




Sono anni che non insegno più “architettura”, dopo un lungo periodo passato in una nota struttura universitaria milanese (1995/2005), prima come assistente e poi come docente a contratto, mi sono volutamente ritirato a fare esclusivamente la libera professione. Erano gli anni (che perdurano) di uno stupido “buonismo” dell’insegnamento, all’insegna del produrre architetti, in quantità sempre maggiore, come se fossero “polli in batteria”. Qualità mediocre e tanta quantità!
Poi, alcuni mesi fa, proprio all’inizio dell’estate, si fa concreta la possibilità di andare ad insegnare in un’altra Nazione, in un’altra vicina realtà didattica.
Sono mesi, quindi, che mi arrovello, sul significato di insegnare, oggi architettura, in un periodo di forte crisi dell’edilizia e dell’economia, a delle giovani persone. Davvero una domanda complessa e difficile, quando i disoccupati del settore edile in Italia, a fine 2013 sfioreranno quasi i 3 milioni. Credo però di essere giunto ad una conclusione in merito.
Quindi ai miei studenti gli spiego, innanzitutto, l’arte sottile della sopravvivenza, del coltivare ciò che “piace fare”, rinunciando se non si è vocati per ciò. Li stimolo, continuamente ad “aprire nuove porte”, a praticare umilmente, strade inusitate, perchè solo così si sbarca il lunario nei tempi duri.
Li sto lentamente istruendo, su un vero e proprio rispetto per l’architettura, che è arte e scienza difficile e complessa. D’altro lato, racconto ai miei studenti come siano appassionanti gli edifici di Le Corbusier, di Frank Loyd Wright e di Mies Van der Rohe, così come il loro umano “transito terreste”, di cui comprenderanno in seguito la superiore grandezza. Gli spiego soprattutto che è proprio partendo da costoro (dai moderni), che si riesce, successivamente, ad assimilare meglio la magnificenza di Michelangelo e di Leon Battista Alberti, degli ordini classici, e non viceversa.
Gli parlo anche di molte altre questioni che animano questa bellissima e difficile disciplina, soprattutto quelle più semplici e vere dell’architettura, la cui comprensione richiede un minimo di competenza ed applicazione: la tecnologia, la statica, i dettagli, il cantiere, ecc.. Insisto continuamente sul fatto che nobiltà, genialità, purezza, comprensione intellettuale, ricerca della bellezza plastica e l’uso sistematico delle proporzioni, rappresentano le gioie che l’architettura può offrire e che ciascuno può comprendere. Ma gli spiego, anche, che la “rottura sistematica”, senziente, di queste regole, genera spesso quel “qualcosa in più” che caratterizza i grandi architetti, le archistar.
Pretendo però che si basino, per costruire “lentamente” una loro “poetica”, su una serie di fatti oggettivi, concreti, reali, tenendo però sempre ben presente che oggi, i fatti architettonici sono fluidi e mutevoli; pertanto insegno loro a diffidare delle formule preconfezionate, delle “ricette sicure” e vorrei convincerli che tutto è relativo, soprattutto in architettura.
Gli insegno soprattutto a convivere con l’insuccesso, a fronte di tanto buon lavoro svolto, ed a coltivare con saggezza i pochi successi, senza farsi prendere da deliri di onnipotenza. A convivere con committenti sempre più aggressivi, che spesso vedono nell’architetto uno strumento per dare spazio alle loro frustrazioni creative.
Mi sforzo di inculcare nei miei allievi un acuto bisogno di viaggiare, per conoscere (non solo dai libri) direttamente sul posto le “grandi architetture”. Gli insegno a toccarle, a fiutarle, a verificarne l’acustica, a permanere in esse, o di fronte ad esse, per “catturarne” la magia. Li incoraggio a coltivare con sapienza, questi atteggiamenti, sistematicamente, con disciplina, sino al loro ultimo giorno di vita. Perchè l’architettura è per sempre, una volta inoculata, come la pittura, la musica e la scultura. Come tutto ciò che piace ed appassiona fare.
Alcuni mi ascoltano, altri percorrono strade che li allontaneranno da questa disciplina. D’altronde, molti inconsciamente già lo sanno, che solamente pochissimi faranno veramente gli architetti. I più si occuperanno d’altro.
Come direbbe un saggio e colto professore veneto, quale monito per gli studenti, utilizzando un termine dialettale mediato dal francese “lieu amer”, luogo amaro : “Non stà girare intorno al luamaro se non te vò cascarghe rento” (ndr – non girare intorno al letamaio se non vuoi caderci dentro).



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