Le prese per la corrente degli svizzeri, sono completamente diverse da quelli di ogni altra parte del mondo, e utilizzare un adattatore normale europeo, spingendo e trafficando, spesso non serve a niente, non funziona. Ci vuole l’adattatore svizzero, che è un oggetto assolutamente unico, una particolarità, che, se ce ne fosse bisogno, caratterizza ulteriormente questa esemplare Nazione.
La prima volta che sono stato a Davos era estate, una di quelle estati calde, che solamente l’alta montagna svizzera riesce a mitigare. Il mio obbiettivo era preciso, visionare lo Sport Zentrum Davos, che gli architetti Gigon & Guyer, avevano appena finito di completare. Quì ho anche potuto anche visitare il Museo Kirchner, sempre realizzato dai due zurighesi, non molto distante dal primo. Vi riporto, quì di seguito, alcune considerazioni, che abbiamo fatto allora con le persone che mi accompagnavano, un ingegnere e tre architetti.
Questi due edifici, costruiti nello stesso decennio, gli anni Novanta del Novecento, di fatto sono la dimostrazione della particolarità svizzera. L’utilizzo del legno e del beton, che caratterizzano la materia con cui sono finiti i due edifici, rappresentano, anche un “marcatore” necessario per caratterizzare la funzione a cui sono destinati . Ma soprattutto, servono, per inserirli al meglio nel paesaggio, a farli implementare nel corpo urbano e nella natura circostante.
Nel caso dello Sport Zentrum, il legno è asservito ad eseguire una “mitigazione”, di un impianto tecnico importante e quindi invasivo, rifacendosi alla grande architettura tradizionale del Canton Grigioni, costruita essenzialmente in legno, in moltissime sue componenti. Nel secondo caso, il Museo Kirchner, invece, la pietra “cotta e liquefatta”, il beton, riprende chiaramente la solidità monumentale delle montagne, che circondano la località sciistica. Quì il Beton a vista, restituisce anche la necessità di essere, l’edificio, “contenitore sicuro”, “teca preziosa”, per le opere di Ernst Ludwig Kirchner (Aschaffenburg, 6 maggio 1880 – Davos, 15 giugno 1938) che è stato un grande e famoso pittore, scultore, nonchè incisore tedesco.
Ecco che, allora, i due materiali, scelti dai saggi architetti svizzeri Gigon & Guyer, diventano portatori dell’essenza stessa del paesaggio di Davos, facendo diventare i due edifici dei veri e propri Landmark, insostituibili, come lo è il paesaggio che li circonda. Ed il paesaggio svizzero, proprio perchè parte indispensabile della “diversità” di questa nazione, è oggetto di una specifica “concezione e strutturazione”, a cui si dedica un’ente apposito L’UFAM (Ufficio Federale dell’Ambiente).
Si legge nel documento CPS (Concezione Paesaggio Svizzero) : “Il paesaggio svizzero è il risultato dell’azione concomitante di processi naturali, fattori culturali ed economici e della percezione. L’influenza dell’uomo sul paesaggio è quindi duplice: da un lato è il prodotto dei nostri interventi sul territorio e dall’altro è la raffigurazione mentale di come noi lo percepiamo”. Il nostro modo di vivere, intendere e ricordare i paesaggi è strettamente influenzato non solo dai nostri stati d’animo, ma anche dai giudizi di merito dettati dalla nostra cultura. La stretta interazione che esiste tra uomo e natura, quì a Colmar appare quanto mai mediata dall’architettura e dalla materia, anche culturale (ma non solo), di cui l’architettura stessa è fatta.
Sport Zentrum Davos 1997
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Napoli è complessa, sporca, multietnica, caotica, povera e ricca contemporaneamente, truffaldina e cialtrona, però è anche una città affascinante, proprio per queste sue contraddizioni, sempre in bilico tra un passato prestigioso ed un futuro precario e “baro”. Spesso attraversandola, si ha come l’impressione di cogliere, per alcuni istanti, la vera immagine dell’Italia, che città come Milano o Torino, o la stessa Roma, non restituiscono, perchè troppo patinate, fedeli alla loro immagine consolidata, e proprio per questo “false” e non in grado di incarnare lo spirito di una Nazione.
La prima cosa che colpisce di Napoli (soprattutto chi, come me, non ci tornava da oltre tre decenni), è che quasi tutto costa circa un 40% in meno che a Milano, che il traffico automobilistico è “folle”, che attraversare una strada piedi è un’impresa improba. Nei quartieri periferici, la pattumiera viene ancora oggi conferita in enormi cumuli, direttamente lanciandola dall’auto in corsa. Eppure la città è un brulichio continuo di gente, che compra, vende, maneggia ogni cosa. E’ un fermento continuo di idee di iniziative, di eventi, di genialità. Quì sembra, nonostante l’estrema povertà di ampie fasce della popolazione, che la “crisi economica” abbia già trovato una sua risposta, probabilmente in un’economia sommersa, illegale (che esiste da sempre), ma che consente a molti di sopravvivere. Un’economia probabilmente intrecciata (mani e piedi) con la camorra, che lascia dietro di sè una “striscia di sangue”, un’economia sicuramente da stigmatizzare, ma che è molto più efficiente e dinamica della così detta “Agenda Monti”, che uccide lentamente, nel corso del tempo, ed in silenzio, in un “mare di tasse”, magari con il sorriso o con la “lacrimuccia”.
Il territorio storico napoletano, è stato sistematicamente inghiottito, da un costruito incoerente e casuale, molto spesso abusivo, oltre ad essere oggetto di rilascio nell’ambiente di inquinanti, troppo spesso provenienti dal nord. Un territorio, che solo localmente, trova quà e là una sua estetica “pittoresca e pop”, in grado di inserirsi nel paesaggio una volta bellissimo della piana che contorna il Vesuvio, delimitata dal golfo di Napoli.
Per osservare bene Napoli e capirne la logica del suo territorio, bisogna salire in alto, dove si gode dello scempio del paesaggio ma anche del fascino dei contrasti “brutali” tra recenti brutture e splendidi edifici storici. Oppure camminare per gli infiniti vicoli, vie e viuzze, che di fatto rappresentano uno spazio intermedio tra l’alloggio privato e lo spazio pubblico. Un luogo che non è un interno, ma che non è nemmeno, ancora, veramente, un esterno. E’ quì che avviene la vita dei napoletani, che ci si rappresenta. Si gioca a carte, si stendono i panni, si fa mercato, soprattutto si parla con gli altri, si urla, si ride, e si scrive sui muri il disagio di una città, che come tutto il Paese Italia è divisa. Metà “rema contro” (non paga le tasse, delinque, trasgredisce le leggi, ecc.), e metà, si dà da fare per portare avanti le sorti di una Nazione (lavora, rispetta le leggi, studia per migliorarsi, ecc.). E questo avviene da sempre, o perlomeno dall’epoca dei Borboni, che si insediarono a Napoli, facendola capitale del Regno delle Due Sicilie (1734). Ecco perchè Napoli è, per me, oggi, è la rappresentazione migliore dell’immagine attuale dell’Italia.
Ma a Napoli, le anteposizioni, sono spesso l’una accanto all’altra e, proprio perchè evidenti per chiunque, fanno riflettere. Degrado, pattume, spreco, hanno contigue, innovazione, progetto, futuro. Il progetto della “meravigliosa” (e costosissima) Stazione della Linea 1 della metropolitana di Napoli, di “Toledo”, inaugurata nel novembre 2012, è dell’architetto catalano Oscar Tousquets Blanco, che si è sbizzarrito in una operazione “insensatamente opulenta” e di forte caratterizzazione spaziale. Quasi un museo ipogeo. Gli interni sono impreziositi da opere di William Kendridge, Bob Wilson e Achille Cevoli. Una stazione molto profonda, oltre 50 metri dal livello del suolo e un volume di 43.000 metri cubi. Complessivamente gli utenti dovranno percorrere cinque piani per raggiungere le banchine, attraversando una vera e propria “galleria coloristica”, dove uno spettacolare “occhio” collega la superficie con la grande hall sotterranea a mosaico bianco e blu. Da apposite riviste di settore, è stata insignita della definizione di “stazione della metropolitana più bella d’Europa”. Nonostante ciò la gestione “libertina” dei tempi e dei fondi europei, anche quì utilizzati con molta “leggerezza”, ha suggerito una riprogrammazione e rifinanziamento, per il completamento di un’opera, la Linea 1, che sembra infinita, ma fondamentale per la mobilità pubblica di Napoli. Appunto complessità e contraddizioni, e soprattutto poco buon senso e un’amministrazione per nulla oculata e saggia………….come in tutta Italia.
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“Un mattino, preso dal desiderio di fare una passeggiata, mi misi il cappello in testa, lasciai il mio scrittoio o stanza degli spiriti, e discesi in fretta le scale, diretto in strada. Sulle scale mi venne incontro una donna dall’aspetto di spagnola, di peruviana o di creola, che ostentava non so quale pallida o appassita maestà. Per quanto mi riesce di ricordare, appena fui sulla strada soleggiata mi sentii in un disposizione d’animo avventurosa e romantica, che mi rese felice. Il mondo mattutino che mi si stendeva innanzi così bello come se lo vedessi per la prima volta.” Robert Walser – La passeggiata – Adelphi 1976
Se vi capita di andare a Merano, non potete mancare l’occasione di fare un piccola passeggiata. L’ideale è di pranzare alla Birreria Forst, in via Venosta 8 a Lagundo/Foresta.
Quì dopo aver assaporato la deliziosa birra prodotta in loco (Premium, Kronen, Sixtus, ecc.), magari accompagnata dal piatto del Mastro Birraio (mezzo stinco di maiale, salsicce, canederli, crauti e rafano), vi troverete nelle condizioni ideali per fare una “digressione paesaggistica”. Dal retro della Birreria, presa la Untergandlweg, sarete accompagnati tra i campi di mele, al primo incrocio prendete a destra la Pendlerweg, dove, sempre tra i meleti, potrete godere di un paesaggio maestoso, con sapienza, nel corso del tempo, antropizzato a scopi alimentari. Dopo circa 200 metri affronterete un ameno ponticello in legno (esclusivamente pedonale), che attraversa il fiume Adige. Da quì muovendo, prima per via Mercato, poi per la strada Provinciale n° 52, ed infine per via Peter Thalguter, arriverete, dopo circa un chilometro, nel centro di Lagundo, precisamente in località Riomolino, in prossimità della Chiesa Parrocchiale di Lagundo (intestata a San Giuseppe). Architettura mirabile, il cui riferimento paesaggistico è dato dall’altissimo campanile (oltre 70 metri), che si rifà alla tradizione altoatesina dei landmark di carattere religioso.
La Chiesa Parrocchiale di Lagundo, è stata realizzata su progetto dell’architetto Willy Gutweniger e di sua moglie Lilly, negli anni tra il 1966-1971, i quali hanno proceduto, in base all’attento controllo di un’apposita commissione parrocchiale. La Chiesa che ammicca all’architettura storica delle chiese altoatesine (soprattutto negli esterni), costituisce anche uno di quei rari esempi, in cui la metafora dell’architettura organica e quella dell’architettura razionale, si fondono, in una infinità di schemi compositivi e di dettagli. Si consiglia vivamente, quindi, di prendersi tempo a sufficienza per visitare la Chiesa (soprattutto negli interni), per apprezzarne la complessità, e riuscire a carpire i segreti del linguaggio simbolico di questa costruzione religiosa, che anche si rifà alla tradizione architettonica altoatesina. Il cemento armato a vista, il metallo, si alternano, alla pietra ed all’intonaco grezzo: spesso le citazioni evidenti di Le Corbusier e Frank Lloyd Wright, sembrano fondersi in dettagli che richiamano decisamente al migliore Carlo Scarpa. L’impianto planimetrico è dichiaratamente impostato sul richiamo di forme esagonali, a navata unica, con un’acustica perfetta. Magnifico l’altissimo campanile, che indica con uno slancio moderno il cielo. Maestose le vetrate, realizzate da artisti che in molti punti hanno costruito dei veri e propri “racconti” di trasparenze colorate.
Una piccola passeggiata “enogastronomopaesaggistica”, che risulta deliziosa in qualunque stagione, ma che dà il meglio di sé durante la fioritura dei meli.
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La luce a Genova è un elemento predominate del paesaggio. L’esposizione est/ovest, della città, schienata a nord dalle montagne, ed a sud contornata dal Mare Mediterraneo, fa si che l’architettura, e la città stessa, “vibrino” alle sollecitazioni luminose. Il cielo mutevole, completa la “magia luminosa” di questa città, particolarmente evidente all’ora del tramonto.
In una giornata di autunno inoltrato, Il teatro Carlo Felice risplende alla luce solare pomeridiana. Il teatro è il frutto di una serie di stratificazioni architettoniche, ed espressione della volontà “ferrea” di Genova di rimanere all’interno del ristretto numero delle città europee della cultura. Il progetto dell’ultimo “strato” del Carlo Felice, quello che vediamo oggi, è opera di Aldo RossiIgnazio Gardella, ed anche di Fabio Reinhart e Angelo Sibilla.
La prima pietra fu posta il 7 aprile 1987, e dopo quattro anni di intensi lavori, il Carlo Felice è stato ufficialmente consegnato al Teatro Comunale dell’Opera e nel 1992, in occasione delle Colombiadi, fu riaperto al pubblico. Il primo progetto, del Carlo Felice (il primo strato), fu del 31 gennaio 1825 ad opera di Carlo Barabino. Il progetto fu approvato il 31 dicembre dello stesso anno, ed i lavori procedettero rapidamente. Il teatro fu inaugurato il 7 aprile 1828. Diversi furono gli “strati” successivi, i restauri e gli ammodernamenti, che il teatro subì a partire dal 1859 fino al 1934, anno dell’ultimo intervento. Bombardato una prima volta nel novembre 1942, il teatro fu ristrutturato in “fretta e furia” per consentire la ripresa delle attività. Il 26 marzo 1943 fu inaugurato. L’8 agosto 1943, l’edificio del Barabino venne di nuovo colpito da spezzoni incendiari che distrussero completamente l’intera struttura lignea. Nel dopoguerra, si cominciò a parlare di una sua ricostruzione. Un primo progetto fu presentato nel 1951 ma venne poi abbandonato per mancanza di fondi. Un progetto, magistrale fu quello di Carlo Scarpa, approvato nel 1977, ma la morte improvvisa dell’architetto fece decadere il tutto.
La luce è il dato principale, che fa cogliere agli umani, il senso del trascorrere del tempo, della nostra ineluttabile caducità, per altro comune a tutte le cose di questa parte di universo. La luce che c’è a Genova al tramonto, altamente scenografica e teatrale, ci parla di questo, e di una città, che trova nelle sue architetture, a strati, quasi fossero una sopra all’altra, in lotta con le montagne retrostanti, il tentativo di fissare, in un’architettonica commedia, il trascorrere del tempo.
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Se vi capita di andare a Zurigo in Svizzera, potrebbe essere una cosa buona e giusta, deviare per una località non molto distante Aarau. La cittadina (poco più di 20.000 abitanti) capitale del cantone di Argovia è molto ben collegata con le città Svizzere di Berna e di Zurigo e di fatto ne rappresenta una sorta di continuità.
Aarau, posta in una zona strategica, su una piana alluvionale sulla riva del fiume Aar (che le diede il nome), ai piedi dei monti della catena del Giura, fu in passato un’importante centro tessile, e capitale della confederazione Svizzera per cinque anni tra il 1798 ed il 1803. L’omogeneo centro storico, possiede i tipici tetti a falde dipinti più interessanti della Svizzera.
Vi chiederete perchè venire fin quì, ma se amate il paesaggio e l’architettura, lo scoprirete facilmente. La città è deliziosa, tranquilla, con un legame intimo, con il fiume che l’attraversa e con la sua “campagna”. Tantissimo verde, e quà, e là una serie di edifici di architettura contemporanea pregevoli che “twittano” con il paesaggio ed inusuali per un così piccolo centro. Ad iniziare dalla “Aargauer Kunsthaus Extension” concepita da Herzog & De Meuron nel 2003. Un edificio sensuale, in cui il muschio che si sviluppa copioso, soprattutto in autunno ed in primavera, sui blocchi di tufo della copertura/piazza, costituisce uno dei riferimenti principali dell’architettura percettiva e mutevole, cara ai due “geniacci” di Basilea. Bellissimi anche gli interni, con la grande scala a chiocciola, che come un “cavatappi”, sembra attraversare tutto l’edificio fino in copertura. Vetrate e parapetti “fluo” completano la fascinazione, in un’operazione di marketing turistico, che ha anche molto da insegnare alla pochezza della politica italiana in merito.
Anche l’edificio del mercato coperto, tutto in legno, collocato nel centro storico (Flösserplatz), con la sua struttura a vista e le lamelle che creano un inusuale rapporto tra interno ed esterno, rappresentano un approccio “diverso” al tema dell’architettura. L’edificio si fa apprezzare soprattutto per il dialogo che instaura con l architetture del centro storico, dialogo che è anche “materico”. Il progetto, vincitore di numerosi premi, lo si deve allo Studio Miller & Maranta, ed è del 2002 (foto sottostante tratta dal sito myswitzerland.com).
Il parcheggio sotterraneo, vicino alla stazione ferroviaria (foto sottostante tratta dal sito myswitzerland.com), è palesato in superficie, da una costruzione “plastica”. L’edificio progettato dallo studio di architettura Schneider & Schneider di Aarau genera un luogo di attrazione, determinando degli spazi di arredo urbano e di verde, rigorosi e definiti. Restituendo una percezione molto chiara della contaminazione teutonica di questa architettura.
Poi vi sono da vedere : La Stazione Ferroviaria di Theo Hotz (in vetro), la sopraelevazione Gais dello studio Frei Architekten AG (in beton), la Hislanden Klinik di Architektur Burkard & Meyer Architekten Baden (in metallo e vetro), ecc. Sembra proprio che quì a Aarau, l’architettura dei materiali e della loro “percezione”, abbia un vero e proprio epicentro, facendoci riflettere sulla dimensione umana, sui sensi, quali apparati a cui l’architettura (quella vera), non può assolutamente prescindere.
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11 novembre 2012 – Autunno, foglie gialle in “caduta libera”, tantissima pioggia, vento freddo, cielo plumbeo, voglia di un fuoco caldo, di amicizia, di paesaggio, di profumi, di “mangiarsi il paesaggio”.
Cosa c’è di meglio, in questa “condizione umana”, di una gita fuori porta, in un luogo vicino, ameno, ricco di storia, come può esserlo solo un pezzo del territorio italiano, raggiungibile da Milano in pochi minuti, nel fine settimana, che da protocollo, consente la commercializzazione del vino novello.
Famelici di paesaggio, come possono esserlo solamente tre amici avvezzi alle “zingarate enogastronomicopaesaggistiche”, anziani ma non troppo, colti ma non troppo, capaci di guardare al futuro ma non troppo, ci siamo orientati con una vecchia Toyota Corolla, gravida di oltre 180.000 chilometri percorsi, verso San Colombano al Lambro.
La collina di San Colombano al Lambro (che è in provincia di Milano), è da sempre, da più di due millenni, una limitata zona vitivinicola che gode di condizioni pedologiche e climatiche particolari. La collina si alza dalla pianura circostante di circa 75 metri, è luogo eccelso di produzione degli unici vini d.o.c. (Denominazione di Origine Controllata), della provincia di Milano. Nelle giornate limpide, dalla collina che sovrasta il delizioso paese di San Colombano, la visuale spazia verso nord ed arriva a tutto l’arco alpino, mentre dalla parte di Miradolo Terme, verso sud, lo sguardo si apre sulla depressione naturale della valle del Po fino agli Appennini. Il paese, piccolo ed elegante, è sotto la collina, dominato dalle antiche mura del Castello dei Belgioioso, a “recinto”, numerose e significative le chiese, che videro il giovane Don Gnocchi che quì nacque, assiduo frequentatore.
Le caratteristiche del terreno, che alterna zone sabbiose a zone calcaree molto permeabili, il sottosuolo ricco di minerali, la costante esposizione (ideale) al sole, fanno della collina un ambiente ideale e naturalmente vocato per la coltivazione della vite. Quì il paesaggio è stato da secoli “addomesticato”, tanto che oggi la coltivazione della vite, rappresenta una “texture paesaggistica” sofisticata e complessa, che testimonia del sapiente connubio tra uomo e natura. Come scrive Gilles Clément nel suo bellissimo libretto “Breve storia del giardino” (Quodlibet, 2012) : ” La storia ci parla di un luogo, ma poco del tempo, del tempo che passa, della durata, del tempo che consente l’impianto al suolo (la vite impiantata nel terreno fertile diventa produttiva dopo 2/3 anni), dell’incontro fra gli esseri viventi, dell’ibridazione e la nascita dell’imprevedibile (produrre vino con costanza è il frutto dei protocolli, e vale un 30%, ma il tempo meteorologico decide il restante 70%). La storia preferisce le forme e i grandi gesti architettonici che hanno lasciato una traccia sorprendente e indiscutibile del genio umano (piuttosto che gli orti, le colture, i giardini, sempre mutevoli). Eppure è quì, nello spazio del tempo, che a mio avviso si delineano le questioni del futuro”. Produrre vino, come avviene in molte cantine di San Colombano, è un’arte, che deve fare i conti con il tempo che passa, con i ritmi della natura, con il movimento degli astri.
Risulta poi evidente annotare che quì, a San Colombano al Lambro, siamo ancora nel territorio di Milano, là dove il consumo di suolo ha raggiunto livelli che definire “folli” è poco, eppure la conquista di un punto di vista “alto”, elevato, consente di superare le regole (ed i punti di vista) della pianura, della vita piana, piatta, della concentrazione “densa” imposta dalle regole esclusivamente economiche.
Elevandoci, possiamo distaccarci, magari solo per alcuni momenti, dal nostro quotidiano, e proiettarci con la mente, ma anche attraverso lo sguardo, nello spazio libero, nel paesaggio. L’estasi della contemplazione, ci rende liberi. Possiamo così constatare che nonostante la moltitudine umana milanese, quì, non molto lontano dal”caos”, possiamo ancora apprezzare la speranza progettuale di un rapporto corretto tra uomo e natura. Ed anche di nuovo acclarare che esiste, probabilmente una possibilità di futuro, di lavoro e di crescita consapevole, per tutti, e per un Paese, l’Italia, che forse, per troppi decenni ha trascurato (e poco progettato) il connubio intimo, tra : paesaggio, cultura, turismo, enogastronomia. Appare quì, su questa collina, chiaramente tangibile la convinzione che, le politiche per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico-artistico-agricolo-ambientale e del paesaggio nel suo insieme, e le politiche di promozione delle attività di produzione (di eccellenza) enogastronomica, culturali e di spettacolo, connesse con la promozione di un turismo consapevole, sostenibile, legato alla fruizione della bellezza e della “qualità” nel suo insieme dei nostri territori, debbano essere considerate e trattate a tutti gli effetti come un asse portante per lo sviluppo presente e futuro, del nostro Paese.
Il vino, soprattutto quello novello aiuta certamente a questa “elevazione”, a prendere una giusta “distanza dal Mondo”, a conquistare, una prospettiva nuova, uno sguardo inusuale, che quì appare quanto mai tangibile .
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Quì sopra alcune foto delle zone agricole del Brasile tra Rio de Janeiro e Brasilia
L’occasione era ghiotta, di quelle, che non si possono assolutamente rifiutare, una possibile occasione di lavoro fuori dal continente europeo, ma soprattutto incontrare uno dei massimi architetti viventi. Un uomo di 104 anni (esattamente il doppio dei miei anni), che ha lavorato ed ha conosciuto quasi tutti gli esponenti del movimento moderno. Per me un mito di sapienza, arte e cultura, Oscar Ribeiro de Almeida Niemayer Soares Filho (Rio de Janeiro, 15 dicembre 1907). Un caro amico svizzero aveva accuratamente organizzato il tutto, visto che il nostro interlocutore, in primavera (3 maggio 2012) era stato per alcuni mesi in ospedale per una polmonite, ed ai primi di giugno aveva dovuto partecipare ai funerali dell’ unica figlia Ana Maria (interior designer), ultra ottantenne. Ma l’uomo era d’acciaio, realizzato con uno stampo di cui si era gettata la matrice. Alle sollecitazioni del mio amico, aveva risposto quasi in maniera entusiastica ed aveva deciso di incontrarci nella sua magnifica villa “Casa da Canoas” di Sao Conrado, una località non molto lontano da Rio de Janeiro, ai confini del Parco Nazionale di Tijuca, dove aveva intenzione, insieme alla moglie (Vera Lucia Cabreira) di passare il mese di agosto a riposarsi e riprendersi.
Quì sotto un video e due foto della “Casa da Canoas”, magicamente sprofondata nel rigoglio primaverile della Mata Atlantica, sede attuale della Fondazione Niemayer
Purtroppo, quando tutto era gia’ stato organizzato, i biglietti dell’aereo prenotati, cosi’ come l’albergo, Niemayer, subiva l’ennesimo ricovero, questa volta per problemi circolatori.
Rimaneva l’occasione di lavoro (di cui diremo successivamente) ed il viaggio low cost a Rio de Janeiro, all’inizio della primavera australe. Quindici ore di aereo, dopo aver, abbandonato la Pianura Padana sul finire dell’estate, ecco un nuovo inizio, con quella caratteristica luce ed i profumi, che solo la primavera possiede.
La rivelazione, al di la’ delle architetture di Niemayer, di Costa Lucio, di Reidy Alfonso Eduardo, di Burle Marx Roberto, e’ stato il sistema paesaggistico della Baia di Guanabara a Rio de Janeiro, dove per una alcuni giorni abbiamo navigato le sue acque e percorso le sue coste, visitato le citta’ che lo compongono, osservandone il sofisticato sistema ambientale ed il complesso disegno progettuale (ambientale, sociale ed architettonico) che governa da decine di anni la vita di : persone (oltre 12 milioni), piante (la Mata Atlantica), animali (pesci, scimmie, rettili, ecc.). Quì sembra che natura ed architettura abbiano saputo trovare un equilibrio, una giustezza.
Quì sotto la Baia di Guanabara osservata dal Morro da Urca
Ecco, la scoperta e’ stato proprio il Brasile (siamo stati a Rio, a Brasilia), ed al di la’ della visione preconcetta che ne abbiamo noi europei (carnevale, sole, sesso, insicurezza sudamericana, ridanciana approssimazione, ecc.), si e’ mostrato ai nostri occhi, come quel “paese del futuro”, descritto con toni entusiastici da Stefan Zweig nel suo libro della fine degli anni Quaranta del Novecento. Probabilmente questa è una condizione perenne di questo grande paese, che però oggi, forse, ha trovato una sua strada per realizzarsi veramente, strada che si basa sulla tutela dell’ambiente, i prodotti ecologici, la sostenibilità.
Quì sotto la Baia di Guanabara dal MAC (Museo di Arte Contemporanea) a Niteroi
Alcuni dati : oltre 8 milioni e mezzo di chilometri quadrati di superficie (28 volte l’Italia), più di 190 milioni gli abitanti, circa 20 abitanti per chilometro quadrato (in Italia 191). Il Brasile è un paese con una popolazione giovane: il 30% degli abitanti ha meno di 14 anni e solo l’8% ha più di 65 anni. Tre quarti della popolazione risiede in una città (come nell’Unione Europea, in Italia il 67%). Vi sono 14 città con oltre un milione di abitanti (19 nell’Unione Europea, 3 in Italia).
Il debito pubblico è stato completamente azzerato dai due mandati del presidente Luiz Inacìo Lula da Silva, crescita prevista del P.I.L. (Prodotto Interno Lordo) nel 2012 nonostante la crisi economica mondiale del +2% (nel 2010 + 4,6%, nel 2011 +4%), completa autosufficienza energetica (72% da energia idroelettrica), primo produttore al mondo di carne (200 milioni di bovini), primo produttore al mondo di zucchero (il cui consumo mondiale cresce del 2,5% all’anno), primo produttore al mondo di soia e di cellulosa in pasta, primo produttore al mondo di caffe’ e di tabacco, primo produttore al mondo di etanolo e bio carburanti. Tanti gli investimenti governativi in produzione di energia, edilizia residenziale, infrastrutture, musei, stadi sportivi, anche in vista dei Campionati del mondo di calcio (Rio 2014) e delle Olimpiadi (Rio 2016).
Importanti provvedimenti sono stati già presi dal Governo della neo presidente Dilma Roussef, rispetto ai temi sociali ed a quelli ambientali, tra cui una legislazione molto rigorosa sullo spaccio della droga e contro la deforestazione della Foresta Amazzonica, che già sta dando i primi effetti. Anche se non son tutte rose e fiori, come la violenta contestazione degli Indios contro la centrale idroelettrica di Belo Monte, voluta dal Governo per supportare la richiesta di energia dei prossimi decenni. Un paese, quindi, il Brasile odierno, di “contrasti”, che però di fatto sono l’espressione più eloquente di un paese in crescita che guarda al futuro.
Quì sotto la foto di una Favela a Rio
Ovviamente ancora tante le contraddizioni e le disparita’ sociali, secondo una ricerca dello scorso anno (2011) fatta dal Istituto brasiliano di geografia e statistica, oltre 11,4 milioni di cittadini brasiliani (circa il 6% della popolazione) vivono nelle favelas nate spontaneamente ed in maniera caotica e casuale, spesso senza fognature, luce ed acqua corrente. Bisogna pero’ anche dire che molte sono le iniziative governative per programmi sociali ed urbanistici di riqualificazione di queste fasce della popolazione. Tante sono le attività di organizzazioni internazionali e religiose, che finalizzano i tanti giovani (per sottrarli alla droga ed alla criminalita’ mafiosa) alla raccolta differenziata dei rifiuti, che nelle grandi aree urbane, come Rio, ha raggiunto livelli di una sofisticazione degna delle grandi nazioni nord europee.
Quì sotto un’immagine dei cestini che si incontrano a Rio de Janeiro
Quì sotto un raccoglitore di lattine di alluminio lungo una spiaggia a Rio
Quì sotto una foto di una rastrelliera per bike sharing a Rio
Quì sotto un’immagine della pista ciclabile lungo la spiaggia di Ipanema
Ma ritorniamo a Rio, quì è diffusissimo, ed altamente semplificato, l’utilizzo della bicicletta, anche per rifornire i negozi ed i chioschi lungo le spiagge, con tante piste ciclabili ed un bike sharing che puo’ essere attivato direttamente dal cellulare. Ovunque, grande attenzione per il verde, per l’ambiente e per i mezzi pubblici. Una delle cose che ci ha stupito di piu’ sono i giochi all’aperto, per la terza eta’ che numerosi contraddistinguono, insieme ai giochi bimbi, tutte le aree verdi. Una maniera semplice ed intelligente per “fare uscire gli anziani” ed agevolarne la motricita’ e la socialita’. Il settore parchi e giardini della Prefettura di Rio, con l’istituzione del Parco Nazionale di Tijuca, ha reso più complessa, la vegetazione delle vie urbane, coinvolgendo le aiuole ed i tronchi delle piante, agevolando l’insediamento su di essi, di bromeliacee ed orchidee. Ciò ha come, portato per le vie della città, la Mata Atlantica (la foresta Tropicale), favorendo l’insediamento di piccole scimmie e soprattutto di uccelli.
Quì sotto una mappa con un percorso di paesaggio ed architettura a Rio de Janeiro
Quì sotto alcune immagini dei giochi per la motricità degli anziani a Rio
Bisogna anche dire, che al di là delle ovvie contraddizioni di metropoli, quali : Rio de Janeiro (oltre 6 milioni di abitanti – 12 milioni nell’area metropolitana), San Paolo (oltre 10 milioni di abitanti) e Brasilia (quasi 3 milioni di abitanti), da decenni in Brasile si sta riflettendo sul rapporto tra architettura e paesaggio, anche grazie a “maestri” come Niemayer, Lucio Costa e Mendes da Rocha. Ciò ha prodotto una qualità diffusa del costruito, soprattutto recente, e delle soluzioni paesaggistiche quanto mai interessanti proprio perchè sempre integrate con l’architettura. L’edificio, sia di nuova costruzione o di ristrutturazione, viene sempre “legato” al contesto, avendo come “mediazione” il verde e le sistemazioni esterne. La scuola di Paesaggio è quanto mai all’avanguardia, avendo avuto in Burle Marx un genio ante litteram in merito.
Non so, ma questo primo impatto con l’emisfero australe e con il Brasile, al di là della remota e flebile possibilità di poterci lavorare a breve, ha presentato ai nostri occhi una realtà in movimento, dinamica, proiettata a dare qualità al presente. Una ragazza italiana, che si è trasferita a Rio, da Napoli, e che lavora in un grande magazzino di abbigliamento in centro, ci ha fatto notare che almeno lì hanno un’idea del futuro soprattutto per i giovani, e che molti sono gli italiani giovani che si trasferiscono in Brasile (Quinta potenza economica mondiale) alla ricerca di lavoro. E poi, per tutti, in Brasile c’è la natura, che seppur marginalmente antropizzata, quì, da ancora la sensazione di essere forte e rigogliosa (ricca di biodiversità), immensa, una vera “culla di tutti gli organismi viventi” di questo bistrattato pianeta. Una natura dolce, bellissima ed al contempo crudele e spietata, che quì sembra ancora possibile, possa, da un momento all’altro, riprendersi quello che gli abbiamo indiscriminatamente sottratto.
Quì sotto alcune immagini della penetrazione della “Mata Atlantica” per le vie di Rio
Quì sotto alcune immagini della Mata Atlantica nel Parco di Tijuca
E per finire ovviamente un pò di samba
Con il rispetto del copyright delle immagini selezionate
“L’architetto deve occuparsi delle questioni tecniche, che hanno un ruolo di primaria importanza nella creazione. Padroneggiare questa mistica professione implica uno sforzo colossale. non intendo evidenziare l’aspetto meramente ingegneresco del costruire, ma quella legge misteriosa delle proporzioni, quel filo rosso presente in tutti gli edifici di tutti i tempi.” – Alvar Aalto . Pittori e muratori – 1921 (Ed. Zanichelli)
Campus di Otaniemi (Helsinky 1998)
Ad un amico, direi di andare ad Helsinky con il cuore aperto di chi si lascia cullare dalla mitica luce del nord. Direi di girovagare, facendo lunghe passeggiate in attesa della notte, che di fatto non viene mai. Ogni cosa o persona che si incontra appare magica, misteriosa. Quì tutto è Paesaggio sapiente e condiviso. Ad un architetto direi di evitare di scattare troppe foto, la luce, che cambia continuamente, chiede come di essere seguita in questo suo mutare, e l’architettura della composizione, e quella dei materiali ne risulta titillata fino allo stordimento. Meglio un taccuino su cui prendere ogni tanto appunti.
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Per definire un corretto equilibrio tra Natura ed Architettura, fatto che concorre a “strutturare” il significato del termine Paesaggio in ogni sua accezione, occorre innanzitutto avere dei parametri di riferimento. Ecco la Valle di Ledro (Trentino), per molti aspetti, racchiude ancora, nonostante l’esasperata antropizzazione di alcune zone, dovuta soprattutto al turismo ed al deleterio fenomeno (tipicamente italiano) delle “seconde case”, questo parametro, questa potenzialità, che spesso viene confusa con il termine bellezza. L’intero territorio ledrense è attualmente ripartito in sei Comuni : Tiarno di Sopra, Tiarno di Sotto, Bezzecca, Concei (Locca – Enguiso – Lenzumo), di Pieve (Pieve e Mezzolago), di Molina (Molina, Legos, Barcesino, Prè e Biacesa), in tutto, in valle si contano poco più di 5.000 abitanti. La Comunità di Valle, da pochi anni costituita, risulta molto attiva anche nella gestione del territorio e nella definizione futura degli assetti paesaggistici, soprattutto in funzione della prioritaria industria turistica .Dal giugno 2015 è stata dichiarata dall’UNESCO : “Riserva mondiale della biosfera”.
Un’altitudine del fondovalle tra i 650 ed i 700 metri, un clima ottimo, soprattutto nei mesi estivi, mitigato, anche in inverno, dall’azione del vicino lago di Garda, hanno consentito lo sviluppo di una fiorente attività turistica, incentrata su un’accoglienza che non ha pari, soprattutto nelle disponibilità paesaggistiche.
La valle, presenta una lunga storia di occupazione umana del territorio, infatti si contano tracce nel bellissimo museo di Molina di Ledro, databili oltre due millenni prima della nascita di Cristo : Liguri, Nordalpini (palafitticoli) e, più tardi (200 a.C), i Galli, gli Euganei, ed i Veneti. Furono poi i Romani (15 a.C. – 476 d.C.) a dare una prima organizzazione alle popolazioni ledrensi. Significativa anche la lunga dominazione Austriaca, che ha caratterizzato tutto il Trentino, spezzata dai Garibaldini con la “epica” Battaglia di Bezzecca del 1866. In tal senso, come spesso avviene, la storia della “costruzione” del Paesaggio, coincide con diversi modelli di organizzazione sociale delle comunità presenti sul territorio, e dalla loro capacità di utilizzare “bene” gli elementi presenti nelle vicinanza. Infatti in Valle di Ledro, la presenza di un lago e di numerosi corsi d’acqua, consentì di avere, sin dall’alba dei tempi una notevole disponibilità di questo importante liquido per la vita umana. Infatti l’interazione tra abbondanza d’acqua e opera umana (d’ingegno) ha connotato il paesaggio di questa valle meravigliosa. Semplifica Fernand Braudel: “Un po’ d’acqua e tutto all’interno dei continenti si anima” (La struttura del quotidiano – Einaudi – 1979), ed infatti qui a Ledro, la regimentazione del lago, ottenuta mediante una galleria discendente verso il Lago di Garda, consente di produrre energia elettrica in maniera intelligente ed ecologica. Un Paesaggio, quello della valle di Ledro, diviso tra la pastorizia (capre, pecore e mucche), i lavori di campagna (coltivazione delle patate e del grano saraceno), l’economia del bosco (legna da ardere e legname per le costruzioni), che ha però avuto nell’efficienza delle vie di comunicazione la sua sublimazione imprenditoriale e commerciale prettamente turistica, che qui in valle, ha significato creare relazioni stabili con Riva del Garda (sull’omonimo Lago) e con Storo (nelle Giudicarie). Vie che nel caso della strada del Ponale, hanno rappresentato delle vere e proprie sfide ingegneristiche e paesaggistiche. Infatti, percorrere ancora oggi, in una bella giornata, questa importante arteria, ora destinata esclusivamente ai ciclisti ed ai pedoni, rappresenta forse una delle più belle esperienze paesaggistiche di tutta Italia. L’attività, sia della Provincia Autonoma di Trento, che della comunità montana, ha consentito, negli ultimi decenni di intraprendere delle attività di recupero del Paesaggio, colte intelligenti e sostenibili : valga per tutte la bonifica del Biotopo di Ampola, una volta discarica di rifiuti, e la sistemazione dei percorsi paesaggistici ciclo pedonali attorno al Lago di Ledro. Anche l’inserimento di nuove architetture contemporanee (Pensione Elda a Concei, Centro Culturale Giovanile a Bezzecca), non è avvenuto in maniera “becera”, rifacendosi banalmente al passato, ma anzi, sublimandolo con citazioni colte e minimaliste. Quì in valle l’architettura ed il territorio, hanno saputo adattarsi e modificarsi alle esigenze di ogni epoca, avendo come perno una visione attenta e colta delle finalità paesaggistiche. Invece il Paesaggio italiano ha subito (e continua a subire) un degrado senza precedenti, tanto che la bellezza della sua scena è molto compromessa, ecco una visita in valle di Ledro, consente ancora di percepire la possibilità di porre un argine a questo scempio, che passa sotto gli occhi di tutti, e forse addirittura consente di ipotizzare un programma per un possibile restauro.
Lago di Ampola
Ampola – Percorso didattico Biotopo
Tiarno di Sotto – Campanile
Lago di Ledro
Chiesa di Pieve di Ledro
Lago di Ledro
Lago di Ledro – Belvedere
Lago di Ledro – Mezzolago
Lago di Ledro – Besta Beach
Molina di Ledro – Museo palafitticolo – 1972
Museo palafitticolo
Museo palafitticolo
Val di Concei
Pensione Elda – Concei – progetto : arch. Lara Zoccatelli Riva del Garda – TN