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Builders of the future

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Quest’uomo, quest’architetto, lo stiamo “seguendo” da un po. Ormai da parecchi anni. Da quando, partecipando al concorso di progettazione per la stazione marittima del Porto Grande di Siracusa (dove arrivammo a metà classifica), risultò vincitore il team italo-spagnolo guidato dall’Ing. Enrico Reale e composto dagli architetti Vincenzo Latina, Jordi Garcés, Emanuela Reale, Daria de Seta, Anna Bonet, Raimondo Impollonia, Angela Tortorella e Jose Zaldìvar. Era l’ormai lontano 2009.

In quell’occasione, ci colpì molto una personalità locale, l’architetto Vincenzo Latina (8 aprile 1964, Froridia / Siracusa), che sembrava animare, dal punto di vista dell’architettura e della qualità, il team vincitore.

Da allora è stata quasi una consuetudine seguirne la prestigiosa e rapida carriera architettonica ed accademica, che lo vede al giorno d’oggi essere un po dovunque, indispensabile, piacevole e “saporito” come il prezzemolo.

Tra i principali, recenti riconoscimenti :

nel 2012 – Vincitore della Medaglia d’Oro della Triennale di Milano. Premio Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana 2012 della Triennale di Milano. Al progetto “Padiglione di Accesso Agli scavi dell’Artemision”;

nel 2013 – Vincitore del Premio internazionale di architettura in pietra “ARCH&STONE”;

nel 2015 – Vincenzo Latina è il vincitore del Premio Architetto italiano, bandito dal Consiglio Nazionale degli Architetti;

nel 2017 – Vincitore del concorso Internazionale per la copertura dell’Arena di Verona;

nel 2017 – Era inserito nella rosa dei “papabili” per la curatela del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2018.

Nelle settimane scorse è stato spesso “quì al nord” : a ritirare il premio alla ARCHMARATHON SELECTIONS 2017 del Made Expo a Rho/Pero, come migliore architetto; alla presentazione del numero monografico 1013 di Domus ” Non c’è Italia senza spine” (curato da Fulvio Irace, in cui sono presentati i suoi ultimi progetti) a Mendrisio presso il Tatro dell’Architettura di Mario Botta; era invitato allo spazio sotterraneo H2OTTO di Milano a tenere una “lectio Magistralis”; era tra i designers del “Foodies Challenge” di Milano dove architetti e cuochi interagivano tra loro; ecc..

La sensazione, “gravitandogli attorno” da diversi anni, è che ci troviamo di fronte ad una personalità di grande spessore disciplinare, molto simpatico, diremmo “verace” ed umile, come difficilmente se ne trovano nel campo dell’architettura (infestato da “fighetti puzzoni” e da “egocentrici stralunati”). Insomma uno bravo, “certificato” e riconosciuto, destinato ad un grande futuro.

Tutto ciò è ancora più evidente se lo si segue sul “libro di facce” (Facebook), dove alterna un pensiero colto per l’architettura, con una foto della moglie che produce gli arancini nella casa di campagna. Dove alla diffusione virale di un evento di cui è partecipe, segue la foto dell’oblò di un aereo (condizione ormai consuetudinaria per un globetrotter dell’architettura) o acuti appunti di viaggio, oppure un selfie con un collega.

A “seguirlo”, facilmente ricorrono alcune terminologie, che potremmo definire dei “Latinismi architettonici” ; parole che danno lo spessore dell’attività di questo grande architetto, identificabile soprattutto una serie terminologica ben precisa :

TRADIZIONE, TRADUZIONE, TRADIMENTO – (tutti dalla radice latina tradere) che viene inteso dal Vincenzo Latina, come tradire per tradurre. L’architetto/archeologo, inevitabilmente tradisce il passato,  per poter “tradurre” nella realtà odierna la spazialità architettonica che gli viene richiesta. L’architettura è sempre “tradimento” della tradizione.

Forza Vincè, pedala, che il Pritzker Prize è quantomai vicino.

Link ad una lectio Magistralis di Vincenzo Latina a Varese

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Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

 

 

Lisc e grezz


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L’ultima fatica di Mario Botta, sul Monte Generoso in Svizzera è l’omonima struttura turistica. Denominata dall’architetto mendrisiense “Fiore di pietra”, domina il crinale con vista sul Lago di Lugano. Completata all’inizio della primavera 2017, sta già ritornando ad essere (dopo anni di chiusura) uno dei luoghi più visitati del Canton Ticino. Dalle prime foto e dai disegni, l’opera architettonica sembrava fare il verso alla moltiplicazione dei “cilindroni” del maestro svizzero, ormai da anni incancrenito su geometrismi ripetitivi.

Invece, visitandolo, anch’io che ero scettico, mi sono completamente ricreduto. Molti sostengono sia la “Torre di Mordor” o un “carciofo”, un’astronave calata sul Generoso. In realtà si tratta di un bell’edificio, magnificamente realizzato, consono al paesaggio in cui si colloca. Soprattutto l’edificio polivalente è molto funzionale con degli spazi comodi ed un’architettura che anche da vicino è perfettamente inserita tra le rocce che anticipano la cima, rispetto alla cacofonia di forme dell’edificio precedente. Paesaggio, quello del Generoso, già “sputtanato” parecchi anni prima dalle forme tecnologiche (e necessarie) del ripetitore radiotelevisivo.

Spazi mostre, accoglienza ed informazione turistica, un self-service, un ristorante (stellato), una sala per conferenze, camere per alloggiare, locali tecnici ed una spettacolare terrazza in copertura con un panorama a 360 gradi: distribuiti su 5 livelli, si incastrano nella montagna, completando ed esaltando il crinale.

Ottima la scelta dei materiali : pietra (probabilmente una beola o un serizzo) per il rivestimento esterno; beton a vista, legno e pietra per gli interni. L’edificio nonostante l’assalto di una moltitudine di turisti domenicali, risulta accogliente e funzionale.

L’occasione della nuova struttura turistica (25 milioni di franchi sponsorizzati da Migros), ha consentito di sistemare anche i percorsi pedonali che da Bellavista conducono alla cima del Generoso, rendendo tutto il parco del Generoso più facilmente accessibile anche a chi non può permettersi di spendere l’alto costo del biglietto del trenino a cremagliera.

Scendendo a piedi, due signori attempati al mio fianco (marito e moglie), veraci ticinesi, commentavano l’esperienza architettonica in rigoroso dialetto ibrido : “Bravo il Mario, in fin di facc un bell’edifizi, lisc e grezz” (se ho trascritto bene), probabilmente riferendosi al rivestimento esterno in corsi di pietra levigata alternata a quella a spacco.

Sotto il link ad alcune immagini del sopralluogo sul Monte Generoso

https://it.pinterest.com/dariosironi/lisc-e-grezz-2016/

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Limite biologico


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Quale è il limite di “modellazione” della massa biologica planetaria da parte dell’uomo ?

Molte piante ed animali, ma anche parassiti, devono necessariamente adattarsi, alle esigenze della specie umana per sopravvivere sul Pianeta Terra.

Le colture modificate dall’uomo, per consentire una produzione sempre maggiore per ettaro di alimenti vegetali, hanno lentamente cancellato le foreste e le praterie (con la loro biodiversità). I topi ed i piccioni, ma anche i gabbiani, le tartarughe dalle orecchie rosse, ecc., nelle città, sopravvivono grazie agli scarti della civiltà umana, da cui ormai dipendono.

Alcuni organismi non esistono più in natura, sopravvivendo solo perché sono entrati nel ciclo culturale e/o alimentare umano. Da una parte l’uomo li ha “estinti” modificandoli geneticamente o distruggendo il loro ambiente di vita. Dall’altro è la stessa specie umana che li tiene in vita riproducendoli per finalità molto differenziate.

Un esempio sotto gli occhi di tutti, sono i bovini, avvistati “allo stato selvatico” l’ultima volta nelle foreste della Polonia nel 1627. Oggigiorno i bovini “modificati” e completamente diversi dal loro progenitore selvatico, sono i mammiferi animali più diffusi al mondo (oltre un miliardo e mezzo).

Un altro esempio, è il Ginkgo Biloba, non più esistente in natura, perché incapace di riprodursi se non coltivato; probabilmente a causa dell’estinzione (per colpa di noi umani) del volatile che ne mangiava i semi, eliminando il rivestimento maleodorante che ne inibisce la fertilità, e li diffondeva sui terreni con le proprie feci.

Le bellissime installazioni di Michael Wang (Extinct in the wild) e di Pamela Rosenkranz (Slight Agitation 2/4, Infection), presenti nello Spazio della Fondazione Prada a Milano ci fanno riflettere su diversi ed importanti temi; su cosa voglia dire naturale ed artificiale; su cosa siamo noi esseri umani che continuamente modifichiamo il pianeta su cui viviamo; su quale deve essere (se c’è) il limite al nostro agire sulla massa biologica planetaria; su quale futuro perseguire………………

Michael Wang ( Olney, Maryland, USA, 1981) – (Extinct in the wild) – Tre piccole serre in un’enorme capannone grigio. Delle fotografie su una delle pareti più corte. All’interno di due serre che contengono delle piante quasi ormai estinte in natura, che l’artista ha riprodotto in un estremo gesto di conservazione e catalogazione. Nella terza serra due acquari che contengono dei Tritoni bianchi. L’artista riunisce flora e la fauna che non si trovano in natura, ma persistono esclusivamente sotto la cura umana, all’interno di un habitat artificiale complesso. Etichettato con il termine ufficialmente designato “estinta in natura”, queste specie hanno lasciato la natura per entrare nei circuiti della cultura umana. In questo progetto, gli esseri naturali come piante e animali sono “traslate a forza” in uno spazio culturale, in una mostra, in un ambiente che sottoposto alle continue cure umane riesce a garantire la loro sopravvivenza. Una riflessione quindi non solo estetica ma anche sulle tecniche di modificazione biologica, e sulle strategie di sopravvivenza.

Pamela Rosenkranz (Uri, Svizzera, 1979) – (Slight Agitation 2/4, Infection) –  esplora come i processi fisici e biologici influenzano l’arte. La sua installazione si basa su un parassita neuro-attivo (Toxoplasmosi)che ha come obbiettivo il gatto, ma che i bambini acquisiscono giocando con la sabbia o la terra, e di cui circa il 30% della popolazione mondiale è affetto in maniera quasi asintomatica. Un enorme, montagna conica, geometrica e sublime realizzata con della sabbia è formata all’interno degli spazi alti della Cisterna. La sua dimensione sembra esercitare pressioni contro l’architettura storica. La sabbia è impregnata di profumo di feromoni sintetici di gatto che attiva una specifica, attrazione o repulsione, negli esseri umani, biologicamente determinata, e inconsciamente influenzano il movimento del pubblico. Una luce verde a RGB illumina il picco di questa natura chimicamente modificata, facendo evaporare delicatamente il profumo. Pare che i portatori del parassita neuro-attivo, secondo studi scientifici, abbiano un comportamento alterato : statisticamente sono coinvolti più spesso in incidenti; hanno tendenza all’acquisto di abiti di lusso; ecc.. E’ per questo che la traccia olfattiva dei ferormoni del gatto, viene inserita in molti profumi, come ad esempio in Chanel “N.5”.

Ci fermeremo mai ? Sapremo almeno rallentare ? Sapremo, prima o poi avere senno in quello che facciamo ?

Dario Sironi

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L’architettura la si insegna con sapienza, essendo disponibili “guide” che portano alla conoscenza (senza supponenza), di questa antica disciplina, e ciò è tanto più difficile laddove arte e scienza si intersecano indissolubilmente.

Uno studente di architettura, non va soverchiato, va accompagnato mettendosi al suo fianco, senza sostituirsi ad esso.

Bisogna diventare degli umili “contenitori di suggerimenti” che indicano la possibile strada ma non la via certa. Stimolare, titillare, affinché ognuno esprima se stesso, questo è il compito.

Ho visto troppo spesso colleghi esuberanti, egocentrici, progettare al posto dello studente fino a plagiarlo, per il solo piacere personale di esibire la loro bravura.

Colleghi, architetti bravissimi, ma che dell’insegnamento e di ciò che è trasmettere architettura, poco sapevano ed ancor meno “umilmente” intuivano.

Scrive le Corbusier in un testo del 1943 – Conversazione con gli studenti delle scuole di architettura – : “dedicarsi all’insegnamento dell’architettura, in questi tempi di traslazione da una civiltà decaduta a una civiltà nuova, è come prendere i voti, è credere, è consacrarsi, è darsi”.

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Drawings (disegni)


 

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Scrive Richard Sennet, nel libro “L’uomo artigiano” (Feltrinelli, 2008), che la maestria artigianale, si è qualificata lentamente (sia dal punto di vista anatomico, sia come metafora), nel legame tra mano e testa, una relazione che gli artigiani hanno per tradizione, da sempre, espresso attraverso il disegno.

Sennett ricostruisce le linee di faglia che separano tecnica ed espressione, arte ed artigianato, creazione e applicazione. Fino ad arrivare, a quello che per lui è il miglior esempio di “artigianato” moderno il gruppo che ha creato Linux, gli uomini del “saper fare” della moderna cattedrale informatica.

Fin da quando si è vincolato, nella specie Homo Sapiens, il disegno alla capacità di rappresentare una realtà tangibile, e quindi dai primi disegni nelle caverne o nelle incisioni rupestri, si è iniziato a stabilire un legame tra azione di rappresentare il mondo che ci circonda e sua interpretazione mentale.

Tali capacità, si sono sedimentate, nel corso del tempo, nel nostro cervello, nei neuroni specchio. Se viene scisso il legame neurologico tra la testa e la mano, si rischia un “deficit mentale”, una condizione che, sostiene Sennet, sarebbe la norma quando il computer sostituisce completamente la mano nella progettazione architettonica.

Sennet, non si ferma quì, entrando nello specifico, dichiara che la progettazione computerizzata inibisce l’accesso diretto al libero pensiero esplorativo, l’apprendimento che si ottiene dal considerare un problema con un atteggiamento giocoso e partecipativo. I limiti del computer e soprattutto del suo schermo, rendono a suo dire più difficile essere interessati a variabili quali il clima, l’atmosfera, la fisicità, la struttura, la scala e la proporzione, e preclude anche la sfida tradizionale e spesso gratificante con un problema difficile. In ultima analisi, il computer troppo facilmente offre un risultato finito, chiudendo il processo di progettazione troppo presto, senza decantazione . Ed ancora : ” Il difficile e l’incompleto dovrebbero essere eventi positivi nella nostra attività intellettiva; dovrebbero stimolarci, come non possono fare la simulazione e la manipolazione facilitata di oggetti già completi……….Gli abusi del CAD illustrano come, quando la testa e la mano divorziano, è la testa a soffrirne”.

Ovviamente chi progetta al computer, dissente, sostenendo che l’elettronica del CAD è solamente una “moderna matita”, molto piu’ veloce, ma con pari quantità di indeterminatezza nei risultati finali. Insomma il computer è semplicemente un altro mezzo di espressione, non ancora pienamente interpretato.

Sta di fatto che il computer, interrompe la “connessione sensuale e tattile” (come sostiene Juhani Pallasmaa) tra la testa e la mano che ha guidato gli architetti per secoli, portando soltanto ad un approccio progettuale troppo concettuale e geometrico, non in grado di interpretare veramente la realtà vissuta attraverso i nostri ricettori. Inoltre le immagini al video di un computer alterano la nostra comprensione percettiva delle cose.

Gli edifici oltre a fornire riparo e piacere sensoriale, dice Pallasmaa : “sono anche estensioni mentali e proiezioni, sono esternalizzazioni della nostra immaginazione, memoria e capacità concettuale”. Il computer è diventato un appuntamento fisso nella pratica architettonica, in pochissimi anni, e probabilmente continuerà a migliorare come mezzo per la progettazione; però la cultura architettonica, tradizionalmente praticata con rotolo di carta da schizzo e matita non potrà facilmente essere totalmente messa da parte. Essa è un bene prezioso, che può essere acquisito con pazienza e pratica qualificata e, come ritenuto dai più (giovani ed anziani) favorisce un approccio meditativo di decantazione e riflessione, piuttosto che semplicemente calcolante. Un approccio in cui la variabile “tempo” non puo’ essere trattata semplicisticamente come sostiene Rem Koolhaas nel libro “Verso un’architettura estrema” (Postmedia Books, 2002), dove paragona l’attività dell’architetto contemporaneo che utilizza il computer, a quella dei piloti americani dei caccia da guerra supersonici, dove vige il motto : “Se pensi sei morto”.

Dichiara sempre Pallasmaa : “Il disegno a mano è un esercizio sia piacevole sia seducente che genera un’intensità poetica con la mano (ndr. – una sintesi tra spazio e tempo), spesso straordinariamente efficiente per arrivare al nocciolo di una questione”.

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Il senso del tempo


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Raccontare le ore trascorse nel grande Parco, che sta vicino a casa mia, di fatto è raccontare di un dinamismo in cui “tempo” e “movimento” sono un tutt’uno, a definire quello che noi umani chiamiamo  “paesaggio”. Parola ostica, che in alcune lingue nemmeno esiste.

Il lento, ma preciso, peregrinare nel grande corpo vegetale del Parco, per tutelarlo e proteggerlo (avvenga in bicicletta o a piedi), presuppone un movimento nel tempo, che di fatto mi conduce a frequentare spesso gli stessi luoghi, in periodi diversi dell’anno. Periodi in cui sole, vento, pioggia, temperatura, vita e morte, agiscono sui luoghi stessi, trasformandoli in maniera sempre diversa. Anche poche ore in tal senso, a volte, presuppongono una modificazione notevole, una “scena” diversa.

Nulla di grandioso e tantomeno di definitivo. L’esilità della posta in gioco, il tempo, fa del Parco un progetto tranquillo in cui animali e uomini, il più delle volte, trovano ristoro. Un progetto in continua evoluzione, come è inevitabilmente la vita, sempre uguale ma sempre diversa.

Come se la fragilità dell’obbiettivo, l’unione tra tempo e vita, presupponga la sua ineluttabile immaterialità. E’ come se nel Parco e nei suoi luoghi “in movimento”, si riflettesse tutta l’economia migliore di un sapere, un’applicazione esatta del principio di collaborazione paritetica con la natura.

La storia ci parla poco del tempo, del tempo che passa, della durata, del tempo che consente incontrando il suolo (il terreno fecondo), di fare nascere gli esseri viventi vegetali e con loro tutta la biosfera planetaria. Del tempo, che è anche morte ineludibile e democratica di ogni cosa, vivente e non, di questa parte di universo. La storia preferisce raccontarci le forme ed i gesti sociali eroici e grandiosi dell’uomo, e delle sue imponenti costruzioni, dei grandi architetti.

Eppure è qui, nel Parco, nello spazio del tempo, che secondo me si delineano chiaramente le questioni del futuro. La vita, come dovrebbe essere per la morte, esclude la nostalgia, in quanto è cosa certa che nessun passato ha futuro, se non il ricordo.

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Conversazioni su architettura e libertà Giancarlo De Carlo – Franco Buncuga Edizioni Elèuthera.


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Appena ripubblicato in una nuova edizione, questo è un libro straordinario.

È il racconto di una formazione umana, culturale, politica e architettonica. La storia di una vita dove tutti questi campi si sovrappongono e intersecano grazie alla volontà programmatica di pensarli come vasi comunicanti, narrata dalla viva voce del protagonista in un lungo colloquio.

Giancarlo De Carlo ha attraversato il XX secolo da testimone e protagonista. In mezzo c’è il bambino che scopre gli odori, i suoni e i colori del nord Africa come colone italiano, il giovane arruolato in marina nella Seconda Guerra Mondiale che matura lentamente l’anti fascismo, l’intellettuale che si confronta con il pensiero anarchico, l’architetto che conosce il Movimento Moderno e partecipa in seguito alla sua crisi.

La formula del colloquio rende il racconto leggero nella narrazione senza togliere mai nulla alla gravità degli argomenti.

Ci appassioniamo nello scoprire come andarono le cose nel momento di sciogliere i CIAM, ormai obsoleti custodi di un’ortodossia moderna che GDC rifiuta in nome di un pensiero moderno che contiene in sé stesso il germe della critica e del superamento delle posizioni dogmatiche; ci divertiamo al racconto incredibile di come un giovane architetto pieno di speranze e privo o quasi di possibilità economiche riesce ad ottenere un dipinto di Léger per la sala di una nave di cui sta progettando gli interni. Viviamo con GDC la disperazione per la distruzione dell’allestimento per la Triennale, lo sconforto per i progetti che non si compiono per l’incomprensione degli interlocutori, l’entusiasmo per la didattica a Venezia IUAV o al Laboratorio ILAUD vissuta quasi come una missione, lontana dalla corsa alla carriera accademica.

Incontriamo in compagnia della voce narrante personaggi fondamentali del Novecento:  Pagano, Vittorini, Calvino, Olivetti, Samonà, Van Eyck, gli Smithson,…

Soprattutto sentiamo raccontare l’infinita ricchezza di una pratica progettuale che non si piega mai all’ovvio, al banale, che rifiuta l’idea di un’architettura intesa come esercizio formale lontano dai bisogni e dalle necessità materiali e spirituali degli uomini che la abitano.

Il racconto dei progetti di Urbino, in continuo dialogo con la città e il suo territorio, con la storia del luogo e dei suoi protagonisti, testimonia una profondità di pensiero e una rara capacità di decifrare i luoghi e che confrontata a tanta mediocre superficialità dell’architettura corrente costituisce da sola una valida ragione per leggere queste pagine.

Le architetture di De Carlo sono difficili perché complesse: sono poco fotogeniche, comprensibili soltanto quando le viviamo concretamente. E se sono poco riuscite, GDC è il primo a riconoscerlo e a cercare le ragioni degli errori per ricominciare la propria ricerca.

Una recente visita ad Urbino mi ha permesso di verificare direttamente l’infinita ricchezza dei collegi del Colle, dove ogni dettaglio è disegnato per offrire generosamente spazi di incontro, concentrazione o riposo alla popolazione di una vera cittadina universitaria. Le sedi Universitarie in città celano pudicamente dietro la discrezione di muri in mattoni quasi muti una ricchezza di spazi e un lavoro sulla luce di intensità davvero rara.

Ora che la viva voce di GDC ci ha lasciato da qualche anno, che la rivista “Spazio e Società” da lui fondata e diretta ha chiuso i battenti da tempo e che parlare di partecipazione, di progettazione per tentativi e di architettura come ricerca appassionata di spazi per migliorare la vita degli uomini sono argomenti così lontani dal dibattito “alla moda”, la lettura di questo piccolo, grande libro, può trasformarsi davvero in una esperienza fondamentale. Non soltanto per gli “addetti ai lavori”.

Luigi Trentin

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L’orologio ed il violino


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“Il tempo è un treno – trasforma il futuro in passato – ti molla alla stazione – con il muso schiacciato contro il vetro”

U2 – Zoo Station (LP Acthung! Baby)

Il meraviglioso e particolare orologio astronomico del Torrazzo di Cremona, venne realizzato tra il 1583 ed il 1588 dagli orologiai Giovanni Battista e Giovanni Francesco Divizioli, è ancora oggi è perfettamente funzionante. E’ uno degli orologi astronomici più grandi al Mondo. Da allora il quadrante è stato più volte ridipinto, così come perfezionato l’apparato meccanico dell’orologio, adeguandolo alle diverse esigenze nate nel corso del tempo.

Il quadrante è contornato da una cornice in rame sbalzato.  Il diametro dell’orologio è di 8,44 metri. L’orologio rappresenta la volta celeste con le costellazioni zodiacali attraversate dal moto del Sole e della Luna.

L’ultima sistemazione di vero e proprio restauro dell’orologio, risale al 1970 ed è  stata eseguita su progetto e calcoli di Achille Leani, seguendo il bozzetto del pittore Mario Busini e dallo scultore Piero Ferraroni coadiuvato dal fratello Vincenzo.

Le lancette indicano le ore, le fasi lunari, i mesi, le costellazioni e i segni zodiacali. La quarta lancetta compie un giro completo ogni 18 anni e 3 mesi, quando si sovrappone a quelle del sole e della luna, significa che è in atto un eclissi.

 Un orologio magnifico, così come è magnifica l’arte della liuteria cremonese.

Visitare il laboratorio del liutaio Riccardo Bergonzi è una vera e propria delizia, in bilico tra storia e modernità. La “bottega” si trova proprio nel centro di Cremona, in Corso Garibaldi 45. La liuteria è l’arte della costruzione e del restauro di strumenti a corda ad arco (quali violini, violoncelli, viole, contrabbassi, ecc.) e a pizzico (chitarre, bassi, mandolini, ecc.). Il nome deriva dal liuto, strumento a pizzico molto usato fino all’epoca barocca. È un’arte e tecnica artigianale rimasta quasi immutata dall’epoca classica della liuteria (XVI, XVIII secolo). Il Riccardo Bergonzi, che ripercorre le gesta di Carlo Bergonzi (Cremona, 1683 – 1747), mitico liutaio cremonese tra Seicento e Settecento, riesce ad essere al contempo artista estroverso ed eclettico e fine artigiano rigido alle regole costruttive della liuteria cremonese (http://www.riccardobergonzi.com/about.html).

Il lavoro dell’architetto e del designer contemporaneo, consiste oggi, proprio nell’individuazione precisa delle molteplici trasformazioni imposte all’uomo, da una società e da un sistema economico che cerca disperatamente di replicarsi indipendentemente dalla crisi in atto. La società umana oggi è il luogo dove tutti i sedimenti e le stratificazioni  della storia e della memoria umana, si palesano in contraddizioni sempre più evidenti e macroscopiche. Tradurre queste contraddizioni nella propria attività, ed in ciò che si progetta, è oggi quasi una missione obbligatoria di civile denuncia.

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Poco per volta s’è fatta sera


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OLYMPUS DIGITAL CAMERASopra immagini del Teatro Carlo Felice di Genova

La luce a Genova  è un elemento predominate del paesaggio. L’esposizione  est/ovest, della città, schienata a nord dalle montagne, ed a sud contornata dal Mare Mediterraneo, fa si che l’architettura, e la città stessa, “vibrino” alle sollecitazioni luminose. Il cielo mutevole, completa la “magia luminosa” di questa città, particolarmente evidente all’ora del tramonto.

In una giornata di autunno inoltrato, Il teatro Carlo Felice risplende alla luce solare pomeridiana. Il teatro è il frutto di una serie di stratificazioni architettoniche, ed espressione della volontà “ferrea” di Genova di rimanere all’interno del ristretto numero delle città europee della cultura. Il progetto dell’ultimo “strato” del Carlo Felice, quello che vediamo oggi, è opera di Aldo Rossi  Ignazio Gardella, ed anche di Fabio Reinhart e Angelo Sibilla.

La prima pietra fu posta il 7 aprile 1987, e dopo quattro anni di intensi lavori, il Carlo Felice è stato ufficialmente consegnato al Teatro Comunale dell’Opera e nel 1992, in occasione delle Colombiadi, fu riaperto al pubblico. Il primo progetto, del Carlo Felice (il primo strato), fu del 31 gennaio 1825 ad opera di Carlo Barabino. Il progetto fu approvato il 31 dicembre dello stesso anno, ed i lavori procedettero rapidamente. Il teatro fu inaugurato il 7 aprile 1828. Diversi furono gli “strati” successivi,  i restauri e gli ammodernamenti, che il teatro subì a partire dal 1859 fino al 1934, anno dell’ultimo intervento. Bombardato una prima volta nel novembre 1942, il teatro fu ristrutturato in “fretta e furia” per consentire la ripresa delle attività. Il 26 marzo 1943 fu inaugurato. L’8 agosto 1943, l’edificio del Barabino venne di nuovo colpito da spezzoni incendiari che distrussero completamente l’intera struttura lignea. Nel dopoguerra, si cominciò a parlare di una sua ricostruzione. Un primo progetto fu presentato nel 1951 ma venne poi abbandonato per mancanza di fondi. Un progetto, magistrale fu quello di Carlo Scarpa, approvato nel 1977, ma la morte improvvisa dell’architetto fece decadere il tutto.

http://www.carlofelicegenova.it/

La luce è il dato principale, che fa cogliere agli umani, il senso del trascorrere del tempo, della nostra ineluttabile caducità, per altro comune a tutte le cose di questa parte di universo. La luce che c’è a Genova al tramonto, altamente scenografica e teatrale, ci parla di questo, e di una città, che trova nelle sue architetture, a strati, quasi fossero una sopra all’altra, in lotta con le montagne retrostanti, il tentativo di fissare, in un’architettonica commedia,  il trascorrere del tempo.

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