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Filosofia

“Architettura morta”


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Esiste una relazione tra architettura e musica, tra canzonetta e paesaggio. Anche Claudio Baglioni fa outing durante la trasmissione “Deejay chiama Italia”. Si scopre così che ha studiato architettura a Roma (studente lavoratore dichiara), e una decina di anni fa circa, ha pure conseguito l’abilitazione per esercitare la professione. Quindi oltre ad Edoardo Bennato, che pure professa ormai da anni (http://bit.ly/1eF89mx), anche l’ex “ricciolone belloccio” deroma, discetta amabilmente con i due conduttori, sancendo con autorevolezza che : “In Italia l’architettura è morta!”

http://bit.ly/1j0ac26

Ci voleva Baglioni per ricordarci ciò? Eh si, forse si. Infatti parafrasando probabilmente inconsapevolmente, il titolo di un noto libro di Giorgio Grassi, Baglioni, focalizza di nuovo, dichiarandone la morte, per la gente comune, ma anche per noi architetti, l’attenzione su questa bistrattata (in Italia) disciplina.

Scriveva infatti G.G. nella presentazione di un suo libro di “Scritti Scelti 1965-1999” : “Questo libro è fatto soprattutto per gli studenti di architettura, per i futuri architetti, quelli che secondo Hannes Meyer dovrebbero “consegnare le piramidi alla società del futuro”,con la speranza che sentano di nuovo il forte bisogno di mettere in discussione per prima cosa la ragione di essere del loro lavoro, cioè la ragione di essere (e la responsabilità) di un lavoro tanto antico da includere appunto perfino le piramidi; è però dedicato ai miei vecchi studenti e anche a quelli un po’ meno vecchi, ma che hanno avuto tutto il tempo per imparare, a loro spese, che non è affatto facile mantenersi fedeli alle scelte che si sono fatte a scuola spinti dall’entusiasmo, ma che è ancora più difficile tradirle dopo, sapendo che una volta, anche se per breve tempo, le si è credute decisive e per sempre.” 

Appunto un lavoro così difficile, che oggi non c’è più, essendo quasi completamente scomparso il lavoro, e quindi la ragione stessa di essere architetti. Nessuno lo dice, ma dopo il paesaggio, o meglio contemporaneamente alla sistematica distruzione del paesaggio, in Italia, si è definitivamente uccisa la professione dell’architetto. Oggi chiunque, in Italia, magari lettore spietato di Casamica, si picca di essere architetto ed insegnare a chiunque una disciplina che necessita di anni di studio per essere appieno compresa. Un omicidio-suicidio, infatti anche noi architetti abbiamo contribuito a questa “morte” sancita dal Baglioni, non tutelando il nostro mestiere e consentendo che sia costantemente oggetto di saccheggio e razzia da chicchessia.

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Le immagini soprastanti sono dell’Auditorium di Ravello (Na) – progetto Oscar Niemayer

Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate

Il Regno di Lo (Fino alla fine dell’uomo – Parte II)


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Il vertiginoso sviluppo della Cina, contamina inevitabilmente i più deboli tra i Paesi limitrofi che offrono un terreno fertile ad eventuali accordi per uno sviluppo congiunto. Per esempio il Nepal si infrappone tra due nuove superpotenze economiche, la Cina e l’India, orientandosi su una lingua di terra che segue da est a ovest, la catena dell’Himalaya.

E’ da anni che la Cina, facendo campo base sull’altopiano tibetano, preme sul confine nepalese per cercare un varco attraverso il tetto del mondo, per aprirsi sulla nuova potenza economica indiana.

All’atto pratico ciò che occorre è un sistema infrastrutturale che si dirami dalla Cina verso i territori del sud, scavalcando l’impossibile barriera “degli 8.000” Himalayani. Negli ultimi anni del 900, sono stati trovati dei valichi che potenzialmente offrivano la possibilità fisica di realizzare una strada carrabile, approdando sul confine Indiano, attraverso lo stretto stato del Nepal. Storicamente la strada è il primo segno di una volontà chiara di sviluppo e nel passato anche sinonimo di progresso.  La realtà oggi presenta un rovescio della medaglia.

Tra i pochi punti individuati per creare la nuova strada, fu scelto il piu praticabile. L’orografia del terreno poteva essere modificata, gli accordi tra i Paesi interessati, sanciti.

Rimaneva solo un problema da risolvere.

Il Regno di Lo. La potenziale via di comunicazione, entrando in territorio nepalese, penetrerebbe come un cuneo in uno dei patrimoni più preziosi dell’umanità.

Esiste un luogo incastonato tra uno dei territori più impervi del mondo, posto a oltre 4000 mt di altitudine chiamato oggi Mustang. Questa piccola parte di mondo trovò la sua identità oltre un millennio fa, quando alcune etnie tibetane si spostarono nel cuore dell’Himalaya provenendo dall’attuale Tibet e sconfinando nell’attuale Nepal. Si trattava di poche persone forse un migliaio, comandate da un re e da una regina che decisero di fermarsi e creare il loro luogo di permanenza lungo il fiume Kali Gandaki, in un fazzoletto di terra di circa 3.500 kmq, distribuendosi in piccoli villaggi fatti di poche anime e altrettante poche case realizzate con fango e paglia. Era il luogo ideale dove fermarsi, un piccolo altopiano tra alcune delle montagne più alte del mondo, dal Dhalaugiri 8167 mt. all’l’Annapurna 8091 mt., che offriva la giusta protezione e il minimo di terra fertile, nutrita dal fiume eterno.

In poco tempo il Regno di Lo venne istituzionalizzato e la popolazione si isolò nei secoli dal resto del mondo. Poiché l’accesso al regno è stato sempre di difficile percorrenza (unicamente a cavallo o a piedi) e trattandosi di poche persone pacifiche, anche nel 1951 quando divenne ufficialmente territorio nepalese e denominato Mustang, mantenne la sua identità istituzionale e lo stato di clausura antropologica. Questo isolamento volontario dalla civilizzazione ha concesso che si generasse un incubatore spontaneo, dimenticato dal mondo, nel quale si è preservata la cultura di quel popolo, congelandola al momento in cui formarono il loro regno e le montagne fecero da recinto, fermandola nel tempo in una sospensione mistica fino al 1992.

In quell’anno venne data dal Nepal la possibilità al turismo di nicchia di accedere al Regno, seppur in modo limitato (solo un centinaio di presenze all’anno e attraverso permessi speciali) dando avvio ad un inevitabile (programmato?) lento declino del Regno di Lo.

Fino a quel momento nel Regno, tutto ciò a cui si poteva ambire o era necessario non poteva che ricavarsi dalla terra, dagli animali e dallo spirito, dove i sudditi possedevano tutti una casa e un pezzo di terra. Dove il ritmo della vita era scandito dal sole e della luna, dall’inverno e dalla primavera e soprattutto della preghiera. L’idea del luogo segreto, di pace e felicità, così come rappresentato da Frank Capra nel film Orizzonte perduto, trova senso in quello che doveva essere il Regno di Lo fino a qualche decennio fa.

Un paradiso segnato però da quella che un tempo si chiamava “semplicità” e che oggi alcuni confondono con la povertà, e dalla durezza delle condizioni di vita in alta quota per tutti i suoi abitanti (oggi circa 15.000 incluse le etnie nepalesi).

Questo lento processo di apertura al mondo, vede negli ultimi anni una rapida evoluzione, oggi l’accesso al Mustang è ancora limitato al turismo di massa, ma i permessi d’ingresso sono aumentati fino ad oltre un migliaio all’anno.

Come risultato, l’identità culturale e l’antico retaggio della popolazione si sono notevolmente disgregati.

Nel 2009 quando ebbi occasione di accedere al Regno di Lo, camminai due settimane per oltre 250 km e dovetti scavalcare valichi in alta quota per arrivare a Lo Manthang, ultimo villaggio fortificato tibetano di cui si ha conoscenza, con alcuni dei più importanti templi del buddhismo himalayano, dove ancora oggi risiede il Re. Già allora trovare un caterpillar a oltre 5.000mt di quota fu uno shock. Oggi sapere che quello stesso tragitto si può percorrere in jeep in poche ore di viaggio mi lascia uno strano sentimento addosso.

Jigme Parbal Bista l’anziano re dell’antico Regno di Lo, che per quanto oggi rappresenti solo una figura simbolica, alla mia domanda su cosa ne pensasse della nuova strada, ha alzato le spalle e fatto un sorriso, non una parola, solo due occhi lucidi.

Il problema del regno di Lo era quindi stato risolto.

Non voglio pensare che sia stata una subdola manovra studiata a tavolino, ma sta di fatto che oggi è in corso di costruzione la parte finale di una pista che attraverserà il Mustang dal confine cinese fino a Jomson, aprendo l’importantissimo passaggio nell’Himalaya, tra l’India e la Cina. Tutto come se fosse la naturale evoluzione delle cose, con una stridente rassegnazione da parte di un popolo che fino al 1992 viveva isolato dal mondo e che oggi già ambisce ad avere un cellulare ed una televisione.

La nuova via di comunicazione voluta dal governo cinese, nepalese e indiano da una parte contribuirà al progresso economico dei Paesi, dall’altra esporrà le comunità locali a quella forma di globalizzazione che a mio avviso non potrà essere sostenuta in un processo di evoluzione così rapido. La velocità con cui questa popolazione si vedrà proiettata nella “civiltà” alla quale si era negata per secoli non potrà che avere un solo effetto che disgregherà, dissolvendola, una delle ultime culture del nostro passato che ancora vale la pena preservare e che rappresenta una tra le più preziose ricchezze dell’Umanità a cui si può ambire.

Marco Splendore

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OPorto poetic


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41 progetti di architettura in mostra, 215 pezzi di design, 540 fotografie d’autore, 28 filmati in proiezione, tantissimi plastici, schizzi e disegni originali. Questa è la mostra “Porto poetic” che si tiene alla Triennale di Milano (http://www.triennale.it/en/), sotto l’egida dell’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Portoghese e la collaborazione del Canadian Centre for Architecture (CCA) e del Museum of Modern Art  (MoMA). Il tutto dal 12 settembre al 27 ottobre 2013.

La bellissima mostra, narra le vicende architettoniche di Álvaro Siza e Eduardo Souto de Moura, e di tutta la Scuola di Oporto (come si scrive in italiano) negli ultimi decenni, dalla rivoluzione dei garofani (http://it.wikipedia.org/wiki/Rivoluzione_dei_garofani) all’oggi, dimostrando con i materiali, la forza dell’architettura pensata, poetica. Ma soprattutto l’eccezionalità comunicativa e la forza rivoluzionaria, del “disegno che si fa realtà spaziale”.

Scrive Alvaro Siza in “L’importanza di disegnare” (Skira, 1997) . “Il disegno è una forma di comunicazione con l’io e con gli altri. Per l’architetto, è anche, tra i tanti, uno strumento di lavoro, una forma di apprendere, comprendere, comunicare, trasformare: una forma di progetto. L’architetto potrà utilizzare altri strumenti; ma nessuno sostituirà il disegno senza qualche perdita, nemmeno il disegno sostituirà quello che appartiene agli altri. La ricerca dello spazio organizzato, l’approccio calcolato di quello che esiste e di quello che è desiderio, passano attraverso le intuizioni che il disegno introduce immediatamente nelle più logiche e partecipate costruzioni, alimentandole e alimentandosene. Tutti i gesti (anche il gesto di disegnare) sono carichi di storia, di incosciente memoria, di incalcolabile, anonima sapienza. E’ necessario non trascurare l’esercizio, perché i gesti non si contraggano, e con essi il resto.”

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Cirillo e la Democrazia


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SCENA INIZIALE

“Si può essere felici senza avere 1000 amici su Facebook! La solitudine è anche una fonte di felicità.”

“Penso che un viaggio offra l’occasione ideale per incontrarsi e riflettere su se stessi.”

“Io sono stato in politica, e se ho capito bene, con il rischio che si prende personalmente a fare tale attività a perderci è sempre la Democrazia.”

Sono alcune celebri frasi di Cyril Aouizerate (http://www.cyrilaouizerate.com/), francese, filosofo barbuto ed urbanista occhialuto, spesso dotato di  bombetta e maglietta. Un uomo che non passa certamente inosservato, sembra un rabbino contemporaneo. E’ invece un astuto investitore, un abile operatore nel campo della ristorazione e degli alberghi (M.O.B., Mama Shelter, ecc.). Dal 2012 è direttore della Città della Moda e Design di Parigi (http://www.citemodedesign.fr/), fondata quattro anni fa sulle rive della Senna al Ponte di  Austerlitz e rimasta per parecchio tempo uno spazio vuoto in cui nessuno ci voleva andare. Con lui è “rifiorita” fino a diventare (in piena crisi economica europea) uno dei nuovi “epicentri” parigini.

CAMBIO DI SCENA

Dipartimento dell’Hérault nella regione della Linguadoca-Rossiglione – Agosto 2013 –  La spiaggia di Sète, si trova, vicinissima all’omonima cittadina francese, su una fascia sabbiosa larga da 500 metri a 1 km e mezzo, che separa il Mare Mediterraneo dal bacino di Thau. Una spiaggia di sabbia di conchiglie che qui si disgregano da milioni di anni. Il mare è sempre limpido e cristallino. La spiaggia è molto lunga, le persone sono rade, anche ad agosto. Alcune donne prendono il sole a seno nudo, altre preferiscono il nudo integrale. Poco più in là, sopraggiunge una famiglia di cinque persone, tre uomini e due donne, tutte di nero vestite. Assemblano una tenda, le donne vi entrano, e successivamente vi fuoriescono con una specie di tuta integrale, rigorosamente nera, che copre anche i capelli. Poco dopo a veloci falcate percorrono la bollente sabbia di conchiglie e raggiungono il mare. Nuoteranno vestite (anche con occhiali da sole) per circa un’ora, raggiunte anche dagli uomini con normali short da bagno. Il tutto avviene nell’indifferenza e nel rispetto reciproco.

RITORNO ALLA SCENA INIZIALE

Aouizerate, si ostina a sostenere, che la società contemporanea, le stesse città, e quindi anche le strutture alberghiere, la ristorazione, ecc.. devono essere progettate per essere, come dei “Kibbutz contemporanei”, dove persone di diversa etnia, religione, cultura, possono incontrarsi, cibarsi, rigenerarsi, fare affari, ecc.., in ambienti che siano in grado di generare quell’accoglienza e quel rispetto per ognuno, che è alla base della democrazia. Un bell’esempio in tal senso è l’Hotel “Mama Shelter” di Marsiglia (http://www.mamashelter.com/marseille/), “business” progettato dallo stesso Cyril Aouizerate, da Phlippe Starck e dalla famiglia Trigano, che così si ripartiscono le quote di azionariato di questa catena francese di alberghi :

Mama Shelter – assetto societario

Famiglia Trigano 54% (gestione hotel)

Michel Reybier 27% (investitore)

Cyril Aouizerate 11% (filosofo ed urbanista)

Philippe Starck 8% (architetto e designer)

Localizzazione della struttura, rigorosamente in un quartiere degradato in un’area semi-centrale, prezzi modici, grande qualità degli spazi comuni, cibi sani e di ottima qualità, wi-fi gratuito, camere semplici spartane con parecchio cemento armato a vista, personale giovane e molto affabile, ecc.. Il tutto confezionato con leggerezza, dai “deliri” e dalle genialate, ben conosciute, di Starck (http://www.starck.com/).

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Il seminatore


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Il seminatore, non deve essere conformista. Il seminatore deve essere creativo. Chi progetta, sa chiaramente cosa intendo dire, ma anche chi insegna lo sa. Dare senso a quello che si fa, costituisce per l’insegnante ed il progettista accorto, l’unica maniera per garantirsi “sempre” un risultato. Esattamente come il seminatore, il quale piantando il seme nella terra, spera di conseguire, quale risultato finale, un frutto, perfetto, bello e sano. Ma il seminatore sa (come il progettista ed il docente), che quel piccolo seme, sarà alla fine, quello che dovrà essere, se la seminagione avviene nel momento dell’anno più opportuno, nel terreno più adatto. E poi se quel seme riceverà acqua e calore, luce e un pò d’amore, diventerà una pianta. La quale, pianta, è soggetta all’attacco di parecchie patologie, che dovranno essere costantemente tenute sotto controllo, monitorate, e respinte nella maniera migliore e più naturale possibile. Altra acqua, calore e luce, garantiranno a quella pianta (insieme all’accudimento che è anche amore per noi esseri umani), di fiorire. Se il fiore sarà casualmente impollinato da un insetto o dall’aria, si avrà un frutto, al quale necessiterà per maturare, altra acqua, calore e luce.

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Insomma, quasi sempre, se nasce da un seme, una pianta e poi un frutto, il risultato è il conseguimento di un “piccolo miracolo”, spesso dovuto alle capacità del seminatore (progettista o docente che sia), il quale deve essere “geniale”, uscire “fuori dagli schemi”, per poter garantire, con sapienza, ed accuratezza il risultato finale. Perchè è nell’orto che il seminatore, colto ed attento alla economia di gestione, al riciclaggio, al consumo di energia, dimostra quello che vale come costruttore di futuro. E’ nell’orto, luogo dell’eccellenza, che tutto si organizza intorno a tre elementi centrali : terra, acqua, sole. Come scrive Gilles Clèment nel superlativo libro : Breve storia del giardino – edizioni Quodlibet, 2011 : “Virtualmente nell’orto  non manca nulla: l’utile e il futile, la produzione e il gioco, l’economia e l’arte. L’orto attraversa il tempo e racchiude in sè il sapere….. Nelle campagne la parola giardino non designa altro che un orto, il resto è paesaggio; quando quest’ultimo è organizzato, si parla di parco”.

E poi ancora, un vero e proprio insegnamento, un percorso chiaro e facilmente intelligibile, da seguire,  per il seminatore : “La storia (ndr – dell’orto) ci parla poco del tempo – del tempo che passa, della durata, del tempo che consente l’impianto al suolo, dell’incontro fra gli esseri viventi, dell’ibridazione e della nascita dell’imprevedibile. La storia preferisce le forme e i grandi gesti architettonici che hanno lasciato una traccia sorprendente e indiscutibile del genio umano. Eppure è quì, nello spazio del tempo (ndr – nell’orto), che a mio avviso si delineano le questioni del futuro”.

E ciò è sempre vero, per un progetto, ma anche per un percorso didattico.

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Mangiare il paesaggio


Il paesaggio italiano è un’esperienza enogastronomica perenne, affinata e stratificatasi nel corso del tempo. Come popolo, veniamo allevati, sin da piccoli, con una “cultura quasi genetica” (forse l’unica cosa che ci tiene assieme), per consumare il cibo giusto al momento giusto, ed ogni cibo è espressione di un’identità locale precisa. Spesso siamo circondati dalla bellezza del paesaggio e ad ogni passo una “ruina” o un’opera d’arte ci ricordano chi siamo e da dove veniamo. Poi tutto và in malora, quando cresciamo, spesso dimentichiamo . Siamo proiettati nel futuro, consumista e capitalista. Per decenni, ibridiamo, mescoliamo, “dimentichiamo” questa cultura inoculataci nel genoma.

In età avanzata, però, quando la memoria, giorno dopo giorno, ci fa tornare indietro nella nostra storia, ecco che ci ricordiamo della nostra “genetica enogastronomica”, che è un sapiente impasto di cibo e paesaggio. Spesso cerchiamo di recuperare questa “dimensione nascosta”, che tutti abbiamo.

Il “gioco” della memoria, mi riconduce spesso, in questi anni travagliati, alla mia infanzia, passata a Cusano Milanino, dove, all’innegabile bellezza della prima e unica città giardino italiana su modello inglese, continuamente associavo dei prodotti locali, realizzati o nell’orto di casa o nella Cascina Milanino, che allora era immersa nei campi di grano, granoturco ed ortaggi.

Ecco qualche sera fa, un caro amico, anzi dei cari amici, mi hanno consentito di imbandire una tavola “tavola della memoria” sontuosa e principesca, fatta di prodotti locali a chilometro zero. Quella sera mi sono mangiato con la mia compagna, un pezzo del paesaggio del Nord Milano. Un pezzo della nostra storia territoriale.

Superficie impermeabilizzata in Lombardia – Fonte : Arpa Lombardia

Piano Intercomunale Milanese (PIM).Propensione al consumo di suolo nel Nord Milano al 2008 – Fonte : PIM11_Atlas_Prop consumo suolo copia.jpg

Quello che sembra un territorio perso, cementificato, saturo ed inquinato, il Nord Milano (dove si muore per cause direttamente correlabili all’inquinamento da micropolveri sottili, fino a 3 volte più che a Milano), ha prodotto, nei “ritagli” di terreno non ancora reso impermeabile, grazie alla fatica e l’impegno di amici : 1) Erbette deliziose, prodotte a Bollate vicino alla Rho-Monza, mangiate bollite con erba cipollina (coltivata sul balcone a Sesto San Giovanni), aceto fatto in casa (da me con lo spaghetto, sempre a Sesto) ed olio di Riva del Garda (che vado a prendere direttamente al frantoio una volta l’anno); 2) Pane fragrante di grano duro (bio) del panettiere pugliese che stà sotto casa; 3) Uova, piccole e bianche, ma gustosissime di galline ovaiole ruspanti americane, prodotte ad Ospiate di Bollate; 4) Meravigliosi broccoli prodotti a Bollate a lato della Rho-Monza, bolliti e saltati con aglio peperoncino ed olio; 5) Cornetti bolliti (prezzemolati con un prodotto sempre da balcone e con aglio ed olio) prodotti sempre a latere della Rho-Monza; 6) Acqua gassata e fresca, presa alla fonte comunale di Cusano Milanino (l’acqua migliore del Nord Milano); 7) torta deliziosa di pastafrolla, fatta da me con farina “00” biologica, prodotta nel Parco delle Groane ed impastata con burro prodotto a Brugherio dal Caseificio “La Murgia”, marmellata di prugne di Paderno Dugnano (prodotte negli orti dietro al cimitero) fatta in casa, con zucchero, scorza di limone e cognac, ovviamente acquistati al Centro Sarca che dista 120 metri da casa mia.

Il Nord di Milano visto dalla torre Garibaldi

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In merito alla correttezza


Roma – Adalberto Libera : Palazzo dei Ricevimenti e Congressi, 1939- 1954.

Ma cosa significa essere corretti nel campo dell’architettura, dell’urbanistica, del paesaggio? Di solito, il termine “corretto”, viene utilizzato per definire un progetto che persegue delle finalità morfologiche, tipologiche, compositive e tecnologiche, adatte per un determinato luogo in una determinata epoca. Spesso, con il termine “corretto”, mediando dalla logica matematica,  è stato erroneamente definito, ogni progetto che persegue finalità geometriche : sezione aurea, regole di Fibonacci, ecc.. Oppure, all’opposto, soprattutto oggi, applicando con rigore la trasgressione del termine,  è facile produrre un progetto che “delira”, dal punto di vista solamente estetico, secondo i presupposti, le mode, il design, tipici di un periodo.

Certamente corretto era, ad esempio, il Palazzo dei Congressi di Adalberto Libera all’Eur di Roma, viene da chiedersi se il Nuovo Centro Congressi sempre all’Eur di Massimiliano Fuksas sia trasgressione della correttezza, o edificio corretto.

Scrive Enrico Thovez nel suo bel libro “Il viandante e la sua ombra “ (Napoli, 1933) : “ Torino, questa città di cui si parla con rispetto per le sue benemerenze patriottiche, ma con un sorriso di commiserazione per la sua monotonia uggiosa, sarebbe la più bella città del mondo se la sua pianta fosse diversa, se le sue vie non fossero tirate a squadra, se le sue case avessero un altro aspetto, e se i torinesi somigliassero meno alle loro case e alle loro vie; ma soprattutto se non avesse avuto la sventura di essere tenuta a battesimo da un popolo senza gusto.” . E’ chiaro che qui emerge una visione molto diversa del termine, data da una regola logica individuale e quindi personale, così personale da rendere “non corretto” ciò che ai più, risulta invece estremamente corretto e rigoroso.  Ecco la “rottura sistematica” della correttezza (rottura spesso gratuita), sia nelle discipline architettoniche, che in moltissime delle manifestazioni umane (ad esempio i rapporti tra le persone), appare oggi, nella società super-fluida del 2.0, abituata a vivere in una dimensione  di continua guerra economica, come una regola costante incontrovertibile. Ma è un bene o un male ciò? Difficile dirlo, certamente dal mancato rispetto della “regola della correttezza” ed all’opposto della sua trasgressione consapevole, si viene a creare una condizione “sospesa” in cui è più facile fare dei morti che dei prigionieri.

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Le Roi


Per François Mitterrand, la prima arte era l’architettura, infatti la sua storia ufficiale, ci racconta dell’interesse personale di “Monsieur le Président”, su  questo argomento, perseguito quasi con accanimento. La Cité des Sciences de La Villette di Bernard Tschumi inaugurata nel 1986, l’Opera-Bastille progettata dall’ architetto canadese-uruguaiano Carlos Ott inaugurata per le celebrazioni del bicentenario nel 1989, il Grand Louvre con la Piramide  dell’architetto cino-americano  Ieoh Ming Pei del 1989, il Grande Arco alla Defence di Otto Von Sprekelsen del 1989,  la Bibliothèque Nationale de France che è stata ufficialmente inaugurata da Mitterrand nel 1994 (ma aperta solo nel 1996), il progetto per la Città della Musica progettato dall’architetto francese Christian de Portzamparc del 1995, sono solo alcuni degli edifici pubblici (e soprattutto quasi esclusivamente a vocazone culturale) voluti a Parigi, ed a volte, seguiti direttamente, quasi con ossessione, da Mitterand nella loro evoluzione e realizzazione. Questo accanimento, si rivoltò contro Mitterand, che in vita fu considerato dall’opinione pubblica, un Re-Faraone, per la quantità di grandi opere architettoniche realizzate nella capitale francese. Non a caso, poco prima di morire (a causa di un male incurabile) Mitterand intraprese un faticoso viaggio in Egitto. Se però è vero l’assioma, che i dirigenti di un Paese si possono valutare in base al volto delle loro città, ed  in funzione del lavoro dei propri architetti, possiamo tranquillamente asserire che il paesaggio italiano, in merito, riserva anche quì degli aspetti inquietanti.

François Mitterand al Louvre

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Metabolism Talks…..


Un “Dream Team”: Rem Koolhaas e Hans Ulrich Obrist, due viaggiatori spazio temporali incalliti, due “visionari”, quali autori. A stì due aggiungete una Designer grafica “de paura” Irma Boom (un cognome un programma). Se poi ci mettete il tema, che però a sto punto è un pò come la ciliegina sulla torta : I Metabolisti (anni Sessanta), ecco a voi sfornato, per i tipi di Taschen, un librazzo, un volumone di sicuro successo (anche perchè ha un costo accettabile € 39,90).

Tra i ringraziamenti degli autori, anche l’onnipresente Stefano Boeri, che avendo un’età matura (è del 1956), ha potuto apprezzare i “deliri” di Kenzo Tange,  Fumihiko Maki, Kisho Kurokawa e soci, contestualizzati in quell’irripetibile periodo storico.

Che dire, un prodotto che mancava, affascinante, ricco di preveggenza e di possibili “porte” per il futuro  dell’architettura . Si fa il punto, parlandone con i sopravvissuti, del primo movimento di architettura non occidentale. Dopo la “tabula rasa” della Seconda Guerra Mondiale, culminata con le atomiche giapponesi, i Metabolisti hanno rappresentato lo stile l’architettura della ricostruzione (ovviamente filo-occidentale) e dopo l’Expo 70, tenutasi in Giappone, hanno conquistato il Mondo e soprattutto l’Oriente. Tantissime foto rare di progetti visionari, belle immagini e “ghiotte” interviste.

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