare uno sport (più che un arte) da combattimento, per potersi affermare in una realtà culturale “caotica e provinciale”. Dove, anche Milano (e tutto il nord), non siamo più in grado, da anni a competere con le grandi realtà culturali urbane europee non solo dal punto di vista economico, ma anche, e soprattutto, della circolazione e della creazione delle idee.

Senza però evitare la dietrologia, come succede quale metafora, nell’edificio di Boeri a Marsiglia, dove la “struttura ardita” diventa troppo spesso, un elemento di intralcio fisico e visivo dell’architettura. Ci vuole equilibrio e lungimiranza, proprio come nell’edificio di Ricciotti. L’equilibrio della storia che sa farsi futuro, necessariamente passando dal presente.

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Materiali locale/globale


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La via per Santiago (che ancora attraversa tutta l’Europa) al di là del Gran San Bernardo, si dipana in una serie di paesaggi ameni, che di fatto anticipano, la rigorosa e bellissima antropizzazione vinicola dei bordi del lago Lemano, su cui si affacciano Losanna e Ginevra. Quì, scendendo veloci verso Martigny, avendo a fianco il percorso che fu di migliaia di pellegrini, viene in mente immediatamente un personaggio che del camminare, ne ha fatto oggetto di un interessante racconto.

Per chi come me, ama la montagna, camminare ed il cinema, Werner Herzog, cineasta, scrittore  e documentarista tedesco, è sicuramente una figura di riferimento, un uomo da ammirare. Forse il suo più bel libro, si intitola “Sentieri di gliaccio”, ed è la storia di un viaggio meraviglioso che Herzog ha intrapreso a piedi, nell’inverno dell’ormai lontano 1974, per recarsi da Monaco a Parigi, dove lo aspettava una cara amica malata, Eisner Lotte. Una profonda e vera testimonianza d’affetto, quasi un pellegrinaggio sacrificale, che, secondo il cineasta tedesco, avrebbe dovuto aiutare, contribuire a tenere in vita una persona a lui cara. Strade, colline, boschi, architetture, paesaggi assolati, paesi attraversati da improvvisi temporali e bufere fitte (e magiche) di neve, villaggi deserti (misteriosi) e campi agricoli disabitati: questo è il paesaggio che ci fa percorrere Herzog con il suo libro mentre attua un gesto anticonformistico, dare corpo alla “lentezza”. Il racconto di Herzog ha la capacità di rappresentare in modo antico (ndr – la via Francigena, il sentiero per Santiago, ecc.) ed al contempo nuovo quell’Europa che attraversiamo spesso tutti quanti, in aereo, in treno, in auto. Un’Europa di cui percepiamo solamente, di solito (soprattutto noi italiani), esclusivamente i paesaggi, altamente  urbanizzati, le fabbriche, le autostrade, gli aeroporti, i complessi industriali. Lo scritto di Herzog, invece, ci restituisce raccontandoci il suo viaggio a piedi, un’Europa ancora agricola, naturale, con una dimensione ancora segreta. Un continente, quello europeo, profondamente antropizzato da migliaia di anni, ma che ancora presenta un paesaggio “forte” e “meraviglioso”, proprio in questo (spesso saggio) equilibrio tra sfruttamento umano e natura.

In queste zone, a ridosso del Gran San Bernardo, l’Europa si fa “sentire”, soprattutto proprio in questa sua dimensione,  ancora rurale ed atavica, dandoci la “misura” della sua grandezza storica, del sangue e delle vite umane sacrificate per conquistare questo assetto territoriale meraviglioso.

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Se è vero che il locale è una modalità di concepire il territorio ed il paesaggio  indipendentemente dalla scala di riferimento, di concepire le risorse, la società e il loro governo, è logico quindi sostenere che è di fatto, una “visione del mondo”.

Lo sviluppo delle società locali e quindi del paesaggio locale, rimanda ad un progetto che richiede il superamento del territorio e dell’ambiente come dati, come meri supporti delle attività economiche o come risorsa da consumarsi all’interno dell’idea di crescita illimitata.

Il Paesaggio locale, proprio quì, tra l’Italia, la Svizzera e la Francia, ha di fatto, nel corso del tempo, operato un salto concettuale, in cui si  richiede di considerare il locale come punto di vista che assume l’unicità, lo specifico come valore, la complessità come regola, l’auto organizzazione sociale, economica e paesaggistica, come modalità. Proprio come sostiene Ivano Spano, che scrive (ricerca : Sviluppo di comunità e partecipazione) : “Il territorio assume, quindi, la valenza di ecosistema e di società locale intesa come realtà complessa. Il rapporto tra territorio e processi socio-economici locali non va inteso, quindi, esclusivamente come proiezione spaziale di dinamiche economiche, ma come rapporto tra un insieme complesso di elementi le cui specificità territoriali sono espresse fondamentalmente dalla qualità di interazioni sociali e sistemi di comunicazione, cooperazione e scambio all’interno di concreti ambiti di identificazione culturale”.

E’ quì, dove si confrontano da centinaia di anni, modelli tra loro molto differenti, di intendere l’economia, il sociale e la gestione del territorio, che si percepisce con chiarezza l’importanza delle opzioni locali. Infatti  perchè il globale esista, e sia di qualità, bisogna avere una sommatoria di eccezionalità locali. Ciò vale, ovviamente anche per il paesaggio e l’architettura.

Quì sotto immagini di Losanna

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Quì sotto immagini di Ginevra

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Ritom


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Tra poco all’inverno, si farà strada, come sempre, la primavera. La prima volta che sono stato ai laghi Ritom, in Svizzera, era un maggio inoltrato, di una primavera calda ed assolata. Ecco qui, nella zona del “Rio Tom”, in un paesaggio meraviglioso ed ameno, un vero e proprio giardino paesaggistico d’alta quota, “costruito” d’acque e montagna, si può apprezzare cosa sia l’idea stessa del paesaggio, in cui l’uomo si inserisce, modificandolo in maniera saggia.  Quì, l’uomo, dal 1918,  ha antropizzato un sistema di laghi glaciali, a fini idrici e per produrre  energia, che forse non ha eguali come antropizzazione paesaggistica. Da quì, oltre a poter osservare l’importanza di una gestione idrica ed energetica saggia, in grado di proporre un intero territorio montano come, offerta turistica ed enogastronomica di livello europeo, si può anche osservare dall’alto, la grande arteria autostradale svizzera, definita “La via delle genti” (N2 ora E35).

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“L’autostrada, nei suoi elementi costitutivi  nonché negli oggetti integrativi dovrebbe  essere considerata non come un seguito di  strutture additive ma come un tutto armonico nelle sue espressioni formali: l’autostrada  dunque nel suo complesso, come un’opera  unitaria e, in quanto tale, debitamente inserita nel paesaggio che attraversa.” Chi scrive era Rino Tami, “consulente estetico” dell’Ufficio Strade Nazionali del Cantone Ticino (Svizzera), ruolo che svolse per un ventennio, dal 1963 al 1983.

Tami in un ventennio, meticolosamente affronta ogni aspetto, dell’inserimento nel territorio, nel paesaggio svizzero, del tracciato autostradale nel suo complesso. Ed ogni punto è  risolto attraverso un’attenta lettura del “genius loci” del sito e l’adozione degli accorgimenti più semplici e corretti, in un continuo dialogo tra preesistenze e modernità.

Un’attenzione particolare è riservata alla convinzione che un’autostrada è innanzitutto un’architettura del paesaggio in grado di proporre un nuova lettura della realtà ambientale circostante. Natura ed Artificio, convivono assieme senza distonie, ma ognuna integrandosi con il proprio reciproco.

Fonte primigenia di questa colta visione stilistica, è innanzitutto l’utilizzo di un unico materiale costruttivo, il beton (cemento armato a vista), declinato in maniera innovativa a comporre un linguaggio formale asciutto, direi quasi “spartano” alla ricerca della massima  pulizia possibile.

Il felicissimo risultato, facilmente leggibile dall’alto soprattutto dalla stazione di arrivo della funivia dei laghi Ritom, è un’opera di straordinaria bellezza e coerenza e soprattutto di altissimo valore formale, che contribuisce in misura determinante a caratterizzare, ma soprattutto a “disvelare” un’ampia porzione di territorio, da Chiasso al San Gottardo.

Il linguaggio di Rino Tami, farà scuola, divenendo, una vera e propria cifra stilistica, dell’arte di fare paesaggio in Svizzera, per le grandi infrastrutture. Infatti anche per l’alta velocità ferroviaria svizzera (AlpTransit, in corso di realizzazione) si ritrovano, negli apparati evidenti, la stessa tipologia di ricerca linguistica.

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Un pomeriggio di contrasti


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 Salendo sul Generoso 

Sole, cielo limpido, visibilità ottima. Dopo una lunga passeggiata mattutina al parco, gita al Monte Generoso. Si parte da Milano alle 13,00 e procedendo in direzione nord per la A9 dei Laghi, verso Como Sud, da qui si continua in direzione del confine italo-svizzero, uscendo dall’autostrada a Como Monte Olimpino. Si attraversa il confine a Chiasso (per evitare di pagare il bollino autostradale), poi si procede, utilizzando la strada cantonale per Lugano, fino a Capolago, dove si esce indirizzandosi per la Stazione ferroviaria. Davanti a questa, si trova la stazioncina della ferrovia a cremagliera per il Monte Generoso.

La ferrovia consente, con un costo di circa 32 euro a persona (andata e ritorno), di passare dai 305 metri di Capolago, ai 1704 della cima del monte, dove, un po’ più in sotto, stà la stazione di arrivo. Se la giornata è limpida, lo spettacolo vale assolutamente gli euro spesi, dato che il Monte Generoso, dalla parte Svizzera, è in totale dominanza della “piatta pianura padana”. Alla stazione di arrivo, inoltre un comodo self service/ristorante/bar, consente, mercè l’utilizzo di un’ampia terrazza, di godere di un maestoso panorama sia verso Milano, sia verso Lugano. Chi vuole darsi ad un comodo alpinismo, in circa 1,5 chilometri, si può risalire di altri 200 metri fino alla vetta, da dove si gode uno spettacolo incommensurabile delle Alpi. Una fattoria nelle vicinanze consente di acquistare latte e formaggini freschi. L’ultima corsa in discesa è alle 17,45 la prima in salita alle 8,45. Il tutto da marzo ad ottobre, qualche volta il collegamento è aperto anche per le festività natalizie. Con l’ultima corsa si ritorna a valle e da lì, presa l’auto, in circa un’oretta si è comodamente a Milano. 

E’ il Monte Generoso, un paesaggio di contrasti, di “magici contrasti”, tra la pianura e la montagna, tra i laghi ed il cielo. E’ soprattutto il luogo della contemplazione di questi contrasti, che magari al nostro arrivo ce li fa apprezzare in un clima caldo e secco, mentre  poco dopo, subentra velocemente vento e neve.

Ma la vita stessa di noi umani, su questo pianeta si fonda sui “contrasti”, in un eterno braccio di ferro tra la luce e la notte, tra la natura e l’artificio, tra la vita e la morte. Alla stessa maniera la democrazia, additata dai più, nel loro intimo, e non certamente dichiarandolo, quale astrazione pura, è invece la capacità fantastica di percepire e “capire” anche i milioni di individui che ci circondano quotidianamente (e di cui non possiamo provare coinvolgimento diretto), sono fatti della nostra stessa materia, carne, come lo sono i nostri amici più cari. Bisogna mettersi nella “pelle degli altri”. Si tratta di sviluppare una giusta misura, una filosofia di sopravvivenza, per praticare la sottile membrana osmotica che divide un opposto dall’altro.

Volendo si può arrivare in cima al Generoso anche a piedi, dalla Svizzera, partendo da Mendrisio e seguendo la strada per il Monte Generoso. Si lascia la macchina alla Stazione di Bellavista e poi a piedi si segue il sentiero, che porta fino alla cima. Dall’Italia   invece la partenza di solito viene effettuata dall’Alpe d’Orimento, raggiungibile con la macchina dal Lago di Como.

Nelle serate estive, la ferrovia, il sabato (solamente il sabato), è operativa anche alle 19,15, e consente di raggiungere la vetta, dove viene servito un pranzo luculliano. Poi verso le 22,00 (se la serata lo consente) un astronomo svizzero, con una specula di notevoli dimensioni, illustra il cielo. Alle 23,15 si parte per rientrare a Capolago. Costo del piccolo viaggio notturno, complessivamente, circa 65 euro a testa. Chilometri percorsi (andata e ritorno) circa 113.

http://www.montegeneroso.ch/it/13/home.aspx

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Acciaio !


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Senza titolo-1 copia

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Sopra immagini dell’area ex Italsider di Bagnoli (Napoli)

Le acciaierie sono state il simbolo dell’industria pesante italiana e della classe operaia per almeno in secolo, come in molti altri luoghi produttivi europei. Nel 1994 chiude definitivamente l’Italsider di Bagnoli. Negli stessi anni è in corso lo smantellamento sistematico delle acciaierie Falck di Sesto San Giovanni. Nel 1985, a Sesto San Giovanni c’erano 12.750 lavoratori dipendenti Breda, Falck, e Magneti Marelli. Nel 1992, i dipendenti sono scesi a sole 700 unità. Ambedue i siti industriali soggiaciono, ad un apposita Legge per la loro riconversione, la n° 582 del 1996.

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Foto del T3 “La Pagoda” ex aree Falck a Sesto S.G. (Milano)

A Sesto, si trovano quasi improvvisamente concentrate, in pochi anni, un quantitativo enorme di aree dimesse. Quasi tutte le aree dimesse sestesi, vengono “valorizzate” dalle proprietà originarie (Falck, Magneti Marelli, Breda, ecc.) e vendute ad operatori immobiliari privati, e ad ogni passaggio di mano, aumentano di valore. Infatti le aree di si trovano in un punto nodale dell’area metropolitana milanese, altamente infrastrutturata. Alcune aree vengono parzialmente recuperate (PII ex Marelli), altre come al esempio la riqualificazione delle aree Falck, stentano ad avviarsi.

L’obiettivo a Napoli è diverso, si punta al recupero di Bagnoli, anche per bilanciare il forte inquinamento subito per decenni dalla popolazione locale, Per altro Bagnoli è stata un paradiso stretto fra Nisida e Capo Miseno, uno dei posti, in passato, più belli del mondo, affacciato su Ischia e Procida, che ancora oggi conserva un suo grande fascino. L’amministrazione pubblica qui interviene direttamente, quale proprietaria dell’area, ed attua un piano di riqualificazione

La legge per la riqualificazione delle acciaierie dimesse di Bagnoli e Sesto San Giovanni  è la stessa , ma i metri cubi da costruire, nel corso del tempo, sono cresciuti a dismisura, più a Sesto però, che a Bagnoli.

Viene quindi logico chiedersi, perché quello che si fa usualmente all’estero, ed in merito l’area della Ruhr (in Germania) docet, non si riesce a fare nella penisola italica? Nasce quindi il sospetto che questa “impasse” serva, proprio, laddove l’operatore è pubblico, a mungere denaro di finanziamenti pubblici europei, oppure laddove l’operatore è privato, a fare aumentare in maniera esponenziale il valore immobiliare delle aree.

Mentre a Sesto San Giovanni è la stessa amministrazione di centrosinistra, che in un momento di crisi dell’edilizia, “sostiene” gli operatori privati, con il tentativo (riuscito) di localizzare nelle ex Falck la così detta “Città della Salute”; a Bagnoli, dopo che per anni si sono dilapidati capitali pubblici (italiani ed europei), creando edifici male gestiti e già degradati, si partorisce un “topolino”, il concorso di idee per delle panchine da collocarsi nella “Porta del Parco”, dal titolo “Astipe ca ritrouve”.

Concorso di idee, aperto a tutti, dove a fronte della produzione di progetti ed addirittura modelli per panchine, con materiali da riciclo, si corrisponde al vincitore, un premio esiguo, direi micragnoso e svilente qualunque professione creativa, di 1.000 euro, al secondo classificato un corso per sommozzatore, ed al terzo una felpa, una borsa da palestra ed un libro. Organizzatrice, la società “Bagnoli Futura Spa”, la società di trasformazione urbana (STU) costituita nel 2002, tra il Comune di Napoli (90%), la Provincia di Napoli (2,5%) e la Regione Campania (7,5%).

Quindi due realtà molto simili, con modelli di gestione della loro riqualificazione molto diversi, e con percorsi molto dilatati nel tempo, eppure ambedue, in una situazione dove i cittadini, sono completamente succubi di scelte, spesso, troppo spesso, calate dall’alto.

Quale “Futuro” possano avere delle aree dismesse, così “maltrattate”, viene logico chiederselo. Soprattutto il “quando” inquieta parecchio, così come il tema “scottante” delle bonifiche dei terreni.

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La storia di Bagnoli Futura

Il sito web  di Bagnoli Futura

UN VIDEO SU COME DOVEVA (E POTREBBE) ESSERE BAGNOLI

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Bagnoli “Città della Scienza” – Pica Ciamarra Associati  (1996/2006)

La Città della Scienza a Bagnoli

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Bagnoli “Porta del Parco” – Silvio D’ascia (2010)

Il sito web della Porta nel Parco

Articolo del 27 luglio 2012, tratto dal “Repubblica” sull’inaugurazione della Porta del Parco a Bagnoli

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Bagnoli “Acquario Tartarughe” – AA.VV. (2011)

Articolo  sull’Acquario delle Tartarughe di Bagnoli

Articolo sulla gestione dell’acquario delle tartarughe

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