
Il paesaggio fisico storico esperienziale e rappresentativo, più abituale della vita collettiva nell’Antropocene, è ancora ovviamente lo spazio pubblico, il cui termine, ha contenuti che necessariamente devono essere scomposti, per non ridurlo esclusivamente ad una banale dicotomia storica tra pubblico e privato (piazze, vie, rotonde, parchi, ecc.).
Già Aristotele nel IV secolo a.C. ha affermato la naturale tendenza dell’essere umano alla socialità. Siamo per genia, portati a stare in contatto l’uno con l’altro, questa “contiguità” addirittura è parte essenziale del definirsi della nostra identità.
E’ quindi indubbio, ed acclarato da sempre, il valore sociale dello spazio pubblico, e della sua importanza politica, culturale ed economica.
Lo spazio pubblico è una necessità umana, e la telematica, l’informatica pur insinuandosi in esso, e nella vita contemporanea, non sembrano, per ora, in grado di adattare questo paesaggio, destrutturandolo, a livelli d’informazione e di accessibilità diversi.
Nemmeno “Second Life”, il mondo virtuale (pubblico/privato) elettronico digitale online lanciato nel 2003 dalla società statunitense Linden Lab, è riuscito ad essere un’alternativa allo spazio pubblico reale. Ad un’iniziale successo, la piattaforma dal 2013 ha progressivamente perso utenti (avatar).
I vari social network: Facebook, Twitter, Instagram, nonostante i numeri notevoli degli utenti iscritti, sembrano incapaci di superare il “chiacchiericcio da pollaio”, la “violenza verbale”, la “critica gratuita”, lo sghignazzo”, per diventare degli spazi pubblici di vero dibattito ed incontro sociale. Questi “palcoscenici liquidi” hanno però determinato il collasso definitivo delle sfere sociali classiche: famiglia, colleghi, amici, eccetera. Ciò sta producendo una progressiva ulteriore frammentazione del pubblico e delle sue liaison con il mondo virtuale. L’esempio più concreto è: piazza/mercato = internet/vendite on-line.
La stessa fusione di alcune di queste piattaforme in “Meta”, voluta dal fondatore di Fb Mark Zuckerberg, per superare il calo di iscritti, sembra non in grado di superare questa impasse. Meta non si limiterà a connettere le persone ma punterà al cosiddetto Metaverso, un mondo virtuale nel quale proiettare la nostra identità digitale. La promessa del fondatore della società, è che trasformeremo la nostra “casa” (privata) in un luogo “aumentato” (semi-pubblico) nel quale i nostri amici si materializzeranno davanti ai nostri occhi ovunque essi siano, in cui lavoreremo come fossimo in ufficio, anzi meglio, dove faremo sport o shopping, ed acquisiremo cultura, senza soluzione di continuità.
Oggi possiamo acclarare che nella realtà contemporanea, è in atto una progressiva degenerazione dello spazio pubblico, reale, fisico, di una sua costante perdita di appeal, e contemporaneamente di una sua “ibridazione on-line”, dove la separazione storica, tra spazio pubblico e spazio privato, è ormai ridotta ai minimi termini, o forse già più non esiste.
Storia breve, di una genesi
All’origine “pubblico”, era tutto il Pianeta Terra, in quanto bene comune, a disposizione di tutti gli esseri viventi (animali e vegetali) che qui si sono evoluti, per: abitare, viverci e riprodursi. Poi noi Sapiens, scesi dagli alberi, dopo un lungo periodo di nomadismo, evolvendo, abbiamo incominciato a perimetrare, recintare ed ordinare la superficie terrestre, per coltivare, per produrre alimenti ed energia, per moltiplicarci, rendendo “privati” pezzi sempre più grandi di questo bene comune.
La specie Homo Sapiens, a cui apparteniamo, ha velocemente identificato tutto l’ambiente planetario come, “spazio esclusivamente suo”, eleggendolo ad ambito di azione, a cui appartengono o si riferiscono i diritti o gli interessi di una collettività dominante civilmente ordinata, in continua esponenziale crescita.
L’ambiente naturale, della biosfera planetaria, è stato, nel corso del tempo, modificato, assoggettato all’evoluzione ed alla moltiplicazione selettiva della specie umana (con finalità di puro sfruttamento); la quale specie, ha precise responsabilità, molto evidenti oggi, rispetto all’inquinamento di: aria, acqua, terra: al consumo di suolo (città, agricoltura intensiva, infrastrutture) ed al conseguente cambiamento climatico planetario.
Ancora oggi, il paesaggio fisico storico, esperienziale e rappresentativo, più abituale della vita collettiva nell’Antropocene, è ovviamente questo “bene comune”, il cui termine, ha contenuti che necessariamente devono essere scomposti, per non ridurlo esclusivamente ad una banale dicotomia storica tra pubblico e privato, tra naturale ed artificiale.
Già Aristotele nel IV secolo a.C. ha affermato la naturale tendenza dell’essere umano alla socialità. Siamo per genia, portati a stare in contatto l’uno con l’altro, questa “contiguità” addirittura è parte essenziale del definirsi della nostra identità. Siamo dal punto di vista fisico, meticci, costruiti, mischiati, con il materiale genetico di altri. Nasciamo alimentandoci del sangue di nostra madre; ci alimentiamo con la “materia” di altri esseri viventi. La stessa vita planetaria è già mescolanza di: “infinite altre specie, che si sono date appuntamento nel nostro corpo”.
E’ indubbio, ed acclarato da sempre, il valore sociale, d’incontro, dello spazio pubblico, e della sua importanza politica, culturale ed economica per l’uomo. Lentamente ci siamo impossessati del “bene comune planetario”, riempiendolo di: contenitori, infrastrutture, impianti, natura antropizzata, ecc.; addirittura rinominandolo per farlo diventare “spazio pubblico”, supporto, “esclusivamente nostro” in cui dipanare la nostra vita di specie dominante.
Eppure, questo “spazio pubblico” in senso universale, che continuamente modifichiamo, mangiamo, distruggiamo, ci condiziona e ci modifica. Nella materia carnale e soprattutto nella testa. Come scrive Emanuele Coccia nel suo libro “Metamorfosi”[6]: “La vita non è che un’unità cosmica che stringe la materia della Terra in un’intimità carnale. Siamo tutti carne della stessa carne, indifferentemente dalla specie cui apparteniamo”.
Spazio pubblico e Natura
La natura (L’ecosistema terrestre, il bene pubblico planetario condiviso) non è un “prodotto” umano; la specie umana può solo tentare di arrivare a capire, e modificare, la natura, attraverso la cultura. In tal senso la banca dati del World Wide Web, ci consente, con l’ausilio dei computer, di comprendere, attraverso una “memoria culturale” la continua metamorfosi dei saperi più diversi: dalla zoologia alla filosofia, dalla biologia alla linguistica, dalla botanica alla letteratura, dall’architettura all’astrofisica, dalla genetica all’arte. Ne risulta una visione in cui l’essere umano stesso, secondo Coccia, è una specie di “zoo ambulante”, un “Arlecchino” frutto ed espressione di una forma di vita più vasta e magistralmente intimamente interconnessa.
Lo spazio pubblico, in cui si muove questo “Arlecchino” è però una necessità tipicamente umana, e la telematica, l’informatica pur insinuandosi in esso, e nella vita contemporanea, non sembrano, per ora, in grado di adattare questo paesaggio, destrutturandolo, a livelli d’informazione e di accessibilità diversi.
Lo abbiamo visto bene tutti durante la “clausura” pandemica, dove l’isolamento, la mancanza di socialità protratta per lungo tempo, ha portato conseguenze psicologiche, su vaste fasce della popolazione, e soprattutto sui giovani. La stessa necessità di applicare in maniera diffusa lo smart-working (in italiano: lavoro agile), ha fatto cambiare completamente gli orari di uso delle città, ed i riti di frequentazione delle persone, costrette a vedersi ed a risolvere i loro necessari incontri, mediante l’utilizzo di piattaforme on-line: Meet, Zoom, Teams, eccetera. Soprattutto l’isolamento pandemico, ci ha indirizzati ad acquistare su piattaforme dedicate, come Amazon, o direttamente on-line dai produttori. Salvando molte attività commerciali, che velocemente hanno implementato o ampliato la loro presenza on-line. Però molti negozi, luoghi di arricchimento e mediazione sociale, proprio dello spazio pubblico, sono stati costretti a chiudere per mancanza di utenti, di fatto modificando il paesaggio pubblico urbano.
Chiusi in casa, abbiamo tutti sperimentato appieno, e modificato, le nostre case (private) per adattarle a queste nuova situazione, per lavorare a casa, per studiare, eccetera. Le nostre abitazioni sono diventate lo sfondo di collegamenti on-line interminabili. Le piazze, le vie, improvvisamente, per imposizione legislativa sanitaria, hanno acquisito una “vuotezza” raramente sperimentata prima. Anche durante gli anniversari istituzionali legati alla memoria di una Nazione.


[fig.1] Piazza del Duomo a Milano il 25 aprile 2020, durante la pandemia (Fonte: Foto dell’autore).
[fig.2] Piazza del Duomo il 25 aprile 2022 (Fonte: Foto dell’autore)
Pandemia: ridefinizione del confine tra pubblico e privato
Gli anni della pandemia hanno determinato una mutazione profonda nelle nostre relazioni, nel modo di lavorare, nella maniera di rapportarci con la realtà “fisica”. E lo spazio pubblico, per “stare insieme” che è la città tutta, o un teatro, o addirittura un parco, hanno subito una forte mutazione. Lo spazio pubblico, è stato per anni gravato da provvedimenti sanitari restrittivi, ma oggi, con un allentamento del controllo sanitario, in atto, conseguente alla riduzione della circolazione virale, gli spazi pubblici (piazze, spiagge, discoteche, teatri, raduni, concerti, ecc.) stanno riacquistando il loro ruolo sociale, ante-pandemia.
Nemmeno “Second Life”, il mondo virtuale (pubblico/privato) elettronico digitale online lanciato nel 2003 dalla società statunitense Linden Lab, è riuscito ad essere un’alternativa allo spazio pubblico reale. Ad un’iniziale successo, la piattaforma dal 2013 ha progressivamente perso utenti (avatar).
I vari social network: Facebook, Twitter, Instagram, nonostante i numeri notevoli degli utenti iscritti, sembrano incapaci di superare il “chiacchiericcio da pollaio”, la “violenza verbale”, la “critica gratuita”, lo sghignazzo”, per diventare degli spazi pubblici di vero dibattito ed incontro sociale. Questi “palcoscenici liquidi” hanno però determinato il collasso definitivo delle sfere sociali classiche: famiglia, colleghi, amici, eccetera. Ciò sta producendo una progressiva ulteriore frammentazione del pubblico e delle sue liaison con il mondo virtuale. L’esempio più concreto è nell’antinomia: piazza/mercato = internet/vendite on-line.
La stessa fusione di alcune di queste piattaforme in “Meta”, voluta dal fondatore di Fb Mark Zuckerberg, per superare il calo di iscritti, sembra non in grado, per ora, di superare questa impasse. Meta non si limiterà a connettere le persone ma punterà al cosiddetto Metaverso, un mondo virtuale nel quale proiettare la nostra identità digitale. La promessa del fondatore della società, è che trasformeremo la nostra “casa” (privata) in un luogo “aumentato” (semi-pubblico) nel quale i nostri amici si materializzeranno davanti ai nostri occhi ovunque essi siano, in cui lavoreremo come fossimo in ufficio, anzi meglio, dove faremo sport o shopping, ed acquisiremo cultura, senza soluzione di continuità. Nel Metaverso, potremo acquistare o affittare “spazi virtuali privati non tangibili”, da ritagliare nel Metaverso (pubblico?), in cui costruire case, ambienti, gallerie, ecc. con degli “architetti digitali”. Magari acquistare questi “spazi virtuali privati non tangibili”, con criptovalute (tipo BITCOIN), in cui collocare/esporre/commercializzare, degli NFT opere d’arte digitali. NFT che significa non-fungible token (gettone non fungibile o gettone non riproducibile), cioè è un tipo speciale di token, che rappresenta l’atto di proprietà e il certificato di autenticità scritto su catena di blocchi di un bene unico (digitale o fisico).
Si genera così uno spazio parallelo a quello fisico; uno spazio virtuale né pubblico, né privato, Uno spazio n cui ritrovarsi come specie.
Infatti, se di fatto, in diluizioni infinitesimali di miliardesimi di DNA, siamo tutti imparentati “fratelli e sorelle”, costituiti in una rete sociale, che si è ritagliata nell’ecosistema planetario, con famelica bramosia spazi pubblici/privati, ad uso esclusivo, come abbiamo visto in precedenza. Questi spazi fisici, sempre più grandi, sono finalizzati ad “ospitare e sfamare” numeri di individui in continuo esponenziale aumento; ma il virtuale, il Metaverso, non consente di produrre cibo ed energia, per “sfamare” individui atti ad una crescita infinita.
Si crea così, un nuovo confine (memoria del recinto/muro), come “limite” tra reale e virtuale. Dove però i significati di “pubblico” e “privato” tendono ad “ibridarsi”, a confondersi.
In architettura la facciata di un edificio, sia esso pubblico o privato (con i suoi materiali, i suoi colori, la sua composizione, ecc.) stabilisce un limite/comunicazione con lo spazio pubblico, sia esso: piazza, via, parco, o quant’altro, e l’io privato degli utenti. E lo stesso spazio pubblico interagisce con gli utenti, attraverso le caratteristiche di finitura, di segnaletica, di arredo, eccetera, degli stessi.
In questo contesto, lo “spazio pubblico”, tende a diventare (nel convenzionamento tra pubblico e privato), sempre più spesso, uno spazio che totalmente pubblico non è. La cessione di spazi pubblici, nelle grandi trasformazioni urbane (piazze, verde, ecc.), ma non solo, diventa una promessa fatta ai cittadini (nella liaison tra politici/amministratore, ed immobiliaristi sempre più voraci) in cambio di “eccessi volumetrici”, ma che nella realtà si traduce soprattutto in spazi che potremmo definire “di solo uso pubblico”. Questi spazi, non più privati, né completamente pubblici, vengono convenzionati e gestiti per decenni, sia come manutenzione, che per gestione degli spazi (eventi, sicurezza, ecc.), dal privato, che ne gode dal punto di vista immobiliare, facendo affacciare su questi “spazi nobili” i propri volumi, che così aumentano ulteriormente di valore.
Il gestore pubblico, non in grado di assumere un ruolo direttorio, manageriale ed economico di rilievo, nella conservazione di questi spazi, soggiace a questa condizione, che è ormai una consuetudine.
Da spazio pubblico a spazio di uso pubblico
In merito a questa mutazione, un caso emblematico lo si trova a Milano, nella trasformazione urbana Garibaldi/Repubblica/Porta Nuova. Il progetto, approvato nel 2004, dopo un iter urbanistico/immobiliare risalente al 1958, è stato curato dall’imprenditore immobiliare statunitense Hines e dalla sede italiana Hines Italia Sgr. Frutto di un convenzionamento innovativo per l’Italia, tra amministrazione pubblica ed operatore privato proprietario delle aree. In questo masterplan, il parco pubblico, realizzato da Hines Italia a scomputo oneri, detto “Biblioteca degli Alberi – BAM” (progetto: studio olandese Inside Outside di Petra Blaisse) è emblematico di questa assurda condizione dello spazio pubblico. Dal 5 luglio 2019 la Fondazione Riccardo Catella gestisce, dal punto di vista tecnico e culturale, il parco pubblico BAM, Biblioteca degli Alberi Milano. Per gestire al meglio il calendario del Parco mantenendone rigogliose, sicure e pulite le aree verdi, tutte le iniziative sono da allora comunicate e concordate con la Fondazione stessa. Nella BAM, anche la miscela floreale, che caratterizza i parterre di questo parco, viene decisa dal privato, per ottimizzare la manutenzione e la resa scenica.


[fig.3 e fig.4] Immagini di alcuni parterre della BAM, durante la fioritura primaverile (Fonte: Foto dell’autore)
Lo stesso vale per piazzetta Liberty (progetto: studio inglese Foster + Partners), sempre a Milano, un altro “spazio in uso pubblico”, dove addirittura il sottosuolo è di proprietà privata (Apple), ed anche qui tutto avviene esclusivamente per convenzionamento, sotto la regia esclusiva del privato. L’accordo di convenzione, prevede che Apple, oltre alla manutenzione ed alla sicurezza della piazza, dovrà organizzare ogni anno almeno otto eventi pubblici gratuiti di alto profilo culturale e sociale, concordati con l’Amministrazione e proporre al Comune almeno quattro ulteriori eventi l’anno.


[fig.5] Piazzetta Liberty a Milano il 15 maggio 2020 (Fonte: Foto dell’autore).
[fig.6] Piazzetta Liberty il 15 maggio 2022 (Fonte: Foto dell’autore)
Eppure, questi “spazi”, vengono percepiti dagli utenti, grazie al marketing “spinto” di eventi prestigiosi in essi realizzati, ai giornali, alla rete ed ai social che ne diffondono le immagini, come se fossero delle entità spaziali esclusivamente pubbliche. Cosa che nella realtà non sono, essendo il frutto di un compromesso, di una convenzione, cui non corrisponde più una chiara definizione terminologica tra ciò che è “pubblico” e ciò che è “privato”.
Sempre nell’Area Metropolitana di Milano, nei comuni di Rho/Pero, è in atto l’operazione immobiliare “Mind”, la riqualificazione dell’ex Area per Expo 2015 (che prima era un terreno agricolo), che è la più grande liaison, tra pubblico e privato, in corso: 510 mila metri quadrati di nuovi edifici, che ospiteranno oltre 40 mila utenti, per un progetto da 2 miliardi di euro. Sarà soprattutto terziario (circa 200 mila mq.), con l’arrivo, presunto, di grandi aziende come Novartis, Bayer, Glaxo, Bosch, Abb, Ibm, eccetera. Poca la residenza (63 mila mq.) di cui 9 mila metri quadrati di residenze di alto livello, e 30 mila mq. di social housing (case a prezzi contenuti). A ciò si aggiungono altri 54 mila mq. di studentati (residenze per studenti). Completano il progetto 16 mila mq. di spazi commerciali, ma senza grande distribuzione, e 7 mila mq. di hotel. Il tutto gestito dai privati di Lend Lease insieme alla società pubblica proprietaria delle aree, Arexpo.
Investimenti previsti: 2 miliardi pubblici e 2 miliardi privati. Per sviluppare il progetto e “valorizzare” almeno 250 mila mq, Lend Lease verserà ad Arexpo 671 milioni di euro, in cambio di una concessione che durerà 99 anni. Altri 230 mila mq saranno “valorizzati” direttamente da Arexpo, che conta di ricavarci 130 milioni, o vendendoli a Lend Lease o direttamente a privati. Oltre a tutto ciò, sull’area è già stato edificato, ed in corso di completamento, anche un ospedale, l’ortopedico Galeazzi, che pagherà ad Arexpo 25 milioni per i 50 mila mq ottenuti.
Ma ciò che renderà credibile e realizzabile l’operazione “Mind”, facendo da attrattore per le aziende hi tech e big pharma, sarà il trasferimento sull’area Expo delle facoltà scientifiche dell’Università Statale (150 mila mq., costo ipotizzato 380 milioni), oltre al più piccolo centro di ricerca Human Technopole su genoma e big data, che ha già occupato Palazzo Italia e si amplierà ad alcuni edifici a ovest dell’Albero della Vita.
Secondo il progetto Lend Lease, 460 mila metri quadrati dell’area saranno occupati da un parco pubblico. Ma per conseguire questa cifra si devono sommare anche i canali, l’anello esterno con i relativi canali, l’arena per grandi eventi, la Cascina Triulza e aree come il “decumano” e il “cardo” di Expo, che saranno in realtà trasformati in viali pedonali alberati, su cui dovranno comunque transitare automezzi per i rifornimenti e che saranno creati sopra la piastra “impiantistica” di cemento che impedisce la piantumazione di alberi ad alto fusto. I cittadini milanesi, nel 2011, hanno votato a favore (con risultato del 95,51%) al quesito di un referendum comunale consultivo, che impegnava a lasciare a parco tutta l’area verde che si sarebbe realizzata nell’area di Expo 2015[1]. Anche qui, il limite, tra cosa è pubblico e cosa è privato, seppur regolato da rigide convenzioni, sembra “labile” e potrebbe erodersi, senza nemmeno rispettare veramente il risultato del referendum pubblico consultivo espletato.


[fig.7] L’Ospedale Ortopedico Galeazzi in completamento nell’Area MIND (Fonte: Foto dell’autore).
[fig.8] L’intorno dell’ex Padiglione Italia oggi sede di Human Technopole (Fonte: Foto dell’autore)

[fig.9] L’area di Expo 2015 a Milano prima dell’intervento (Fonte: immagine del 2001 tratta da Google Earth).
Considerazioni finali
E’ chiaro che, in questa situazione “fluida”, tra una pandemia planetaria, ed una guerra, tra una crisi economica imminente, e la necessità di ristrutturare la maniera di vivere e di produrre, per salvare l’ecosistema planetario, i confini tra pubblico e privato, tenderanno sempre più a soffrire, ad essere labili e “virtuali”. Ci troviamo in una realtà sempre più ingannevole, in cui il Metaverso farà buon gioco a chi realizza spazi fisici, vendibili e praticabili virtualmente, in una loro “costruzione virtuale 3D” ancora prima che si posi a prima pietra. Microsoft ha recentemente annunciato che dal 2022 integrerà il Metaverso nella piattaforma Teams con una funzionalità chiamata Mash: gli utenti potranno creare un avatar con cui partecipare alle riunioni di lavoro
(già lo sfondo lo possiamo alterare per non fare capire dove siamo). Ciò anche per creare un ulteriore spostamento di confine tra reale e virtuale. Ci si prospetta una vera e propria vita senza mai alzarsi dal divano. Spazio “privato” e “spazio pubblico” (la via, la piazza, la città), che stanno lentamente ambedue convergendo, verso quel divano con sopra “noi”, il nostro corpo, la nostra carne, e davanti un terminale video.
Eppure, già di fatto, noi stessi, il nostro corpo, sono da sempre “materia pubblica”, essendo la nostra genia il frutto di una selezione (e di un sostegno sociale) in cui sono entrati in campo tutti gli esseri umani che sono stati presenti sul Pianeta Terra, fin dal primo uomo scimmia, e di tutto quello di cui ci siamo alimentati, sia per ricavare energia vitale, idee, progetti.
Oggi possiamo acclarare che nella realtà contemporanea, è già in atto una progressiva degenerazione dello spazio pubblico, reale, fisico, di una sua costante perdita di senso del “bene comune”, a favore di un appeal, sempre più pilotato e controllato (telecamere, ripetitori wi-fi, conta-utenti, ecc.), anche a causa della pandemia. E contemporaneamente ci, troviamo di fronte ad una sua “ibridazione on-line”, dove la separazione modulata e storica, tra spazio pubblico e spazio privato, come avveniva nelle città porticate di una volta, è ormai ridotta ai minimi termini, o forse già più non esiste.
Bibliografia
Veronica Barassi, I figli dell’algoritmo. Sorvegliati, tracciati, profilati dalla nascita. Luiss Press, 2021
Franco La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, 2020
Giancarlo De Carlo, La città e il territorio. Quattro lezioni, Quodlibet Habitat, 2019
Salvatore Settis, Teatro della democrazia. Cattedra Borromini 2014-2015, Mendrisio Academy Press, 2016
Massimo Cacciari, La Città, Pazzini Editore, 2004
Raymond Ledrut, Sociologia urbana, Il Mulino, 1969

































































