F. L. Wright – Hyde Park (Chicago) – Robie House – 1910 (Sopra)

Frank Lloyd Wright – Casa e Studio ad Oak Park (Chicago) – 1909 

Frank Lloyd Wright – Museo Salomon R. Guggenheim (New York) – 1959 

Scrive il grande architetto america  Frank Lloyd Wright nell’introduzione del suo libro “La Città Vivente” (Einaudi 1966): “Quando una grande quercia sta per morire, alcune foglie di un verde giallastro appaiono sui rami piú alti. La stagione seguente la maggior parte della corona superiore dell’albero è gialla; l’anno dopo i rami in alto rimangono senza foglie. Dopo diverse stagioni successive diciamo che l’albero è secco. Ma per molti anni ancora lo scheletro dell’albero inaridito rimane eretto e segna il cielo col suo profilo scuro come se nulla fosse avvenuto. Infine, marcito alla radice, inutile, la struttura greve alla sommità, precipita. Ma anche cosí lo scheletro pesante giace a lungo spezzato sul suolo. Occorrono molti anni prima che si tramuti in humus e nasca l’erba e che forse da una o due ghiande abbiano origine altre querce. Quel che per la grande quercia furono la linfa e le foglie è per un popolo una sana estetica.”

Il grande Frank Lloyd Wright, magico artefice di quell’architettura “organica”, che è un pò un’occasione persa, “dimenticata” per tutta la disciplina, ci da in questo scritto, un’ennesima traccia da seguire affinchè si possa tornare ad un equilibrato rapporto tra uomo, costruito :  l’estetica.  La sua idea di architettura rifuta la mera ricerca estetica fine a sè stessa, o il semplice  atteggiamento progettuale superficiale, come ben si evince dalla metafora dell’albero. L’architettura dovrebbe essere indipendente da ogni imposizione esterna contrastante con la natura dell’uomo. La progettazione architettonica deve creare un’armonia tra l’uomo e la natura. Così non sarà, morto Wright, sarà infatti, proprio l’estetica (non quella organica pregna di contenuti ed in perfetto allineamento con la storia della natura dell’uomo), a caratterizzare per i decenni successivi a questo scritto, e fino ad oggi, l’architettura americana.

Cosa è quindi, allo stato attuale, l’architettura di un luogo, gli Stati Uniti, che è una nazione ed una società in continua trasformazione? L’architettura è l’anima stessa di questo paese, come lo è la natura. Qui’ si costruisce, anche per competere con la natura, che spesso è ancora molto forte e soverchiante le attività umane (ma dove non lo è con il surriscaldamento dell’atmosfera terreste). L’architettura presuppone, un’evoluzione continua e benchè talvolta si possono verificare delle rivoluzioni, la matrice estetica (che è anche quella comunicativa principale), su cui si lavora è quasi sempre la stessa, il “limite esterno”, che attua la delimitazione di uno spazio “termico” atto a garantire la sopravvivenza dell’uomo su questo pianeta, indipendentemente dai “capricci” della natura. Quello che una volta era il “luogo della composizione architettonica”, oggi è sempre più una “pelle scultorea” che funge inevitabilmente da vero e proprio “marchio d’immagine”.

Se prima l’estetica, nell’architettura americana era anche “contenuti” oggi è sempre più solamente un’immagine, destinata a un rapido invecchiamento. La tecnologia, i materiali, per definire questo limite, sono finalizzati a creare uno “stupore estetico”, che fanno parte dell’imboscata mediatica, con cui nascono e si definiscono le poetiche delle archistar. Un “bliz estetico” però destinato a durare poco, ed a rinnovarsi di continuo. Insomma l’architettura americana attuale, non è fatta per durare, ma per essere continuamente manutenuta, pulita, spazzolata, riverniciata, ecc.. Il tutto con dei costi, anche per l’ambiente, “folli”, anche quando si parla di edifici sostenibili. L’architettura americana attuale è ancora perfettamente nel solco suicida che portò alla “crisi dei subprime”, così come lo è l’economia americana. Considerazioni in parte estendibili a tutto il mondo occidentale. Non a caso, proprio nel terzo trimestre del 2012, l’economia americana ha ripreso a crescere, e trainata soprattutto dal settore edile, a consumare suolo. Presto sarà così per tutto l’Occidente, sarà l’ennesima fatua “fiammata”. Forse l’ultima.

Ecco quindi, che le parole di accettazione del secondo mandato, del Presidente Barak Obama : “Il meglio deve ancora venire”, appaiono anche profetiche per la disciplina  dell’architettura americana. Speriamo sia soprattutto un “meglio” che contempli una profonda rivisitazione dei contenuti e degli obbiettivi, magari dando un giusto peso alla parola “decrescita”, con cui prima o poi tutto il mondo occidentale, ed anche l’architettura,  dovrà confrontarsi, volente o nolente. L’architettura deve ripensare il proprio modello di sviluppo, e quindi la propria estetica,  in America, come in Italia, ed in tutto il mondo. Vanno ripensati i criteri stessi della crescita urbana fin quì utilizzati. Non si tratta di porre un limite alla crescita urbana, all’edilizia, ma di ottimizzare le strategie atte a contrastare il consumo di suolo e l’inquinamento, attuando un nuovo modello di gestione del territorio.

Forse bisogna anche ritornare a coltivare ed a piantare querce, le cui ghiande, per millenni sono state cibo per lo stomaco degli esseri umani, ed anche per la loro mente.

Sopra il filmato “5 minuti di recupero” Un’occasione per ripensare la crescita urbana

F.O. Gehry – Jay Prizker Pavillion – Millenium Park (Chicago)

Asymptote – 166, Perry Street (New York) 

Morphosis – Cooper Square, 41 (New York) 

The Crown Fontain – Jaume Plensa – Millenium Park (Chicago) 

Sanaa – Art Museum , Bovery 235 (New York)

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