Tra la sera del 29 ottobre e la notte tra il 31 ed il 1 di novembre, mi sono letto “avidamente”, un libro che ho dovuto prenotare alla libreria, perché ormai introvabile. Il libro in oggetto si intitola “In questo progresso scorsoio” (Garzanti – Le forme – 2009) ed è una lunga conversazione di Andrea Zanzotto con Marzio Breda. Ne riporto qui alcuni brani.

1) “Scompaiono le biodiversità e non sappiamo nemmeno se si possa più parlare di natura, visto che la natura è sterilizzata dalla chimica, plastificata e che persino le colline vengono spostate dai bulldozer e ricostruite in favore di sole per ottimizzare i raccolti dei vigneti. Siamo immersi in una tensione continua, che spinge a uno sviluppo cannibalistico, vorace. Un affanno a costruire che ci mangia la terra sotto i piedi, letteralmente. L’effetto è la devastazione e lo spaesamento universale….”

2) “Mi pare che per molti aspetti sia sempre l’Italia secentesca raccontata dal Manzoni nei Promessi sposi, il nostro vero libro etnico e purtroppo ancora futuribile. E non vedo significative differenze tra la Prima e la Seconda Repubblica di una nazione che non ha mai avuto una vera religione civile, un ethos comune. Il nostro era e resta un banalissimo e torvo teatrino (nonostante la storia letteraria abbia sempre tenuto in campo l’idea di un’unità del paese, fin dal Medioevo), con una classe dirigente che si è autosqualficata facendo collassate le stesse strutture dello stato, per il prevalere di una corruzione che ha coinvolto interi ceti, di una classe che ha di fatto osteggiato l’opera di veri e propri eroi lasciati soli contro i pidocchi mafiosi, che anzi vennero distribuiti a metastasi in tutte le regioni. E’ un paese dominato da una volgarità fatua e rissosa (sostenuta da una certa devastante tv), inserito senza troppa coerenza e convinzione tra l’Europa invecchiante e le esplosioni demografiche vicine. Come dire che siamo sospesi tra un mare di catarro e un mare di sperma, mentre intorno a noi enormi mutamenti sono in corso e scienza e tecnica ne trascinano il gioco, a loro volta giocate dai tortuosi e occulti poteri economici.”

3) “ Basta leggere quel bellissimo libro che è Gli ultimi giorni di Gautama Buddha, dove dove è rappresentato il senso della tranquillità di fronte a qualsiasi cosa, anche la più avversa, perché altrimenti il processo di liberazione non può verificarsi. E’ la storia di Buddha che, quando arriva agli ottant’anni, parte con un suo assistente e va in giro a mendicare, in obbedienza al proprio precetto di non possedere nulla. Arrivato da un Re, che naturalmente conosceva la sua predicazione spirituale, e subito accolto e ospitato, a un certo momento Buddha si rende conto che i funghi che gli hanno servito sono velenosi, ma continua a mangiarli finchè muore. Forse pensa, fedele alla sua stessa dottrina, che non deve ricambiare il male con il male…Di fatto, così sospeso tra estrema indulgenza ed estremo ascetismo, sceglie di morire. E anche questo epilogo mi pare mantenga il punto interrogativo se il suo insegnamento si configuri più come filosofia che come una religione.”

Cosa vuol dire oggi paesaggio italiano nell’epoca della cultura 2.0/3.0, della società della rete, sempre connessa. Me lo sono chiesto guardando una persona che conosco, ad un convegno sul paesaggio, che si affannava, con metodologie, anche di rete, a trovare connessioni, tra le persone, tra le tendenze, tra i movimenti. Una cosa impossibile, soprattutto quando al centro c’è il paesaggio, che in Italia, per definizione è  vario, multiforme e quindi frammentato, polverizzato. Come lo sono anche gli abitanti, le genti. Ciò che vale in un luogo, cento metri più in là perde valore, importanza e subentrano nuove categorie. L’Italia non hai mai un unico Genius Loci, sovrapponibile ovunque, ma migliaia, milioni di situazioni locali estremamente diversificate. Probabilmente il paesaggio, nella testa degli italiani, vuol dire contrasti, tensioni, contraddizioni, preservazione di una identità locale, frammentazioni. Vuol dire, soprattutto, che non esiste un’idea comune di paesaggio, ma molte idee di paesaggio; probabilmente paesaggi plurimi. Ciò è ancora più evidente con le nuove generazioni. Infatti le nuove generazioni, che si occupano di paesaggio, le  potremmo definire “critiche”, hanno caratteristiche di estrema introversione, ma sono decise, chiare nei loro intenti ed estremamente critiche nei confronti di qualunque lettura consolidata e “ferma” del paesaggio. Sanno di essere minoritarie, ma in continua crescita. Queste generazioni, che nel complesso potremmo definire come Nuova Generazione Critica, di fatto si antepongono alla generazione critica del sessantotto, che è invece anziana, impotente avendo “ucciso” proprio per frammentazione ed incapacità di unificazione, il movimento politico dei Verdi, che invece in Europa è ormai una realtà consolidata, anche di governo, soprattutto in Germania. La generazione critica del sessantotto è incapace di leggere proprio questa nuova tendenza generazionale, muovendosi, quando ha a che fare con il paesaggio, con categorie “canoniche” consolidate, non adatte a costruire un dialogo. Invece con questa “Nuova Generazione Critica” non bisogna semplificare, cercando per forza una unitarietà, ma bisogna, invece, saper gestire la complessità della frammentazione, in maniera dinamica, colta, direi “fluida”, con forti contenuti anche autocritici. Bisogna sviluppare una comunicazione (anche in rete) e degli eventi, con forti caratteristiche innovative,  senza sensazionalismi o troppo ricchi di “memoria”, oppure eccessiva “eleganza”, ma con forti caratteristiche “virali”, e “trasgressione”. Comunicazione ed eventi che soprattutto siano sui fatti…… e nei fatti e consentano alla gente di raccontarsi, piuttosto che cercare di interpretarla.


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