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Riflessioni sui nuovi media

Paesaggi dello spazio pubblico


Il paesaggio fisico storico esperienziale e rappresentativo, più abituale della vita collettiva nell’Antropocene, è ancora ovviamente lo spazio pubblico, il cui termine, ha contenuti che necessariamente devono essere scomposti, per non ridurlo esclusivamente ad una banale dicotomia storica tra pubblico e privato (piazze, vie, rotonde, parchi, ecc.).

Già Aristotele nel IV secolo a.C. ha affermato la naturale tendenza dell’essere umano alla socialità. Siamo per genia, portati a stare in contatto l’uno con l’altro, questa “contiguità” addirittura è parte essenziale del definirsi della nostra identità.

E’ quindi indubbio, ed acclarato da sempre, il valore sociale dello spazio pubblico, e della sua importanza politica, culturale ed economica.

Lo spazio pubblico è una necessità umana, e la telematica, l’informatica pur insinuandosi in esso, e nella vita contemporanea, non sembrano, per ora, in grado di adattare questo paesaggio, destrutturandolo, a livelli d’informazione e di accessibilità diversi.

Nemmeno “Second Life”, il mondo virtuale (pubblico/privato) elettronico digitale online lanciato nel 2003 dalla società statunitense Linden Lab, è riuscito ad essere un’alternativa allo spazio pubblico reale. Ad un’iniziale successo, la piattaforma dal 2013 ha progressivamente perso utenti (avatar).

I vari social network: Facebook, Twitter, Instagram, nonostante i numeri notevoli degli utenti iscritti, sembrano incapaci di superare il “chiacchiericcio da pollaio”, la “violenza verbale”, la “critica gratuita”, lo sghignazzo”, per diventare degli spazi pubblici di vero dibattito ed incontro sociale. Questi “palcoscenici liquidi” hanno però determinato il collasso definitivo delle sfere sociali classiche: famiglia, colleghi, amici, eccetera. Ciò sta producendo una progressiva ulteriore frammentazione del pubblico e delle sue liaison con il mondo virtuale. L’esempio più concreto è: piazza/mercato = internet/vendite on-line.

La stessa fusione di alcune di queste piattaforme in “Meta”, voluta dal fondatore di Fb Mark Zuckerberg, per superare il calo di iscritti, sembra non in grado di superare questa impasse. Meta non si limiterà a connettere le persone ma punterà al cosiddetto Metaverso, un mondo virtuale nel quale proiettare la nostra identità digitale. La promessa del fondatore della società, è che trasformeremo la nostra “casa” (privata) in un luogo “aumentato” (semi-pubblico) nel quale i nostri amici si materializzeranno davanti ai nostri occhi ovunque essi siano, in cui lavoreremo come fossimo in ufficio, anzi meglio, dove faremo sport o shopping, ed acquisiremo cultura, senza soluzione di continuità.

Oggi possiamo acclarare che nella realtà contemporanea, è in atto una progressiva degenerazione dello spazio pubblico, reale, fisico, di una sua costante perdita di appeal, e contemporaneamente di una sua “ibridazione on-line”, dove la separazione storica, tra spazio pubblico e spazio privato, è ormai ridotta ai minimi termini, o forse già più non esiste.

Storia breve, di una genesi

All’origine “pubblico”, era tutto il Pianeta Terra, in quanto bene comune, a disposizione di tutti gli esseri viventi (animali e vegetali) che qui si sono evoluti, per: abitare, viverci e riprodursi. Poi noi Sapiens, scesi dagli alberi, dopo un lungo periodo di nomadismo, evolvendo, abbiamo incominciato a perimetrare, recintare ed ordinare la superficie terrestre, per coltivare, per produrre alimenti ed energia, per moltiplicarci, rendendo “privati” pezzi sempre più grandi di questo bene comune.

La specie Homo Sapiens, a cui apparteniamo, ha velocemente identificato tutto l’ambiente planetario come, “spazio esclusivamente suo”, eleggendolo ad ambito di azione, a cui appartengono o si riferiscono i diritti o gli interessi di una collettività dominante civilmente ordinata, in continua esponenziale crescita.

L’ambiente naturale, della biosfera planetaria, è stato, nel corso del tempo, modificato, assoggettato all’evoluzione ed alla moltiplicazione selettiva della specie umana (con finalità di puro sfruttamento); la quale specie, ha precise responsabilità, molto evidenti oggi, rispetto all’inquinamento di: aria, acqua, terra: al consumo di suolo (città, agricoltura intensiva, infrastrutture) ed al conseguente cambiamento climatico planetario.

Ancora oggi, il paesaggio fisico storico, esperienziale e rappresentativo, più abituale della vita collettiva nell’Antropocene, è ovviamente questo “bene comune”, il cui termine, ha contenuti che necessariamente devono essere scomposti, per non ridurlo esclusivamente ad una banale dicotomia storica tra pubblico e privato, tra naturale ed artificiale.

Già Aristotele nel IV secolo a.C. ha affermato la naturale tendenza dell’essere umano alla socialità. Siamo per genia, portati a stare in contatto l’uno con l’altro, questa “contiguità” addirittura è parte essenziale del definirsi della nostra identità. Siamo dal punto di vista fisico, meticci, costruiti, mischiati, con il materiale genetico di altri. Nasciamo alimentandoci del sangue di nostra madre; ci alimentiamo con la “materia” di altri esseri viventi. La stessa vita planetaria è già mescolanza di: “infinite altre specie, che si sono date appuntamento nel nostro corpo”.

E’ indubbio, ed acclarato da sempre, il valore sociale, d’incontro, dello spazio pubblico, e della sua importanza politica, culturale ed economica per l’uomo. Lentamente ci siamo impossessati del “bene comune planetario”, riempiendolo di: contenitori, infrastrutture, impianti, natura antropizzata, ecc.; addirittura rinominandolo per farlo diventare “spazio pubblico”, supporto, “esclusivamente nostro” in cui dipanare la nostra vita di specie dominante.

Eppure, questo “spazio pubblico” in senso universale, che continuamente modifichiamo, mangiamo, distruggiamo, ci condiziona e ci modifica. Nella materia carnale e soprattutto nella testa. Come scrive Emanuele Coccia nel suo libro “Metamorfosi”[6]: “La vita non è che un’unità cosmica che stringe la materia della Terra in un’intimità carnale. Siamo tutti carne della stessa carne, indifferentemente dalla specie cui apparteniamo”.

Spazio pubblico e Natura

La natura (L’ecosistema terrestre, il bene pubblico planetario condiviso) non è un “prodotto” umano; la specie umana può solo tentare di arrivare a capire, e modificare, la natura, attraverso la cultura. In tal senso la banca dati del World Wide Web, ci consente, con l’ausilio dei computer, di comprendere, attraverso una “memoria culturale” la continua metamorfosi dei saperi più diversi: dalla zoologia alla filosofia, dalla biologia alla linguistica, dalla botanica alla letteratura, dall’architettura all’astrofisica, dalla genetica all’arte. Ne risulta una visione in cui l’essere umano stesso, secondo Coccia, è una specie di “zoo ambulante”, un “Arlecchino” frutto ed espressione di una forma di vita più vasta e magistralmente intimamente interconnessa.

Lo spazio pubblico, in cui si muove questo “Arlecchino” è però una necessità tipicamente umana, e la telematica, l’informatica pur insinuandosi in esso, e nella vita contemporanea, non sembrano, per ora, in grado di adattare questo paesaggio, destrutturandolo, a livelli d’informazione e di accessibilità diversi.

Lo abbiamo visto bene tutti durante la “clausura” pandemica, dove l’isolamento, la mancanza di socialità protratta per lungo tempo, ha portato conseguenze psicologiche, su vaste fasce della popolazione, e soprattutto sui giovani. La stessa necessità di applicare in maniera diffusa lo smart-working (in italiano: lavoro agile), ha fatto cambiare completamente gli orari di uso delle città, ed i riti di frequentazione delle persone, costrette a vedersi ed a risolvere i loro necessari incontri, mediante l’utilizzo di piattaforme on-line: Meet, Zoom, Teams, eccetera. Soprattutto l’isolamento pandemico, ci ha indirizzati ad acquistare su piattaforme dedicate, come Amazon, o direttamente on-line dai produttori. Salvando molte attività commerciali, che velocemente hanno implementato o ampliato la loro presenza on-line. Però molti negozi, luoghi di arricchimento e mediazione sociale, proprio dello spazio pubblico, sono stati costretti a chiudere per mancanza di utenti, di fatto modificando il paesaggio pubblico urbano.

Chiusi in casa, abbiamo tutti sperimentato appieno, e modificato, le nostre case (private) per adattarle a queste nuova situazione, per lavorare a casa, per studiare, eccetera. Le nostre abitazioni sono diventate lo sfondo di collegamenti on-line interminabili. Le piazze, le vie, improvvisamente, per imposizione legislativa sanitaria, hanno acquisito una “vuotezza” raramente sperimentata prima. Anche durante gli anniversari istituzionali legati alla memoria di una Nazione.

[fig.1] Piazza del Duomo a Milano il 25 aprile 2020, durante la pandemia (Fonte: Foto dell’autore).

[fig.2] Piazza del Duomo il 25 aprile 2022 (Fonte: Foto dell’autore)

Pandemia: ridefinizione del confine tra pubblico e privato

Gli anni della pandemia hanno determinato una mutazione profonda nelle nostre relazioni, nel modo di lavorare, nella maniera di rapportarci con la realtà “fisica”. E lo spazio pubblico, per “stare insieme” che è la città tutta, o un teatro, o addirittura un parco, hanno subito una forte mutazione. Lo spazio pubblico, è stato per anni gravato da provvedimenti sanitari restrittivi, ma oggi, con un allentamento del controllo sanitario, in atto, conseguente alla riduzione della circolazione virale, gli spazi pubblici (piazze, spiagge, discoteche, teatri, raduni, concerti, ecc.) stanno riacquistando il loro ruolo sociale, ante-pandemia.

Nemmeno “Second Life”, il mondo virtuale (pubblico/privato) elettronico digitale online lanciato nel 2003 dalla società statunitense Linden Lab, è riuscito ad essere un’alternativa allo spazio pubblico reale. Ad un’iniziale successo, la piattaforma dal 2013 ha progressivamente perso utenti (avatar).

I vari social network: Facebook, Twitter, Instagram, nonostante i numeri notevoli degli utenti iscritti, sembrano incapaci di superare il “chiacchiericcio da pollaio”, la “violenza verbale”, la “critica gratuita”, lo sghignazzo”, per diventare degli spazi pubblici di vero dibattito ed incontro sociale. Questi “palcoscenici liquidi” hanno però determinato il collasso definitivo delle sfere sociali classiche: famiglia, colleghi, amici, eccetera. Ciò sta producendo una progressiva ulteriore frammentazione del pubblico e delle sue liaison con il mondo virtuale. L’esempio più concreto è nell’antinomia: piazza/mercato = internet/vendite on-line.

La stessa fusione di alcune di queste piattaforme in “Meta”, voluta dal fondatore di Fb Mark Zuckerberg, per superare il calo di iscritti, sembra non in grado, per ora, di superare questa impasse. Meta non si limiterà a connettere le persone ma punterà al cosiddetto Metaverso, un mondo virtuale nel quale proiettare la nostra identità digitale. La promessa del fondatore della società, è che trasformeremo la nostra “casa” (privata) in un luogo “aumentato” (semi-pubblico) nel quale i nostri amici si materializzeranno davanti ai nostri occhi ovunque essi siano, in cui lavoreremo come fossimo in ufficio, anzi meglio, dove faremo sport o shopping, ed acquisiremo cultura, senza soluzione di continuità. Nel Metaverso, potremo acquistare o affittare “spazi virtuali privati non tangibili”, da ritagliare nel Metaverso (pubblico?), in cui costruire case, ambienti, gallerie, ecc. con degli “architetti digitali”. Magari acquistare questi “spazi virtuali privati non tangibili”, con criptovalute (tipo BITCOIN), in cui collocare/esporre/commercializzare, degli NFT opere d’arte digitali. NFT che significa non-fungible token (gettone non fungibile o gettone non riproducibile), cioè è un tipo speciale di token, che rappresenta l’atto di proprietà e il certificato di autenticità scritto su catena di blocchi di un bene unico (digitale o fisico).

Si genera così uno spazio parallelo a quello fisico; uno spazio virtuale né pubblico, né privato, Uno spazio n cui ritrovarsi come specie.

Infatti, se di fatto, in diluizioni infinitesimali di miliardesimi di DNA, siamo tutti imparentati “fratelli e sorelle”, costituiti in una rete sociale, che si è ritagliata nell’ecosistema planetario, con famelica bramosia spazi pubblici/privati, ad uso esclusivo, come abbiamo visto in precedenza. Questi spazi fisici, sempre più grandi, sono finalizzati ad “ospitare e sfamare” numeri di individui in continuo esponenziale aumento; ma il virtuale, il Metaverso, non consente di produrre cibo ed energia, per “sfamare” individui atti ad una crescita infinita.

Si crea così, un nuovo confine (memoria del recinto/muro), come “limite” tra reale e virtuale. Dove però i significati di “pubblico” e “privato” tendono ad “ibridarsi”, a confondersi.

In architettura la facciata di un edificio, sia esso pubblico o privato (con i suoi materiali, i suoi colori, la sua composizione, ecc.) stabilisce un limite/comunicazione con lo spazio pubblico, sia esso: piazza, via, parco, o quant’altro, e l’io privato degli utenti. E lo stesso spazio pubblico interagisce con gli utenti, attraverso le caratteristiche di finitura, di segnaletica, di arredo, eccetera, degli stessi.

In questo contesto, lo “spazio pubblico”, tende a diventare (nel convenzionamento tra pubblico e privato), sempre più spesso, uno spazio che totalmente pubblico non è. La cessione di spazi pubblici, nelle grandi trasformazioni urbane (piazze, verde, ecc.), ma non solo, diventa una promessa fatta ai cittadini (nella liaison tra politici/amministratore, ed immobiliaristi sempre più voraci) in cambio di “eccessi volumetrici”, ma che nella realtà si traduce soprattutto in spazi che potremmo definire “di solo uso pubblico”. Questi spazi, non più privati, né completamente pubblici, vengono convenzionati e gestiti per decenni, sia come manutenzione, che per gestione degli spazi (eventi, sicurezza, ecc.), dal privato, che ne gode dal punto di vista immobiliare, facendo affacciare su questi “spazi nobili” i propri volumi, che così aumentano ulteriormente di valore.

Il gestore pubblico, non in grado di assumere un ruolo direttorio, manageriale ed economico di rilievo, nella conservazione di questi spazi, soggiace a questa condizione, che è ormai una consuetudine.

Da spazio pubblico a spazio di uso pubblico

In merito a questa mutazione, un caso emblematico lo si trova a Milano, nella trasformazione urbana Garibaldi/Repubblica/Porta Nuova. Il progetto, approvato nel 2004, dopo un iter urbanistico/immobiliare risalente al 1958, è stato curato dall’imprenditore immobiliare statunitense Hines e dalla sede italiana Hines Italia Sgr. Frutto di un convenzionamento innovativo per l’Italia, tra amministrazione pubblica ed operatore privato proprietario delle aree. In questo masterplan, il parco pubblico, realizzato da Hines Italia a scomputo oneri, detto “Biblioteca degli Alberi – BAM” (progetto: studio olandese Inside Outside di Petra Blaisse) è emblematico di questa assurda condizione dello spazio pubblico. Dal 5 luglio 2019 la Fondazione Riccardo Catella gestisce, dal punto di vista tecnico e culturale, il parco pubblico BAM, Biblioteca degli Alberi Milano. Per gestire al meglio il calendario del Parco mantenendone rigogliose, sicure e pulite le aree verdi, tutte le iniziative sono da allora comunicate e concordate con la Fondazione stessa. Nella BAM, anche la miscela floreale, che caratterizza i parterre di questo parco, viene decisa dal privato, per ottimizzare la manutenzione e la resa scenica.

[fig.3 e fig.4] Immagini di alcuni parterre della BAM, durante la fioritura primaverile (Fonte: Foto dell’autore)

Lo stesso vale per piazzetta Liberty (progetto: studio inglese Foster + Partners), sempre a Milano, un altro “spazio in uso pubblico”, dove addirittura il sottosuolo è di proprietà privata (Apple), ed anche qui tutto avviene esclusivamente per convenzionamento, sotto la regia esclusiva del privato. L’accordo di convenzione, prevede che Apple, oltre alla manutenzione ed alla sicurezza della piazza, dovrà organizzare ogni anno almeno otto eventi pubblici gratuiti di alto profilo culturale e sociale, concordati con l’Amministrazione e proporre al Comune almeno quattro ulteriori eventi l’anno.

[fig.5] Piazzetta Liberty a Milano il 15 maggio 2020 (Fonte: Foto dell’autore).

[fig.6] Piazzetta Liberty il 15 maggio 2022 (Fonte: Foto dell’autore)

Eppure, questi “spazi”, vengono percepiti dagli utenti, grazie al marketing “spinto” di eventi prestigiosi in essi realizzati, ai giornali, alla rete ed ai social che ne diffondono le immagini, come se fossero delle entità spaziali esclusivamente pubbliche. Cosa che nella realtà non sono, essendo il frutto di un compromesso, di una convenzione, cui non corrisponde più una chiara definizione terminologica tra ciò che è “pubblico” e ciò che è “privato”.

Sempre nell’Area Metropolitana di Milano, nei comuni di Rho/Pero, è in atto l’operazione immobiliare “Mind”, la riqualificazione dell’ex Area per Expo 2015 (che prima era un terreno agricolo), che è la più grande liaison, tra pubblico e privato, in corso: 510 mila metri quadrati di nuovi edifici, che ospiteranno oltre 40 mila utenti, per un progetto da 2 miliardi di euro. Sarà soprattutto terziario (circa 200 mila mq.), con l’arrivo, presunto, di grandi aziende come Novartis, Bayer, Glaxo, Bosch, Abb, Ibm, eccetera. Poca la residenza (63 mila mq.) di cui 9 mila metri quadrati di residenze di alto livello, e 30 mila mq. di social housing (case a prezzi contenuti). A ciò si aggiungono altri 54 mila mq. di studentati (residenze per studenti). Completano il progetto 16 mila mq. di spazi commerciali, ma senza grande distribuzione, e 7 mila mq. di hotel. Il tutto gestito dai privati di Lend Lease insieme alla società pubblica proprietaria delle aree, Arexpo.

Investimenti previsti: 2 miliardi pubblici e 2 miliardi privati. Per sviluppare il progetto e “valorizzare” almeno 250 mila mq, Lend Lease verserà ad Arexpo 671 milioni di euro, in cambio di una concessione che durerà 99 anni. Altri 230 mila mq saranno “valorizzati” direttamente da Arexpo, che conta di ricavarci 130 milioni, o vendendoli a Lend Lease o direttamente a privati. Oltre a tutto ciò, sull’area è già stato edificato, ed in corso di completamento, anche un ospedale, l’ortopedico Galeazzi, che pagherà ad Arexpo 25 milioni per i 50 mila mq ottenuti.

Ma ciò che renderà credibile e realizzabile l’operazione “Mind”, facendo da attrattore per le aziende hi tech e big pharma, sarà il trasferimento sull’area Expo delle facoltà scientifiche dell’Università Statale (150 mila mq., costo ipotizzato 380 milioni), oltre al più piccolo centro di ricerca Human Technopole su genoma e big data, che ha già occupato Palazzo Italia e si amplierà ad alcuni edifici a ovest dell’Albero della Vita.

Secondo il progetto Lend Lease, 460 mila metri quadrati dell’area saranno occupati da un parco pubblico. Ma per conseguire questa cifra si devono sommare anche i canali, l’anello esterno con i relativi canali, l’arena per grandi eventi, la Cascina Triulza e aree come il “decumano” e il “cardo” di Expo, che saranno in realtà trasformati in viali pedonali alberati, su cui dovranno comunque transitare automezzi per i rifornimenti e che saranno creati sopra la piastra “impiantistica” di cemento che impedisce la piantumazione di alberi ad alto fusto. I cittadini milanesi, nel 2011, hanno votato a favore (con risultato del 95,51%) al quesito di un referendum comunale consultivo, che impegnava a lasciare a parco tutta l’area verde che si sarebbe realizzata nell’area di Expo 2015[1]. Anche qui, il limite, tra cosa è pubblico e cosa è privato, seppur regolato da rigide convenzioni, sembra “labile” e potrebbe erodersi, senza nemmeno rispettare veramente il risultato del referendum pubblico consultivo espletato.

[fig.7] L’Ospedale Ortopedico Galeazzi in completamento nell’Area MIND (Fonte: Foto dell’autore).

[fig.8] L’intorno dell’ex Padiglione Italia oggi sede di Human Technopole (Fonte: Foto dell’autore)

[fig.9] L’area di Expo 2015 a Milano prima dell’intervento (Fonte: immagine del 2001 tratta da Google Earth).

Considerazioni finali

E’ chiaro che, in questa situazione “fluida”, tra una pandemia planetaria, ed una guerra, tra una crisi economica imminente, e la necessità di ristrutturare la maniera di vivere e di produrre, per salvare l’ecosistema planetario, i confini tra pubblico e privato, tenderanno sempre più a soffrire, ad essere labili e “virtuali”. Ci troviamo in una realtà sempre più ingannevole, in cui il Metaverso farà buon gioco a chi realizza spazi fisici, vendibili e praticabili virtualmente, in una loro “costruzione virtuale 3D” ancora prima che si posi a prima pietra. Microsoft ha recentemente annunciato che dal 2022 integrerà il Metaverso nella piattaforma Teams con una funzionalità chiamata Mash: gli utenti potranno creare un avatar con cui partecipare alle riunioni di lavoro

(già lo sfondo lo possiamo alterare per non fare capire dove siamo). Ciò anche per creare un ulteriore spostamento di confine tra reale e virtuale. Ci si prospetta una vera e propria vita senza mai alzarsi dal divano. Spazio “privato” e “spazio pubblico” (la via, la piazza, la città), che stanno lentamente ambedue convergendo, verso quel divano con sopra “noi”, il nostro corpo, la nostra carne, e davanti un terminale video.

Eppure, già di fatto, noi stessi, il nostro corpo, sono da sempre “materia pubblica”, essendo la nostra genia il frutto di una selezione (e di un sostegno sociale) in cui sono entrati in campo tutti gli esseri umani che sono stati presenti sul Pianeta Terra, fin dal primo uomo scimmia, e di tutto quello di cui ci siamo alimentati, sia per ricavare energia vitale, idee, progetti.

Oggi possiamo acclarare che nella realtà contemporanea, è già in atto una progressiva degenerazione dello spazio pubblico, reale, fisico, di una sua costante perdita di senso del “bene comune”, a favore di un appeal, sempre più pilotato e controllato (telecamere, ripetitori wi-fi, conta-utenti, ecc.), anche a causa della pandemia. E contemporaneamente ci, troviamo di fronte ad una sua “ibridazione on-line”, dove la separazione modulata e storica, tra spazio pubblico e spazio privato, come avveniva nelle città porticate di una volta, è ormai ridotta ai minimi termini, o forse già più non esiste.

Bibliografia

Veronica Barassi, I figli dell’algoritmo. Sorvegliati, tracciati, profilati dalla nascita. Luiss Press, 2021

Franco La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, 2020

Giancarlo De Carlo, La città e il territorio. Quattro lezioni, Quodlibet Habitat, 2019

Salvatore Settis, Teatro della democrazia. Cattedra Borromini 2014-2015, Mendrisio Academy Press, 2016

Massimo Cacciari, La Città, Pazzini Editore, 2004

Raymond Ledrut, Sociologia urbana, Il Mulino, 1969

Soliman


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Puo’, la luce, smaterializzare l’architettura per reinventarla ? Sembra di si, fino a farla diventare il supporto per racconti poetici e spettacolari in grado di coinvolgere decine di migliaia di spettatori. E’ quello che avviene ormai da qualche anno a Bressanone. La società francese “Spectaculaires – Allumeurs d’Images” grazie a sofisticatissime videoproiezioni animate di altissimo livello qualitativo, utilizzando le tecniche più avanzate di mapping, trasforma, la sera, il Palazzo Vescovile (Hofburg) di Bressanone, in un “incontro” tra architettura e video arte, stabilendo delle relazioni inusitate, curiose ed inaspettate. Relazioni che esaltano l’architettura, evidenziandola e disvelandola al meglio al comune spettatore, ma anche al cultore più sofisticato della disciplina. Piccoli e grandi, al di là della storia accattivante dell’elefante Soliman, vengono coinvolti dalla simbiotica espressione di luci, architettura e musica, in un racconto di circa mezz’ora, che ogni anno, attorno a Natale (in occasione dei mercatini), porta a Bressanone oltre 55.000 spettatori paganti. 

Raccontare storie, generare momenti sublimi, in luoghi, le architetture storiche, che testimoniano della trasformazione umana del paesaggio, e dell’intero pianeta, è un atto didattico estremamente importante che dà il senso del “transito terrestre” della specie umana. Nel bene e nel male.

Porre al centro l’architettura, e lo spettacolo che su di essa si proietta, per riunire un pubblico vasto attorno ad una storia comune, esaltando l’identità locale attraverso il divertimento. Fare del territorio e dell’architettura, l’epicentro dell’attenzione degli spettatori, troppo spesso “distratti” rispetto a queste tematiche. Sembrano i punti per un nuovo manifesto.

Qualcosa assolutamente da vedere e soprattutto da “percepire”, anche per riflettere su questa insolita, e stimolante liaison.

Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

Tokyo Imagine


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Tokyo Imagine è per costruttoridifuturo.com, sicuramente il padiglione/evento, più riuscito di questa Milan Design Week 2014. Mentre l’anno scorso il Padiglione Visconti (via Tortona 58)  all’ex Ansaldo era occupato “malamente”, quest’anno invece è li che si è insediata la grande performace dei designer nipponici. Sotto la guida attenta di Kenji Kawasaki, con l’apporto di Katsumi Asaba, e del comitato esecutivo costituito da Toshiuki Kita e da Shigeru Sato, sono riusciti i giapponesi a fare di questo spazio, qualcosa di particolare in grado di presentare in maniera ottimale lo stato dell’arte del design contemporaneo dell’area metropolitana di Tokyo, tra elaborazione della tradizione ed applicazione di tecnologie innovative ai prodotti.

Qui il PDF che presenta Tokyo Imagine 

Assolutamente pregevole il lavoro dello show designer Kimi Hasegawa (Velveta Design) e della Visual Art Director Asami Kiiyokawa. Un lavoro di squadra che palesa immediatamente qualità ed estrema concretezza. Tokyo Imagine presenta la creatività e la sofisticata tecnologia della città di Tokyo applicate al design, all’arte, al fashion d’avanguardia, alla musica, alle arti mediali e al cibo.

Questa stessa mostra/evento sarà poi presentata anche in settembre al Tent London – http://www.tentlondon.co.uk/ (Regno Unito) ed al prestigioso Design Miami – http://www.designmiami.com/ (U.S.A.) a Dicembre 2014. Insomma un padiglione pregevole e da non perdere, soprattutto nella parte giochi/multimedia, assolutamente strepitosa.

http://youtu.be/Hvq2JGrtKBk

Tra i designer più “prestanti” di Tokyo Imagine, segnaliamo : Tetsu Kataoka, Ryu Kozeki, Jun Fujiki, Hayashi Atsuhiro, Eiko Kasahara, Hikaru Yamaguchi.

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Il seminatore


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Il seminatore, non deve essere conformista. Il seminatore deve essere creativo. Chi progetta, sa chiaramente cosa intendo dire, ma anche chi insegna lo sa. Dare senso a quello che si fa, costituisce per l’insegnante ed il progettista accorto, l’unica maniera per garantirsi “sempre” un risultato. Esattamente come il seminatore, il quale piantando il seme nella terra, spera di conseguire, quale risultato finale, un frutto, perfetto, bello e sano. Ma il seminatore sa (come il progettista ed il docente), che quel piccolo seme, sarà alla fine, quello che dovrà essere, se la seminagione avviene nel momento dell’anno più opportuno, nel terreno più adatto. E poi se quel seme riceverà acqua e calore, luce e un pò d’amore, diventerà una pianta. La quale, pianta, è soggetta all’attacco di parecchie patologie, che dovranno essere costantemente tenute sotto controllo, monitorate, e respinte nella maniera migliore e più naturale possibile. Altra acqua, calore e luce, garantiranno a quella pianta (insieme all’accudimento che è anche amore per noi esseri umani), di fiorire. Se il fiore sarà casualmente impollinato da un insetto o dall’aria, si avrà un frutto, al quale necessiterà per maturare, altra acqua, calore e luce.

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Insomma, quasi sempre, se nasce da un seme, una pianta e poi un frutto, il risultato è il conseguimento di un “piccolo miracolo”, spesso dovuto alle capacità del seminatore (progettista o docente che sia), il quale deve essere “geniale”, uscire “fuori dagli schemi”, per poter garantire, con sapienza, ed accuratezza il risultato finale. Perchè è nell’orto che il seminatore, colto ed attento alla economia di gestione, al riciclaggio, al consumo di energia, dimostra quello che vale come costruttore di futuro. E’ nell’orto, luogo dell’eccellenza, che tutto si organizza intorno a tre elementi centrali : terra, acqua, sole. Come scrive Gilles Clèment nel superlativo libro : Breve storia del giardino – edizioni Quodlibet, 2011 : “Virtualmente nell’orto  non manca nulla: l’utile e il futile, la produzione e il gioco, l’economia e l’arte. L’orto attraversa il tempo e racchiude in sè il sapere….. Nelle campagne la parola giardino non designa altro che un orto, il resto è paesaggio; quando quest’ultimo è organizzato, si parla di parco”.

E poi ancora, un vero e proprio insegnamento, un percorso chiaro e facilmente intelligibile, da seguire,  per il seminatore : “La storia (ndr – dell’orto) ci parla poco del tempo – del tempo che passa, della durata, del tempo che consente l’impianto al suolo, dell’incontro fra gli esseri viventi, dell’ibridazione e della nascita dell’imprevedibile. La storia preferisce le forme e i grandi gesti architettonici che hanno lasciato una traccia sorprendente e indiscutibile del genio umano. Eppure è quì, nello spazio del tempo (ndr – nell’orto), che a mio avviso si delineano le questioni del futuro”.

E ciò è sempre vero, per un progetto, ma anche per un percorso didattico.

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Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

Un terremoto di libri


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Alcune sere fa, ero comodamente stravaccato sulla poltrona “Ardea” di Carlo Mollino (produzione Zanotta), che con molti sacrifici, io e mia moglie (anch’essa architetto) ci siamo acquistati venti anni fa, quando ci siamo sposati. Il mio soggiorno, come tutta la casa, è caratterizzato da una moltitudine di libri, oltre cinquemila, che nel corso del tempo, hanno costituito una biblioteca, che di fatto circonda le pareti di quasi tutti i locali, coibentandoli. Un vero e proprio ricettacolo di cultura, e di polvere, che solo grazie alla genialità dello “Swiffer Dusters 360°” riesce ad essere precariamente bonificato settimanalmente. Mentre elucubravo, cose folli, tra la veglia ed il dormiveglia, i miei “stanchi” neuroni si sono focalizzati su quella  “massa cartacea”, e fantasticando mi sono posto questo inesistente problema.

Se improvvisamente, dovesse esserci, che so, un terremoto, un incendio, un gigantesco  Tsunami (?), dovendo scegliere alcuni libri, prima di fuggire, tra i volumi di questa biblioteca, a me tutti cari, e che costituiscono “pezzi” della mia memoria e della mia storia personale, quali salverei dal disastro, dalla “ruina”?

Ecco che allora, vi sottopongo, questa mia scelta essenziale, fatta per un architetto, che in preda al terrore, deve scegliere, scappando da un appartamento posto al quinto piano (senza ascensore), alcuni strumenti essenziali (non molto pesanti) per la propria sopravvivenza  “culturale”. Sono dieci volumi, che stanno comodamente in una ventiquattro ore, del peso circa di due chili.

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Un libro, quello di Calvino, che potrebbe essere utilissimo per ricostruire qualunque cosa : un edificio, una città, una società, una vita.

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Un libro per apprezzare le “rovine” ed il senso del tempo ad esse intimamente correlato. E dopo una catastrofe, qualunque essa sia sarà uno strumento indispensabile.

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Una raccolta di scritti del grande pensatore italiano, che spaziano sul significato del progetto, nell’architettura, nell’arte, nell’urbanistica, nella società.

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Dopo una catastrofe, bisognerà, pensare ad un “mondo nuovo”, partire dal libello di Friedman, significherà risparmiare molto tempo per realizzare una maggiore compatibilità tra uomo e natura.

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Una miniera, in cui “scavare” quando si è disperati, per assicurarsi pezzetti di certezza, di cui LC era portatore sano.

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Un libro che è un vero e proprio “elogio della lentezza”, per una progettazione consapevole ed a misura d’uomo.

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E’ esattamente l’opposto del libro di Zumthor, sopra descritto. Giusto, giusto, per ritornare a cullare il sogno di quella modernità che una catastrofe (e la crisi di oggi) sembra negare.

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Un libro di “politica”, su come si deve vivere con gli altri. Una lezione di sopravvivenza, da un uomo centenario, che attendeva con serenità la morte.

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Andare alla velocità del suono, alla velocità della luce, e continuare a progettare, a vivere, con la giusta filosofia.

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Come sarà il nuovo paesaggio dopo la catastrofe ? Quì le istruzioni per farne l’epicentro della società umana.

E’ questa una lista, assolutamente personale, che ho operato in soli 35 secondi (visto che il disastro qualunque esso sia non dà tempo ai ragionamenti), probabilmente non condivisibile da molti. Comunque, l’esperimento, oltre a darmi una “botta di vita”, mi ha consentito di stabilire, che in maniera assolutamente inconscia, già avevo concentrato negli anni, in una zona precisa della biblioteca, i libri a me più cari. Libri che di fatto ad oggi riempiono un solo scaffale, lungo circa 90 centimetri.

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Biblioteca 3D


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“Costruire, significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne restera’ modificato per sempre; contribuire inoltre a quella lenta trasformazione che e’ la vita stessa delle citta’. Quanta cura, per escogitare la collocazione esatta d’un ponte e  d’una fontana, per dare a una strada di montagna la curva piu’ economica che e’ al tempo stesso la piu pura!…..Costruire un porto, significa fecondare la bellezza d’un golfo. Fondare biblioteche, e’ come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire.” Marguerite Yourcenar – Memorie di Adriano – pagg. 120 e 121 (Einaudi, 1963)

Per chi progetta,  possedere oggi una  biblioteca piena di libri (un granaio) non e’ piu’ sufficiente. Nell’epoca dell’informatica, della societa’ “fluida 2.0”, il lavoro degli architetti e’ profondamente mutato, divenendo preda di soliloqui creativi e di tempi compressi.  Non e’ piu’ l’epoca della china e della carta da lucido, in cui,  in tanti, l’uno vicino all’altro, si collaborava alla stesura ed alla formazione del progetto, condividendolo. Quello che una volta lo si faceva in cinque, oggi lo si esegue da soli. Bisogna tornare a “fare decantare” il progetto, a condividerlo, e per far cio’ ci vuole tempo. Ecco che il viaggio finalizzato (con degli ottimi compagni di viaggio) a trovare delle idee od a verificare quello che si sta facendo, diventa l’occasione per “dare tempo” al progetto, per tornare a “collaborare con la terra e con gli uomini”.

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La Svizzera, che ha sulla banconota da 10 franchi, il volto di Le Corbusier, e’ una sommatoria di luoghi, di edifici e di paesaggi, facilmente raggiungibili in giornata, da Milano,  in cui, nel bene o nel male, e’ possibile visionare, studiare e soprattutto apprezzare con tutti e cinque i sensi l’architettura moderna e contemporanea dei grandi architetti. Perchè quì, come in un granaio, si continuano ad ammassare opere di grande architettura : “…..ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”.

La nazione Svizzera, e’ la nostra biblioteca in tre dimensioni, una biblioteca fatta di edifici. Una biblioteca democratica, sempre aperta, disponibile per tutti. Finchè ci sarà energia e risorse, noi ci andremo, quando avremo bisogno di consultare qualcosa, o di fare “decantare” il tempo. Perchè il viaggio, è sempre parte di un buon progetto.

“L’universo (che altri chiamano la Biblioteca) si compone di un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, circondati da ringhiere bassissime. Da qualunque esagono, si vedono i piani inferiori e superiori: interminabilmente. La distribuzione delle gallerie e’ invariabile…… Quando venne proclamato che la Biblioteca comprendeva tutti i libri, la prima sensazione fu di stragrande felicita’. Tutti gli uomini si sentirono padroni di un tesoro intatto e segreto. Non c’era problema personale o mondiale la cui eloquente soluzione non esistesse in qualche esagono. L’universo era giustificato….” Jorge Luis Borges – Finzioni – pagg. 67 e 71 (Adelphi, 2003)

Quì sotto immagini della Biblioteca dell’Università di Lugano  – Architetti : Michele e Giorgio Tognola (1999)

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Urbanistica Netnografica (scenari)


La parola “Netnografia” è stata inventata dal sociologo  Robert Kozinets, che elabora questo metodo di analisi delle tendenze, all’interno dei percorsi di formazione teorica della Consumer Culture Theory  e del Marketing tribale. Di fatto “Netnografia” vuol dire applicare metodi di studio ed analisi dell’etnografia in internet.

Il metodo di analisi “Netnografico” è stato sviluppato, adottato e approfondito in Europa dal Centro Studi Etnografia Digitale (http://www.etnografiadigitale.it/chi-siamo/), diretto dai professori Adam Ardvisson e Alex Giordano. La “Netnografia” si configura come un metodo di ricerca qualitativa legato soprattutto allo studio della cultura di consumo online sia per finalità sociologiche che di marketing.

Con l’avvento del Web 2.0, Internet è divenuto il luogo preferito dai consumatori per scambiarsi informazioni su marchi e prodotti esprimendo valutazioni, critiche, modifiche d’uso, possibili miglioramenti e innovazioni per i brand e per i prodotti. In tale contesto, la metodologia di ricerca “Netnografica” riesce ad imporre tecniche di osservazione dirette e non intrusive delle conversazioni, in generale di tutto il passaparola generato online dall’utenza rispetto ad un argomento specifico, ad un brand o ad un prodotto. Da qui, si possono trarre anche delle informazioni utilizzabili, nel campo della pianificazione territoriale. Ad esempio, la lingua di dialogo utilizzata può definire dei punti di socializzazione on-line, dove “costruire” una nuova rete di luoghi di socializzazione.Oppure, il tracciamento dei cellulari dei ciclisti, può dare indicazioni in merito all’effettivo uso delle piste ciclabili di una città.

Esempio di Netnografia – Una mappa in crowdsourcing per i ciclisti di Berlino

http://www.societing.org/2012/09/dynamic-connections-una-mappa-per-i-ciclisti-di-berlino/

Quindi l’obiettivo principale dell’analisi “Netnografica” è quello di definire contorni netti attorno agli ambienti della rete in cui le popolazioni del web 2.0 si esprimono, al fine di raccogliere basi di dati qualitativi e oggettivi da tradurre in soluzioni utili a potenziare la propria offerta commerciale .

Le strategie di pianificazione urbana oggi possono beneficiare di queste nuove fonti di informazioni in tempo reale provenienti dai social network, che permettono di percepire le emozioni, le visioni, i desideri e le tensioni dei Cittadini. Utilizzando i dati in tempo reale, con particolare attenzione ai dati “inter-operabili” (che utilizzano formati aperti e con forte attenzione dedicata alle politiche e alle pratiche che rendono i dati accessibili al pubblico), si stanno aprendo scenari nuovi ed interessanti per l’innovazione dei progetti urbanistici e sociali (provvisori e permanenti) nelle nostre città.

La possibilità di ascoltare le idee, le visioni, le emozioni e soprattutto ascoltare le  proposte provenienti dai Cittadini, sia in modo esplicito ed anche in modo implicito, consentono di predisporre dei modelli di come usano le loro città, i loro luoghi di lavoro, i centri commerciali, i luoghi della socializzazione, ecc.. Social Network, tecniche di raccolta delle conversazioni, ci permettono di ascoltare in maniera continua il  pubblico dei Cittadini. La interconnessione costante, potrebbe definire meglio le nostre città i loro sistemi di trasporto, le infrastrutture, gli spazi architettonici, i quartieri, il verde.

 Immagine di Netnografia a Torino – Urban Sensing at NEXA Center for Internet and Society, Turin Polytechnic

“Le reti di rilevamento” possono creare, mediante l’applicazione di tecniche di analisi del linguaggio delle conversazioni,  uno “scenario” di dati acquisiti, permettendo ad organizzazioni, istituzioni, imprese e Cittadini di essere in grado di “leggere” la città, così come effettivamente descritta dai suoi utilizzatori .

Reti di sensori possono essere inclusi nello scenario di registrare i dati in tempo reale in materia di inquinamento, traffico e altre grandezze che danno forma agli aspetti ecologici, la vita sociale, amministrativa e politica della città. Mettendo insieme tutto questo, è possibile creare narrazioni “a più strati” sulla città, fatto che ci permette di leggere la città stessa in diversi modi, in base alle diverse strategie e metodologie. Soprattutto in grado di evidenziare come la città (attraverso i suoi Cittadini e per conto suo, con sensori) si esprime in materia di ambiente, cultura, economia,  trasporti, energia, politica.

Questo metodo per l’osservazione in tempo reale della città può essere definito come una forma di “antropologia della rete onnipresente”, basata sull’idea di una partecipazione diffusa e in una struttura di rete che può essere considerato come un “sistema esperto”. Nasce quindi uno scenario in cui il concetto di cittadinanza può essere reinventato, tendente verso una visione in cui il Cittadino è più consapevole e attivo, partecipando in tempo reale, alla conoscenza ed alla definizione della sua città.

Come scrive un noto Netnografo :  “Se mi permettete una forma retorica, direi che fare Netnografia focalizzandosi solo sui numeri o facendo solo una sintesi del contenuto è come capire cosa avviene in una piazza rimanendo con gli occhi chiusi. Si avvertono suoni indistinti e anche le parole diventano parte di questa massa indistinta di rumori. La Netnografia è capire cosa avviene in quella piazza restando con gli occhi aperti, guardando come interagiscono le persone tra di loro, analizzando il loro linguaggio non verbale e contestualizzando il contenuto delle loro conversazioni.”

Video intervista a Robert Kozintes – Esperto internazionale di Netnografia

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Terreno comune ?


Nell’epoca di internet, della società 2.0, dove anche i comici genovesi diventano delle “star politiche”, forse non ha molto senso andare di persona a visitare una mostra di architettura, come la Biennale di Venezia 2012, numero 13.

http://www.labiennale.org/it/architettura/mostra/mostra.html?back=true

Oggi, smanettando in internet, si possono raccogliere così tante informazioni in merito : link, video, immagini, interviste, che (forse) per chi, come me, conosce bene la bellissima città lagunare, non ha più senso affrontare il “caos” delle chilometriche esibizioni di progetti, la nausea da troppa informazione, e la frenesia di una folla multietnica ed acefala che infesta questi luoghi.

Quindi, una sana “ravanata” in rete, ci consente di avere un quadro ampiamente esaustivo, delle principali “occasioni” dell’evento 2012 in laguna. Il tutto risparmiandoci la fatica di un viaggio costoso ed impegnativo, soprattutto per i nostri piedi. L’asetticità del computer ci consente di  analizzare al meglio, questa tredicesima Biennale Architettura, che ha in David Chipperfield, il suo direttore.

Certo, quello che manca, a starsene a casa davanti al computer, è la bellissima “città morente”, che circonda il tutto, Venezia. Manca il senso che, mentre si progetta e si propone il futuro, ammassato a forza  in quei luoghi magici che sono l’Arsenale ed i Giardini, il passato, fuori, ci ricorda costantemente la morte. Un evento veramente democratico, destinato ad ogni cosa che insiste in questo universo. Un vero “Terreno comune”.

Il titolo dell’evento Biennale 2012 è “Common ground” (terreno comune), l’ennesimo tentativo di trovare un punto di incontro tra cose estremamente diverse, così diverse (anche per approccio progettuale e risultati) che forse non era il caso di accostare. Ecco quello che manca, è l’architettura, quella con la “A” maiuscola (come ormai succede da molti anni), questi tentativi “pietosi” e “pietistici” di trovare, per forza, un “terreno comune” tra arte, design, architettura, istallazioni, urbanistica, performance, video, ecc., mi sembra, qualcosa di forzoso e contemporaneamente di inutile. Inoltre se si considera, che la Biennale, ogni anno cresce sempre di più di dimensione, neanche pernottando a Venezia per mesi, si riuscirebbe a visionare tutto quanto con la dovuta dovizia.

Passerà, anche questa Biennale, passerà ! Per fortuna, fuori, nella città, la grande architettura (tra le tante soprattutto quella di Ignazio Gardella), bella ed ammalata, quasi “crollenta”, ci ricorda che questa disciplina, è soprattutto “costruzione”,  più che progetto. E fintanto che un’architettura, rimane sulla carta (o in rete), questa è come un futuro mancato……….non esiste!

Sotto : David Chipperfield (La mia Biennale)

Sotto : Gigon & Guyer (sul metodo)

Sotto : Cristina Monteiro – David Knight (l’architetto “alchimista” e “trasformista”)

Sotto : Norman Foster (spazio pubblico)

Sotto : Olafur Eliasson (arte, luce, design, “terreno comune”)

Sotto : Toyo Ito (architettura per una catastrofe)

Sotto : Alvaro Siza (La storia di una vita)

Quì sotto alcune immagini delle casa alle “Zattere” di Ignazio Gardella (1953-58)

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La condanna !


A Roma, al MAXXI, in questi giorni e fino al 2 aprile 2013, si tiene una mostra veramente molto interessante, assolutamente da non perdere. Sono infatti esposti,  un’ottantina di “plastici” d’architettura moderna e contemporanea, tra cui alcuni mai esposti. Una vera “chicca”, infatti vi si possono ammirare, in una scala perfetta, edifici di Aldo Rossi e di Massimiliano Fuksas, di Piero Sartogo e di Maurizio Sacripanti. Di quest’ultimo, sono addirittura esposti due modelli mai resi pubblici in precedenza, restaurati con molta cura.

http://www.fondazionemaxxi.it/2012/06/28/models-dalle-collezioni-del-maxxi-architettura/

Eppure, nonostante il modello, il “plastico”, costituisca la rappresentazione migliore per la comprensione di un’opera architettonica, da parte del grande pubblico, la “twittata” (che non è unica) sopra esposta, di cui ho camuffato volutamente l’autore per ovvi motivi di privacy (ma che ho verificato non essere architetto o esperto del settore), dimostra, che poi, in fin dei conti, non è proprio così. Oppure, con una lettura opposta, che la comprensione è stata così efficiente, da determinare, di fare di tutta l’architettura moderna e soprattutto dei suoi progettisti, un’unico gruppo di “merdacce” di cementificatori folli da “condannare per crimini di guerra”. Insomma in qualunque caso esiste un’evidente scollamento. A “noi architetti” la mostra del MAXXI appare come un piccolo gioiellino, da visionare e da studiare, valutabile sicuramente come un mezzo per facilitare l’approccio all’architettura colta ed intelligente, sia per i giovani studenti, che per il grande pubblico. Mentre, viceversa, proprio per il grande pubblico è un collezione di “crimini di guerra”. Appunto la guerra tra noi ed i Cittadini, che oggi hanno scoperto il paesaggio e la sua salvaguardia, e come capita spesso, si vestono improvvisamente del ruolo di sapienti censori, creando più danni che effettiva salvaguardia. Pensano, come molti, che per fare gli architetti, gli urbanisti ed occuparsi del paesaggio, basti poco o nulla, quattro letture “a go-go” in internet, alcune immaginette sacre di casette in legno o superecologiche, senza arte ne parte, molto simili all’isola che non c’è.

Mentre la disciplina dell’Architettura, dell’Urbanistica e quella del Paesaggio, sono complesse, necessitano di studio, di continuo aggiornamento, di osservazione, di decantazione. Sono insomma arti  (e scienze) faticose, sottili e colte, come la Musica, la Scultura. Non ci si può dedicare qualche ritaglio di tempo, ci si deve dedicare la vita. Insomma non sono per tutti e soprattutto in esse, non ci si improvvisa dall’oggi al domani.

Mi viene appunto in  mente, un mio lontano conoscente, un coetaneo, un informatico, che da oltre un annetto si è trasformato (come molti altri che si occupano di antipolitica) in uno “sparatore ad alzo zero” nei confronti degli architetti e dei paesaggisti, e di chiunque costruisca qualcosa, Probabilmente il suo ideale di mondo è un qualcosa dove non si costruisce nulla, dove non nascono più esseri umani, dove si decresce, dove si valorizza esclusivamente il mondo agricolo.  Ma è un Mondo per pochi, non certamente per gli oltre 7 miliardi di persone (dati fine 2011), che si incrementano di centinaia di migliaia di unità ogni giorno e di circa 80/90 milioni di persone ogni anno. Forse, per “gettare nel piatto” anche una provocazione, più che condannare la continua esponenziale cementificazione (che innegabilmente va ridotta) bisognerebbe ridurre la produzione di esseri umani su questo pianeta, per effettivamente salvaguardarlo per le generazioni future.

Per ritornare all’Italia, il nostro è un paese, dove i Cittadini, nella maggior parte, sono  “ignoranti” (nel senso più positivo della parola e cioè che ignorano) nell’architettura, nell’urbanistica, nel paesaggio, quindi condannare per crimini contro l’umanità, mi sembra veramente una corbelleria. Ci vorrebbe invece, un grande processo culturale collettivo dal basso, anti-accademico (senza docenti universitari ed amministratori), di condivisione di cultura in questi ed altri ambiti disciplinari. Magari a partire dalla musica, sembrerà strano, ma forse è l’arte che meglio restituisce i concetti mnemonici e subliminali di architettura e paesaggio, per poi passare all’arte pittorica e scultorea ed infine arrivare alla triade disciplinare : architettura, urbanistica, paesaggio. Invece, i più, organizzano convegni, giornate plurime di studi; banali eventi in cui si parla solamente dell’aria fritta e dell’acqua “calda”. Eventi dove “tecnici” se la cantano e se la suonano tra di loro, inanellando nel loro curriculum l’ennesimo convegno. Risulta quindi molto difficile raggiungere persone che nemmeno conoscono le architetture moderne, i progetti urbanistici, che si sono stratificati, nel corso del tempo, nel quartiere in cui abitano. Purtroppo il “posto delle fragole” non abita quì, nella cultura italica e nelle sue genti . E quindi “a morte gli architetti” (gli urbanisti, i paesaggisti) !

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